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www.ildialogo.org QUO USQUE TANDEM ABUTERE,CATILINA, PATIENTIA NOSTRA?,di Daniela Zini

QUO USQUE TANDEM ABUTERE,CATILINA, PATIENTIA NOSTRA?

di Daniela Zini

 
Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris?”
Fino a quando, dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Quanto a lungo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua sfrenata audacia? Non ti scossero né il presidio notturno sul Palatino, né le sentinelle della città, né la paura della gente, né l'accorrere di tutti gli onesti, né questo difesissimo luogo sede di riunione del Senato, né l'espressione del volto dei qui presenti? Non ti accorgi che i tuoi piani sono stati sventati, non vedi che la tua congiura è, ormai, tenuta sotto stretta sorveglianza dalla conoscenza di tutti questi? Chi di noi pensi che ignori cosa hai fatto la scorsa notte e quella prima, dove sei stato, chi hai chiamato attorno a te, quale decisione hai preso?”
M. Tullio Cicerone, Prima Catilinaria
Nelle prime righe delle sue Confessioni, Jean-Jacques Rousseau evoca con passione gli slanci di coraggio e di virtù che suscitavano in lui, nella sua giovinezza, gli atti eroici degli uomini illustri dell’Antichità: si sentiva infiammato all’idea di emulare un Muzio Scevola che, grazie al suo coraggio, alla sua determinazione e alla sua abnegazione, era riuscito a liberare la giovane Repubblica romana dalla minaccia del re etrusco Porsenna.
Rousseau non è il solo della sua generazione a essere profondamente influenzato dai modelli che l’Antichità forniva: la democrazia ateniese e la Repubblica romana ispireranno i rivoluzionari del 1792, quei successori di Rousseau che daranno vita alla prima Repubblica francese.
Ma se il modello democratico ateniese poteva ben sedurre i loro spiriti improntati all’eguaglianza, quello che offriva loro la Repubblica romana non aveva niente di democratico!
Quello che avevano fissato del modello romano era che, nel 509 a.C., un pugno di cittadini aveva scosso il giogo della tirannia, cacciando, definitivamente, dalla città di Roma i re che vi regnavano da circa duecentocinquanta anni. Sarebbero rimasti molto delusi se avessero avuto idea della realtà del regime politico che era nato da quella rivoluzione e che mirava solo ad assicurare ricchezza e prosperità a una oligarchia agiata, molto poco interessata al bene del popolo. Le derive elettorali di questo regime, particolarmente nel II e nel I secolo prima della nostra era, richiamano alla mente lo spettacolo che alcuni regimi democratici attuali offrono, talvolta, di sé. Potremmo giudicarne, rileggendo alcune testimonianze di Sallustio e di Cicerone, che hanno visto, in quell’epoca, la violenza politica invadere le strade di Roma.
Verso il 40 a.C., nell’ora in cui gli eredi di Cesare si disputano il potere in una Repubblica moribonda, lo storico Sallustio porta uno sguardo amaro sui costumi politici della sua epoca. Il moralismo, che permea le sue riflessioni, rivela la sua nostalgia per un passato idealizzato, allorquando solo il proposito di surclassare in virtù e in gloria gli antenati animava gli uomini politici romani:
 
At contra, quis est omnium his moribus quin divitiis et sumptibus, non probitate neque industria cum maioribus suis contendat? Etiam homines novi, qui antea per virtutem soliti erant nobilitatem antevenire, furtim et per latrocinia potius quam bonis artibus ad imperia et honores nituntur: proinde quasi praetura et consulatus atque alia omnia huiuscemodi per se ipsa clara et magnifica sint, ac non perinde habeantur ut eorum qui ea sustinet virtus est. Verum ego liberius altiusque processi, dum me civitatis morum piget taedetque; nunc ad inceptum redeo.”
Nei nostri costumi attuali, al contrario, è in ricchezza e in prodigalità che si vuole surclassare i propri antenati, non in probità e in energia. Anche gli uomini nuovi, che, non molto tempo fa, avevano l’ambizione di trionfare sulla nobiltà grazie al proprio valore, si sforzano di conquistare poteri e onori non attraverso il merito, ma il brigantaggio; come se la pretura, il consolato e le altre cariche fossero cose gloriose e onorabili per se stesse e non ritenute tali per i meriti di coloro che le rivestono. In verità, mi sono troppo allontanato dall’argomento, ma il modo di vivere dei miei concittadini mi offende e mi disgusta. Torno, dunque al mio assunto.”
Sallustio, La Guerra di Giugurta, Capitolo IV
 
Queste righe di una sorprendente intensità ci espongono tre elementi fondamentali della vita politica nell’ultimo secolo della Repubblica: la composizione della classe politica, la finalità della politica e i mezzi messi in atto per giungervi.
La questione della corruzione non è nuova in sé e dal momento stesso in cui si è costituita una società politica, vale a dire uno spazio, che non si identifica né con gli individui in quanto tali, né con la sfera privata dei gruppi o delle comunità, la corruzione ha costituito un problema potenziale.
Innegabilmente, non tutti i sistemi politici vi hanno prestato la medesima attenzione. Ma là ove la divisione tra sfera politica e sfera commerciale è stata eretta come principio, là ove l’interesse pubblico è distinto dagli interessi privati, là ove lo Stato ha fatto battere in ritirata il patrimonialismo, il clientelismo, il nepotismo, là la corruzione è considerata una patologia.
Non è indulgere all’idealismo o al moralismo ricordare che i sistemi politici, in generale, e le democrazie, in particolare, sono fondati su un insieme di valori più o meno complessi che li sottendono e li sostengono.
Come scrive Giovanni Sartori:
 
Sappiamo da Machiavelli in poi che la politica è diversa dalla morale. Secoli dopo si è stabilito che anche l’economia è diversa dalla morale. Ma la distinzione tra etica, politica ed economia distingue tra sfere di azione, tra campi di attività. In concreto, e a monte di queste differenziazioni, esiste la singola persona umana che non è trina ma soltanto una, e che può variamente essere una persona morale, amorale o immorale.
E quando si dibatte la «questione morale» è di questo che si dibatte, è da qui che si deve partire. Le persone morali sono tali in tutto: anche in politica e anche in economia. Le persone amorali non promuovono il bene ma nemmeno si dedicano al male, anche perché sono fermate, nel malfare, da freni interiorizzati. Invece le persone immorali ridono dei cretini che credono nei valori e non sono fermate da nulla (o soltanto dal pericolo di finire in prigione). Per i primi non è vero che il fine giustifica i mezzi. Per i secondi il fine può giustificare qualche mezzo scorretto, ma non tutti. Per le persone immorali il fine di fare soldi o di conquistare potere giustifica qualsiasi mezzo: non c’è scrupolo, non c’è «coscienza » che li fermi. (…)
Sono un moralista? Sì, ma non perché faccio confusione tra etica e politica; lo sono in quanto sostengo che deve esistere una moralità politica e, alla stessa stregua, una moralità economica; e che in tutti i settori della vita associata devono esistere regole che le persone perbene rispettano. Appunto, le persone perbene.”
Giovanni Sartori, La questione Morale, Corriere della Sera 13 agosto 2005
 
Riconoscere che i sistemi politici, a iniziare dalle democrazie, siano fondati su valori, la cui violazione mina la legittimità, sottintende che la corruzione non sia da considerare un fenomeno secondario, un male benigno e inevitabile, da dover, certo, combattere, ma impossibile da sradicare.
Definire la corruzione non è agevole, tenuto conto delle variabili culturali nella gerarchia dei valori, nella definizione reciproca del pubblico e del privato, nell’atteggiamento più o meno lassista delle èlites e dell’opinione pubblica. La corruzione può essere definita come uno scambio clandestino tra due mercati, il mercato politico e/o amministrativo e il mercato economico e sociale. Questo scambio è occulto perché viola norme pubbliche, giuridiche ed etiche e sacrifica l’interesse generale a interessi privati (personali, corporativi). Una transazione che permette a settori privati di avere accesso a risorse pubbliche (contratti, finanziamenti, decisioni), in modo privilegiato e artificioso (assenza di trasparenza, di concorrenza) e procura agli attori pubblici corrotti benefici materiali presenti o futuri per se stessi o per il gruppo di cui sono soci.
 
 
Come ogni estate, anche quella del 63 a.C. è per Roma un periodo di passione. Si approssimano le elezioni per le magistrature. Quelle per i nuovi consoli, che entreranno in carica l’anno successivo, si annunciano particolarmente calde. I concorrenti, sia pure per diversi motivi, sono tutti elementi particolarmente quotati. Emerge in particolare L. Sergio Catilina, non tanto, agli occhi di molti, per le sue doti personali, quanto per il timore che suscita.
Non è la prima volta che Catilina tenta la scalata alla suprema magistratura repubblicana. L’anno precedente era, già, sceso in campo, battuto nettamente da M. Tullio Cicerone. Ora, questo nobile decaduto, questo patrizio che pretende di discendere da Enea, ex-sicario di Silla, all’epoca delle grandi proscrizioni, ci riprova, con un programma politico completamente rovesciato rispetto alle sue antiche convinzioni. Cancellazione dei debiti, distribuzione delle proprietà terriere statali (ager publicus che la nobilitas sfrutta indegnamente), fine dei privilegi ereditari che consentono a una ristretta cerchia di famiglie di manipolare le cariche pubbliche, queste poste sono le sue parole d’ordine.
Il fine ultimo che Catilina si propone è il rovesciamento dell’oligarchia senatoria e il ridimensionamento dell’ordine equestre. I consensi che raccoglie sono numerosi anche se eterogenei. Nullatenenti, nobili caduti in rovina e molti giovani bene desiderosi di novità e di potere, sono pronti a seguirlo. I veterani di Silla, che hanno dilapidato il bottino realizzato con il loro capo, sono tutti per lui. Perfino gli schiavi lo guardano con simpatia. Catilina dispone, inoltre, dell’appoggio di personaggi potenti, che pur restando nell’ombra, cercano di strumentalizzarlo per i propri fini. Si tratta di C. Giulio Cesare, astro nascente del partito dei populares, e di Licinio Crasso, il patrizio miliardario, che con i suoi crediti tiene in pugno una buona parte della popolazione romana, Cesare e Catilina inclusi.
Il console Cicerone – il collega Antonio è una figura del tutto secondaria – è preoccupato. L’anno precedente i voti coalizzati delle classi medie e superiori erano stati sufficienti a farlo prevalere. Questa volta teme che la lotta non si limiterà alla pura e semplice raccolta di suffragi. Sa per certo che attorno a Catilina si è formato un gruppo di individui decisi a tutto, per lo più nobili di fede sillana, rovinati economicamente come il loro capo. Spicca tra tutti per la sua personalità il pretore P. Lentulo Sura.
Pur non avendo prove, il console è sicuro che, subito dopo la sua vittoria elettorale dell’anno passato, si sia voluto attentare alla sua vita. Per la imminente riunione dei comizi consolari sono confluiti a Roma numerosi sostenitori di Catilina da Arezzo e Fiesole. L’Etruria, l’Apulia e il Piceno sono in fermento. La situazione dell’ordine pubblico è, a dir poco, piuttosto precaria, mentre le truppe migliori sono dislocate, con Pompeo, in Oriente.
Cicerone era riuscito, negli ultimi tempi, a infiltrare un paio di informatori nell’organizzazione catilinaria. Da questi viene a sapere di una riunione segreta, nel corso della quale sono state pronunciate parole incendiarie contro il governo legittimo, i ricchi e l’ordine costituito. Ormai appare chiaro che, se i comizi daranno ragione al partito senatorio, Catilina e i suoi seguaci ricorreranno ad altri argomenti. Preoccupa, soprattutto, la massa di persone convenute a Roma. La campagna elettorale del loro beniamino è tale da infiammare gli animi. Si parla apertamente di potere ai poveri e dell’avvento di una nuova era dell’oro.
Cicerone convoca d’urgenza il senato ed espone la situazione. Occorrono provvedimenti d’emergenza; soprattutto, è necessario rinviare le elezioni per motivi di ordine pubblico, nella speranza che molti dei convenuti in città, in buona parte favorevoli a Catilina, si dileguino.
I senatori sonnecchiano.
Alcuni parteggiano, nonostante tutto, per Catilina.
Altri, che, in fondo disprezzano Cicerone, anche se momentaneamente utile, ritengono che questo parvenu si agiti soprattutto a fini personali.
Catilina, presente nella seduta, ha buon gioco nel mostrare l’assoluta mancanza di prove a suo carico. Quando Catone, passato, poi, alla storia come l’Uticense, gli domanda cosa vi sia di vero in tutta la faccenda, risponde con orgogliosa sicurezza che lo Stato romano si compone di due corpi: l’uno debole e vacillante, ma con la testa, l’aristocrazia, e l’altro forte e vigoroso, ma privo di guida, il popolo. Suo programma, legale, era ovviare a questa situazione.
La proposta di Cicerone, dunque, viene respinta e le elezioni tenute alla data stabilita (settembre 63 a.C.). I sostenitori di Catilina rimangono in città, ma i loro voti, ancora una volta, si rivelano insufficienti. Oltretutto Cicerone denota un inaspettato grado di fantasia, presentandosi in pubblico, il giorno delle votazioni, con una folta scorta e protetto da una grande e splendente lorica.
L’immaginazione della plebe ne resta colpita.
Sono eletti D. Giunio Silano, nobile ricchissimo, e L. Licinio Murena, una creatura dei pubblicani.
La situazione si deteriora.
La tensione è acuita dalle accuse di brogli che una parte stessa dei conservatori lancia a Murena.
Catilina deve fronteggiare l’impazienza dei suoi, soprattutto di Lentulo, che si sente l’uomo della provvidenza, in base a una profezia dei Libri Sibillini. Catilina è, invece, ancora combattuto nella scelta tra via legalitaria e rivoluzionaria. Vuol vedere come finirà il processo a Murena, che, più tardi, sarà assolto. Si è posizionato terzo nella consultazione elettorale. In caso di condanna dell’avversario, succederebbe d’ufficio. Intanto, manda i suoi luogotenenti C. Manlio e C. Flaminio in Etruria, per reclutare il maggior numero possibile di armati. Altri agenti fidati si dirigono in Apulia e nel Piceno. Rinforzi potrebbero giungergli dalla Mauritania. A Roma non si aspetta che un suo cenno.
In questa situazione, instabile e delicata, accade, d’improvviso, il fatto nuovo. Gli occulti protettori di Catilina, coloro che dall’ombra lo manovrano e lo finanziano, per i propri fini di potere, temono che il gioco si stia facendo pericoloso. Loro scopo era quello di provocare un incendio, del quale presentarsi, in seguito, come “estintori” – Crasso, poi, ha un’esperienza effettiva in materia, ha organizzato un corpo di vigili, ufficialmente per soffocare gli incendi, assai frequenti, in realtà, per appiccarli e acquistare, poi, i terreni edificabili a prezzi stracciati – e non di restare coinvolti nel rogo. Le proposte di abolizione dei debiti e di stesura di nuovi registri, tabulae novae, non possono, certo, piacere all’usuraio Crasso. Quanto a Cesare, questi vuole riformare e non distruggere.
La notte del 20 ottobre, Crasso riceve misteriosamente, per sé e per altri senatori, delle lettere anonime, nelle quali si consigliano i destinatari ad abbandonare la città, perché gravi eventi si stanno preparando. Naturalmente, sente che è suo dovere avvertire il console. Cicerone, prese in consegna le lettere, convoca il senato, il 21 ottobre, e ordina a ogni destinatario di leggere, ad alta voce, il contenuto della propria missiva. Vi sono espresse minacce e previsioni di sanguinosi disordini. L’impressione, enorme, aumenta, ulteriormente, quando uno dei senatori più vicini alle posizioni di Cesare, Q. Arrio, dà notizia di disordini imminenti in Etruria, che effettivamente scoppieranno, il giorno 27. Cicerone, sulla base delle sue informazioni, rincara la dose, annunciando che il 28 è prevista una strage di senatori e il 1° novembre un attacco a Preneste. A Capua e nelle Puglie scoppia, nel frattempo, una violentissima rivolta di schiavi.
Questa volta il senato non esita e decreta, con un senatus consultum ultimum, i pieni poteri per i consoli – in realtà, per Cicerone –. Vengono inviate truppe nelle località in fermento. In diverse zone si arriva all’arruolamento in massa di gruppi di volontari, sotto la direzione dei pretori.
A Roma le vie si fanno deserte, mentre presidi di armati vengono posti da Cicerone nei punti strategici. Sulla città scende una cappa di paura. In senato, riunito in seduta d’emergenza, parte la prima accusa di complotto contro Catilina. Questi si mette a disposizione dei Padri Coscritti per una verifica della sua posizione. È incerto sul da farsi, ma gli altri congiurati incalzano. Se non si passerà all’azione al più presto, è chiaro che l’intera organizzazione rischia di sfaldarsi miseramente.
Nella notte tra il 6 e il 7 novembre avviene, in casa di M. Porcio Leca, una nuova riunione dei congiurati. Ormai non si può più attendere. Scoppieranno incendi in varie parti della città e di ciò si approfitterà per uccidere i senatori più importanti. L’azione all’interno dovrà essere coordinata a quella esterna, in procinto di iniziare in Etruria. Ostinatamente, Catilina, nonostante le insistenze di Lentulo, rifiuta di fare appello agli schiavi. Eliminati i più eminenti uomini politici, sarà facile per gli insorti impadronirsi dell’Urbe e porre fine al potere dei nobili – non del loro, naturalmente – dei ricchi, dei corrotti. Condizione prima perché il piano riesca, è l’uccisione del console. Due dei congiurati, il senatore L. Vargunteio e il cavaliere C. Cornelio, si recheranno all’alba del giorno dopo all’abitazione di Cicerone, chiedendo udienza, e lo uccideranno. Ma in mezzo ai catilinari è sempre presente uno degli informatori governativi, M. Curio. Quando i sicari arrivano alla casa di Cicerone, trovano le guardie e sono, pertanto, costretti ad allontanarsi.
Qualche ora dopo, nel tempio di Giove Statore, Cicerone convoca nuovamente il senato. È presente anche Catilina, sempre più in veste di imputato. Nessuno degli astanti l’ha salutato. Questi siede in disparte, pensoso, mentre il console si accinge a parlare.
 
Fino a quando, dunque, Catilina”,
 
lo investe Cicerone,
 
“abuserai della nostra pazienza? Quanto a lungo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua sfrenata audacia? Non ti scossero né il presidio notturno sul Palatino, né le sentinelle della città, né la paura della gente, né l'accorrere di tutti gli onesti, né questo difesissimo luogosede di riunione del Senato, né l'espressione del volto dei qui presenti? Non ti accorgi che i tuoi piani sono stati sventati, non vedi che la tua congiura è, ormai, tenuta sotto stretta sorveglianza dalla conoscenza di tutti questi? Chi di noi pensi che ignori cosa hai fatto la scorsa notte e quella prima, dove sei stato, chi hai chiamato attorno a te, quale decisione hai preso?”
 
Dopodichè inizia la requisitoria vera e propria, con l’enunciazione dei piani approntati in casa di Lena e che Curio aveva passato a Cicerone.
 
Tu hai diviso l’Italia in settori, tu hai distribuito gli incarichi, hai stabilito i quartieri urbani da incendiare, hai organizzato l’attentato contro la mia persona.”
 
Sotto la montagna di accuse Catilina reagisce. Tre volte osa interrompere il discorso del console, tra urla e clamori.
 
Come si può pensare”,
 
grida rivolto agli altri senatori,
 
che  egli, di famiglia nobile tra le nobili, mediti l’affossamento della repubblica, mentre perfino un homo novus, un arrivista, vale a dire Cicerone, mostra di difenderla?” 
 
Ma le accuse di nemico della patria, di parricida (era stato addirittura sospettato di aver assassinato il padre) lo sommergono.
Cicerone, tuttavia, non intende ancora concludere. Arrestato Catilina, troppi sarebbero i congiurati ancora in libertà. Ufficialmente gli altri catilinari sono ancora sconosciuti, né Cicerone è in grado di addurre prove a loro carico. Meglio indurli a scoprirsi. Catilina deve andarsene da Roma.
 
Se fossi detestato dai miei schiavi”,
 
gli grida,
 
come tu dai tuoi concittadini, non esiterei un istante a lasciare il mio tetto.”
 
Catilina è isolato. I suoi sostenitori in senato tacciono o si sono eclissati. Spaventato e, nello stesso tempo, furibondo, urla:
 
Poiché circondato da nemici sono spinto alla disperazione, soffocherò gli incendi (quelli progettati) con le rovine di Roma.”
 
Cicerone ha vinto la prova con il suo infiammato discorso (Prima Catilinaria). Catilina la sera stessa se ne va, con trecento dei suoi. A dirigere le operazioni a Roma resta Lentulo. Prima di abbandonare l’Urbe, lascia una lettera per il princeps del senato Q. Catulo. L’incolumità e l’onore della moglie Orestilia sono affidati a lui.
Dopo aver compiuto una breve digressione, Catilina punta prima su Arezzo, sollevando numerosi coloni di fede sillana, e raggiunge poi Fiesole, dove Manlio ha raggruppato un esercito di 12mila uomini. La lotta è ora su due fronti. Cicerone raduna il popolo nel foro, e tiene un discorso (Seconda Catilinaria), nel quale giustifica il suo operato. La plebe, di cui una cospicua parte simpatizzava per Catilina, lo osanna.
Successivamente, avuta conferma che quest’ultimo si trova presso l’esercito di Manlio, lo fa dichiarare dal senato nemico pubblico, e invia il collega Caio Antonio, alla testa dell’esercito consolare, a reprimere l’insurrezione armata.
Siamo negli ultimi giorni di novembre.   
La tormentata vicenda si decide, tuttavia, a Roma.
In quei giorni è presente nell’Urbe una delegazione di galli allobrogi, provenienti dalla Provenza per esporre le proprie rimostranze circa la cattiva amministrazione romana. Il momento non è certo dei più propizi e gli allobrogi non vengono neppure ricevuti dal senato. E, poiché questi si agitano e minacciano contro il governo di Roma, a Lentulo l’occasione sembra ottima per rafforzare le proprie fila. Questi galli, infatti, possono mettere in campo un’ottima cavalleria, con la quale invadere l’Italia settentrionale e collegarsi a Manlio e Catilina. Ma gli allobrogi chiedono tempo. Da soli non possono decidere. Devono mettersi in contatto con i loro capi. In realtà, hanno deciso – sperano, evidentemente, di acquistarsi benemerenze – di fare il doppio gioco e, attraverso il loro patrono Q. Fabio Sanga, informano Cicerone.
La trappola è presto congegnata.
Gli allobrogi fingono di accettare e si fanno mettere per iscritto dai congiurati proposte, con tutti i piani eversivi, e promesse. In aggiunta vi fanno apporre i sigilli personali. T. Volturcio di Crotone, si incarica di guidare, clandestinamente, la delegazione sulla via del ritorno. Se la risposta gallica sarà positiva, diventerà operativo il piano per l’insurrezione. 
Le cose vanno ben diversamente.
Gli allobrogi vengono bloccati (o meglio, si fanno bloccare), e le lettere dei congiurati, con i loro sigilli, sequestrate.
Volturcio è fermato.
Infine, Cicerone ha prove concrete.
Il 3 dicembre, Lentulo, insieme ai complici Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario, viene arrestato. Tutti vengono condotti al tempio della Concordia, dove il senato è riunito, e posti a confronto con gli allobrogi. Cetego rifiuta ogni confessione. Alla domanda di Cicerone circa gli ingenui quantitativi di armi rinvenuti nella sua abitazione, risponde:
 
Mi piacciono le lame.”
 
Ma quando viene letta una delle sue lettere con tanto di sigillo, egli si limita a tacere.
Quanto a Lentulo, dopo aver cercato di far cadere in contraddizione gli allobrogi, finisce con il rassegnarsi e confessa; le prove contro di lui sono schiaccianti.
Cicerone tiene informato il popolo, radunato nel foro (Terza Catilinaria).
La plebe, venuta a conoscenza dei piani dei congiurati, è infuriata.
Il console è acclamato con grande vigore.
Resta da decidere la sorte dei prigionieri.
La situazione è lungi dall’essere calma.
I congiurati arrestati fanno pervenire appelli ad amici, clienti e liberti.
Si teme egualmente un’insurrezione.
Un catilinario, tale L. Tarquini, cerca di salvarsi facendo il nome di Crasso tra i responsabili della congiura. La cosa viene naturalmente messa a tacere. Il console fa occupare il Campidoglio e per sicurezza dorme all’interno.
Il 5 dicembre si svolge la seduta decisiva del senato.
Giunio Silano è per la pena di morte.
Cesare, riapparso finalmente, chiede la prigione a vita e la confisca dei beni.
 
Quando la pena di morte diviene pratica comune”,
 
dice in sostanza,
 
si sa come si inizia, ma non dove si finisce, soprattutto perché, in queste circostanze, non è prevista dalle leggi romane; inoltre, esiste il diritto dell’appello al popolo per i condannati.”
 
Cicerone ringrazia Cesare del suo intervento, ma ribadisce la richiesta di condanna a morte (Quarta Catilinaria).
I senatori esitano, poi, si alza Catone, che sottolinea la necessità di eliminare i condannati.
Lasciarli in vita, spiega con calma, significa rafforzare Catilina.
La decisione è presa.
Mentre Cesare sfugge per miracolo al linciaggio da parte di un gruppo di cavalieri, Cicerone dà disposizione per l’esecuzione.
Al crepuscolo dello stesso giorno, i cinque compagni di Catilina vengono strangolati.
A esecuzione avvenuta, Cicerone si reca nel Foro e dà l’annuncio ufficiale alla folla, soprattutto per scoraggiare eventuali conati di rivolta.
Gli basta un verbo per essere esauriente: vixerunt (vissero).
Le ultime scene del dramma si consumano sui campi di Etruria.
Esercito governativo e catilinari si affrontano in una lotta impari.
Catilina ha rifiutato fino all’ultimo l’aiuto degli schiavi, che, pure, accorrevano a lui. I suoi uomini hanno un armamento approssimativo. L’urto è violentissimo. Catilina è dovunque, in prima fila; soccorre chi è in pericolo, fa sostituire i feriti, duella di persona contro gli avversari. Rimasto con pochi, narra Sallustio, memore della sua stirpe e dell’antica dignità, si getta nel folto dello schieramento nemico e cade trafitto. Non uno degli insorti caduti ha ferite alla schiena; e nessuno è rimasto vivo. I soldati governativi ritrovano tra i morti vecchi amici, parenti, antichi ospiti.
Un velo di tristezza scende sui vincitori.
Come in ogni guerra fratricida.   
Cicerone scrive di aver passato gran parte del suo tempo nei tribunali, esagerando, per esprimere come considerasse i tribunali il suo territorio e la sua casa.
Teneva moltissimo alla loro reputazione.
I suoi criteri di giudizio sembrano la natura, la realtà, la verità.
 
Daniela Zini
Copyright © 11 febbraio 2011 ADZ


Domenica 13 Febbraio,2011 Ore: 15:58
 
 
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