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www.ildialogo.org GIULIANO<br>il restauratore del Paganesimo,di Daniela Zini

GIULIANO
il restauratore del Paganesimo

di Daniela Zini

L’Imperatore subě una complessa metamorfosi: dalla sua formazione cristiana all’acceso desiderio di ripristinare gli antichi culti.


Giuliano l'apostata“On rend quelquefois justice bien tard. Deux ou trois auteurs, ou mercenaires, ou fanatiques, parlent du barbare et de l’efféminé Constantin comme d’un Dieu, et traitent de scélérat le juste, le sage, le grand Julien. Tous les autres, copistes des premiers, répètent la flatterie et la calomnie. Elles deviennent presque un article de foi. Enfin le temps de la saine critique arrive, et, au bout de quatorze cents ans, des hommes éclairés revoient le procès que l’ignorance avait jugé. On voit dans Constantin un heureux ambitieux qui se moque de Dieu et des hommes. Il a l’insolence de feindre que Dieu lui a envoyé dans les airs une enseigne qui lui assure la victoire. Il se baigne dans le sang de tous ses parents, et il s’endort dans la mollesse; mais il était chrétien, on le canonisa. Julien est sobre, chaste, désintéressé, valeureux, clément; mais il n’était pas chrétien, on l’a regardé longtemps comme un monstre.”
Voltaire, Dictionnaire philosophique
Una volta, al tempo degli Dei, morì un uomo ignorante violento e ricchissimo: subito, sulle ricchezze lasciate, figli e nipoti si scatenarono in contese e delitti. Si prese pietà, Giove, di un fanciullo innocente, sperduto in quella casa di perversi; chiamò a sé il Sole, le Parche, la Santità e la Giustizia, affidò loro l’innocente. Il Sole si svelò al ragazzo e gli consigliò di sopportare con pazienza le trame dei malvagi parenti, per rendersi degno della protezione degli Dei. Nella casa, che andava in rovina, il ragazzo pianse, ma obbedì. Attorno a sé vide ogni cosa buona rovinare, gli scellerati uccidere altri scellerati, finché uno solo sopravvisse, il peggiore. A questo punto il Sole e Minerva intervennero, infine, cacciarono il malvagio e fecero governatore di ogni cosa il ragazzo, raccomandandogli, nel momento del commiato, di essere un Signore saggio e giusto.
Inventando e raccontando questa favola in un suo libretto Contro Eraclio; Flavio Claudio Giuliano Imperatore, detto l’Apostata, intendeva parlare di sé. Riandava, con mestizia e raccapriccio, all’epoca della prima infanzia che, per gli altri, è una allegra favola, per lui era stata quella cronaca ininterrotta di orrori. Giove, Minerva, il Sole erano i personaggi che nel racconto riuscivano a conferire un’aura di nobiltà ai fatti veri della famiglia imperiale: lui era il bimbo di pochi anni che si trovava, come agnello tra i lupi, quando moriva l’uomo ricchissimo e violento che era stato Costantino; gli scellerati eredi erano i figli di Costantino, il peggiore dei quali, l’Imperatore Costanzo, circondato da complici non migliori di lui (i Vescovi), era, infine, cacciato dagli Dei per far posto al loro prediletto, Giuliano.
Nonostante gli inni elevati dai Vescovi, in onore del cristianissimo Costantino, e gli anatemi scagliati contro l’idolatra Giuliano, noi sappiamo che quest’ultimo non caricava le tinte, quando scriveva la sua favola: Costantino il Grande, prima e dopo quell’Editto di Milano (313 d.C.) – che, concedendo libertà di culto alla nuova religione, ne faceva, in pratica, la religione di Stato – fu, veramente, un mostro, padre di tre mostri; mentre un quarto figlio, Crispo, aveva provveduto lui stesso a farlo scomparire dalla faccia della terra. E, poiché si sbarazzò, anche, della moglie Fausta, non è da escludere che fosse vero quello che si propagandava a Oriente e a Occidente, che la vecchia belva si fosse convertita al Cristianesimo, attratta dal battesimo che lavava tutte le colpe; solo che dovette interpretare assai largamente la portata del rito, perché era già campione della nuova fede quando assassinò moglie e figlio. Probabilmente, era convinto che il Dio dei cristiani gli dovesse tanta gratitudine da chiudere gli occhi sul prima e sul dopo, egualmente scellerati. Il retore Libanio, uno degli amici più fidati di Giuliano, chiarisce bene, fin da allora, il significato della famosa crisi religiosa di Costantino, culminante nella famosissima frase in hoc signo vinces:
“Costantino comprese che a lui riuscirebbe utile credere in un altro Dio.”  
È il medesimo concetto spregiudicato che risuona nelle ultime parole dell’Imperatore morente al figlio Costanzo:
“A nulla ti gioverà l’Impero, se non otterrai che Dio sia da tutti adorato in modo concorde.”,
in altri termini, se la nuova religione doveva servire alla politica era necessario che generasse concordia e non discordia.
Appena morto Costantino (337), per raggiungere quella concordia, Costantino junior, Costante e Costanzo si diedero a far assassinare quanti più potevano dei loro congiunti – sei, se i conti degli storici, contano – tra i quali lo zio Giulio Costanzo. Da quest’ultimo e da Basilina, imparentata con il Vescovo Eusebio, nel 331 d.C., era nato Flavio Claudio Giuliano: a lui e al fratello Gallo fu risparmiata la vita perché non erano ancora in età da nuocere. Poi, i tre costantiniani, esaurito il materiale umano estraneo, iniziarono ad assassinarsi tra loro: Costantino fu ucciso, nel 340, Costante, nel 350, e Costanzo rimase unico Imperatore.
In disparte, assistito, così lui credette sempre, dagli Dei, inorriditi dai misfatti della famiglia imperiale cristiana, il piccolo Giuliano fu affidato a un pedagogo, Mardonio, un severo cultore della sapienza antica, che insegnò al discepolo come la vera virtù fosse nella tradizione dei filosofi pagani, mentre la corruzione moderna mettesse radici nella nuova fede. Era un incensatore del tempo antico, un vecchio illuso che gettava il seme della sua illusione nel cuore sconvolto di un futuro Imperatore.
Giuliano non era che un povero ragazzo spaurito in mezzo alla sua terribile famiglia; dovette sentirsi meno solo, quando il sospettoso zio lo relegò nella solitudine della Cappadocia.
Era il 342 d.C., Giuliano aveva undici anni.
Il Sole e gli altri Dei della favola tramavano invisibili per il loro protetto. Non si spiega altrimenti l’improvvisa decisione dell’Imperatore di chiamare a sé, nel 347 d.C., da Costantinopoli, Giuliano e fare di Gallo il suo Cesare.
Se gli antichi Dei non avessero operato, in silenzio, per il loro ultimo figlio diletto, sarebbe difficile comprendere come Costanzo abbia accumulato tanti errori nel fare di Gallo un personaggio, anziché un cadavere, e nell’avvicinare Giuliano alle persone giuste, vale a dire a quelle che avrebbero contribuito a formarlo tale quale fu, ribelle all’Imperatore e alla Chiesa. Perché Giuliano non è stato un genio superiore che ha resuscitato da sé e per sé quel canto sommesso di gloria e di dolore che Pan e le altre piccole divinità gemevano nelle campagne e nei villaggi, dove si faceva meno sentire la persecuzione cristiana; Giuliano è stato un discepolo intelligente e rispettoso che ha avuto i suoi maestri, le sue guide, i suoi compagni. Insieme, come congiurati, tramarono e si esaltarono al progetto di riportare Giove, sul Campidoglio, e gli infiniti piccoli Dei, nelle fontane, sotto la corteccia degli alberi e nel focolare dei poveri. Tra i maestri, vi era, già, stato Mardonio. A Costantinopoli vi era Libanio, illustre retore e professore, devoto della serenità pagana, e vi era Ecebolio, un sofista facile a passare da un’idea al suo contrario, secondo l’opportunità. Giuliano li ascoltava con rispetto. Un maestro gli insegnava che cosa fosse la verità, l’altro gli instillava, con l’esempio, la necessità di fingere per chi vive tra i potenti della terra.
Forse, il grossolano Costanzo comprese qualcosa e allontanò di nuovo Giuliano, questa volta in Nicomedia. I suoi Dei lo seguirono – questo corteo di divinità umiliate e fiere che accompagnò, in silenzio, l’Apostata lungo tutti i vagabondaggi della sua vita è una visione di cui non narra, ma che, certo, ha dovuto aiutarlo a vivere –, lo avvicinarono ai filosofi neoplatonici, accolsero la sua conversione definitiva al Paganesimo.
Giuliano ha venti anni, è uomo di entusiasmi e di slanci. Ma finge, se vuole salva la vita. La belva, che Costanzo è sempre stato, inferocisce con gli anni: come un ammonimento, nel 335 d.C., fa assassinare Gallo, il Cesare, che, del resto, è lui stesso uno scellerato e, scelleratamente, ha governato l’Oriente insieme a sua moglie Costantina, degna figlia di Costatino il Grande e degnissima sorella di Costanzo.
In fondo, a costringere Giuliano alla virtù politica e filosofica, più che gli ammaestramenti della scuola deve essere stato il disgusto: intorno a lui non vi erano che mostri, e quei mostri si vantavano baluardi del Cristianesimo.
Un alto sdegno morale è alla radice di quella apostasia.
Gli dei antichi, avvolti nel fascino del passato e del malinconico tramonto di una civiltà, che appare bella e generosa, furono i geni dell’Imperatore – che cosa facevano gli angeli custodi di Costatino e dei suoi? –, i tutori di un mondo degno di essere abitato da uomini.
Giuliano evitò la sorte del fratello, in grazia della protezione affettuosa, probabilmente troppo affettuosa, di Eusebia, moglie di Costanzo. Che i rapporti tra il ragazzo e la zia fossero più teneri di quelli normali tra parenti, è confermato dall’accusa rivolta, in seguito, alla donna, che avrebbe fatto avvelenare la moglie di Giuliano, certo, per gelosia.
Essere relegato ad Atene, fu un regalo inaspettato per lui.
Là vi era la fonte e la tradizione di ogni vero sapere, là poteva attingere alle origini stesse del suo grande sogno, la restaurazione degli antichi Dei, regnanti quando il mondo era ancora forte e saggio: il tempo degli uomini “belli e buoni” di Socrate.
Gregorio Nazianzeno, che fu compagno di Giuliano e lo esecrò come Apostata, lo descrive, in quegli anni, come un folle, svanito e fanatico. Il collo dondolante, le spalle agitate, l’occhio vagabondo… le narici spiranti orgoglio e disprezzo, il riso smodato e scoppiettante, pronto ad assentire o negare senza ragione. Bisognava rappresentarlo così, il restauratore del Paganesimo, uno squilibrato perverso. Ma al di là del ritratto tendenzioso, si può supporre che il ragazzo si sia posto, davvero, una maschera di difesa, la maschera di Bruto, che medita di uccidere il tiranno, una vita impetuosa e un disegno immenso, che si nascondono, sotto le stranezze del filosofo da commedia, in attesa dei tempi in cui imporre la sua visione mistica e politica dell’avvenire.
Quella lunga preparazione viene interrotta bruscamente dal precipitare degli eventi nelle terre dell’Impero. In Gallia, i Germani passano il Reno, avanzando minacciosi; congiure circondano da ogni lato l’Imperatore, sempre più chiuso nella paura e nella ferocia ereditarie. Sotto le pressioni di Eusebia, Giuliano è richiamato a Milano e, a sua volta, è nominato Cesare. Piange, allontanandosi dalla città, che sente come sua vera patria; ma gli Dei interrogati gli ordinano di partire.
“Cedetti dunque e obbedii; e così, in breve, mi si gettò intorno il nome e la clamide di Cesare.”
Il giorno della vestizione della porpora, Giuliano pensoso mormora tra sé un verso di Omero:
“Mi ha colto la morte purpurea e il destino onnipotente.”
Il potere è il Male, la morte dell’anima. A meno di farne strumento per la resurrezione dello spirito.
Costanzo gli dà in moglie la sorella Elena e lo spedisce in Gallia.
È l’anno 355 d.C., Giuliano ha ventiquattro anni.
Parte, caricando i bagagli militari di libri, dono di Eusebia.
Arrivato a Lione, tra la folla festante, si fa avanti una vecchia cieca che esclama:
“Ecco colui che restaurerà i templi degli Dei!”
Fino al 360 d.C., il giovane Cesare porta nell’amministrazione della Gallia un’aura stupefacente di solerzia e di giustizia, là, dove prima era corruzione e crudeltà; intanto, combatte vittoriosamente i germani respingendoli oltre il Reno. Come succede, spesso, nella storia di Roma, gli studi retorici e filosofici formano amministratori e generali straordinari. Ma, in Giuliano vi è qualcosa di più, la coesistenza quasi miracolosa di due passioni intensissime, quella della guerra e quella dell’apostolato. 
Si può credere o non credere – con i politici, anche se non filosofi, non si sa mai – che fu contro la sua volontà e di sorpresa, che, una notte, le legioni circondassero la tenda di Giuliano e lo proclamassero Imperatore.
È il 361 d.C., Giuliano ha trenta anni, probabilmente sente che questo è il momento, o mai più, di arrestare la marcia del mondo e riportarlo alle origini.
Costanzo rappresenta il Male immanente; la religione, sanzionata da Costantino, rappresenta il Male trascendente, il primo compito del nuovo Imperatore è di marciare contro Costanzo, “l’assassino del padre mio, dei fratelli, dei cugini, potrei dire il carnefice di tutta la nostra comune famiglia e parentela”.
Gli scrittori cristiani hanno detto tutto il male possibile della decisione di Giuliano, usurpatore e parricida. Ma, è certo che, se ambizione vi fu o desiderio di vendetta, tutto era superato da un sogno che trascendeva lui e le immense forze in gioco e si proponeva la restaurazione degli antichi Dei. Tuttavia, la prudenza lo fece fingere ancora, per poco: si lasciò festeggiare dai cristiani, entrò nelle loro chiese, pregò, in pubblico, il loro Dio – in segreto, sacrificò, devotamente, alle divinità pagane. Con l’aiuto dell’uno o delle altre, entrò trionfante a Costantinopoli e si proclamò unico Imperatore della romanità.
Solo allora, gettò la maschera, ordinò che si riaprissero i templi pagani, si presentassero le vittime agli altari e che tutto tornasse come prima: così poco filosofo da credere che bastasse l’ordine di un potente per arrestare il corso della storia. Eppure, ancora così pieno di realismo romano da trasformarsi immediatamente da sacerdote in generale.
Nel 362 d.C., lasciò Costantinopoli e partì per la sua ultima impresa, la più grande, contro i persiani, nemici di Roma non meno temibili dei germani. Ma, prima, andò a suggellare la sua professione di fede nel santuario di Cibele a Pessinunte, si prostrò davanti alla Madre degli Dei.
È il momento culminante della sua vita, la consacrazione ufficiale della sua apostasia.
Termine del tutto improprio perché Giuliano non si era mai sentito cristiano, dentro.
Era stato, come tanti umili abitanti dei villaggi della campagna, un cripto-pagano devotamente legato d’amore agli Dei cacciati, vilipesi e presto perseguitati. Poi, di vittoria in vittoria, si addentrò nel territorio persiano, mirando, afferma Libanio, ai fiumi dell’India.
La sua attività di comandante di eserciti, sostengono gli storici, nostri contemporanei, è paragonabile solo a quella di Cesare e di Tiberio. Ma, era soprattutto, Giuliano, uomo di varia ricchissima personalità, di quelli in cui un genio non uccide né mortifica gli altri. Ammiano Marcellino, il suo storico più imparziale, lo descrive così durante la campagna persiana:
“A mezza notte levandosi sempre, non da un letto di piume o da coltri di seta, ma da un semplice tappeto o da una pelle di capra, faceva prima in segreto una preghiera a Mercurio, che le dottrine teologiche insegnano essere il senso di celerità che anima il mondo e fornisce il movimento agli intelletti. E, in tanta urgenza di cose, curava ponderatamente gli affari di Stato. Poi si volgeva a nutrire e a perfezionare la mente.”   
La sorte malinconica di Giuliano è che, quando gli si apre la possibilità di realizzare il suo sogno-disegno, la fine è prossima.
Punizione di Dio, dicono i cristiani.
Un tramonto simile a quello di Napoleone, se ci si ferma alle cose che si vedono; solo che con Giuliano finisce ben altra cosa che una campagna di guerra e un Impero.
I persiani si ritirarono bruciando e facendo il deserto finché Giuliano fu costretto a tornare sui suoi passi, incalzato dai nemici che conducevano azioni di guerriglia.
Tra gli ufficiali scoraggiati e sul terreno coperto di cadaveri di soldati e di elefanti, l’Apostata entra già nella leggenda del condottiero, destinato a vincere, nonostante tutto, grazie ai libri dei suoi filosofi che medita, ogni notte, nella tenda, e grazie alle sue visioni, se non fosse riprovato dal destino.
Le visioni ormai non sono più di gloria.
Un genio misterioso, che gli era apparso la notte lontana dell’incoronazione, gli riappare, in quella solitudine d’Oriente, ma con viso mesto e pieno di presagi spaventosi.
Una stella cade.
Sia fatta la volontà degli Dei!
La mattina riprende il combattimento, mette in fuga i persiani, ma un giavellotto lo colpisce al petto: scagliato da un persiano o da un romano?
Una domanda destinata a rimanere senza risposta, tranne quella, mistica e vendicativa, di una punizione del Dio vero contro l’Apostata.
Forse, suggerisce qualche spirito scettico, Dio si è servito della mano di un soldato dei suoi, un cristiano tra tanti pagani.
È il giugno del 363 d.C., Giuliano ha trentadue anni.
Le sue ultime parole sono degne dell’uomo complesso che fu Giuliano, un uomo fornito di molte nature e, pertanto, profondamente infelice:
“La mia ora è venuta, o compagni, forse troppo presto; ma, da buon debitore, io sono lieto di rendere la mia vita alla Natura che esige il pagamento del suo credito… Non mi pento di ciò che ho fatto, né mi punge il rimorso di alcuna colpa grave… Già da gran tempo (non mi vergogno nel confessarlo) io sapevo, per via di una predizione, che era mio destino perire di ferro. Ringrazio, quindi, l’eterno Iddio che mi fa finire non di tradimento, non dopo le sofferenze di una lunga malattia, non per mano del carnefice, ma con questo fulgido trapasso, nella pienezza di una carriera gloriosa.”
È la fine di un filosofo e di un uomo religioso che il capriccio della sorte aveva fatto Imperatore e generale. Narra Ammiano Marcellino che Giuliano aveva sempre pensato che la morte, essendo l’anima superiore al corpo, fosse piuttosto gioia che dolore. Si era preparato con le letture e con la preghiera; bellissima, quella che aveva scritto per la Madre degli Dei, e di cui riportiamo qualche passo anche se varrebbe la pena di trascriverla per intero:
“O Madre degli Dei e degli uomini, che siedi sul trono di Dio… Dea della vita e rivelatrice e provvidenza e creatrice delle anime nostre… fai che il popolo romano cancelli la macchia dell’empietà, e che la notte favorevole gli conservi l’Impero per molte migliaia di anni; fai che io raccolga, come frutto della devozione per te, la verità della scienza divina, la perfezione del culto, la virtù e il successo in tutte le imprese politiche e militari cui ci accingiamo, e un termine della vita senza tristezza e glorioso, insieme con la speranza di venire presso di te!”
Una preghiera, forse, troppo cristiana nel tono, per un apostata: ma, naturalmente, non era nell’arbitrio di Giuliano più che di alcun altro di cancellare in se stesso tre secoli di storia. È probabile che di questo Giuliano non si rendesse conto, ma, quasi certamente si rese conto che il suo sogno di restaurazione religiosa – per lui voleva dire prima di tutto restaurazione morale – finiva con lui. Era stato un vasto sogno, ma altrettanto vano quanto resuscitare i morti.
La famosissima frase messa in circolazione all’indomani della sua morte:
“Vincesti o Galileo!”,
con cui Giuliano avrebbe riconosciuto, morendo la propria sconfitta, non senza una speranza di redenzione e di un vicino paradiso anche per lui, non fu, certo, mai pronunciata; ma, come spesso accade per le grandi frasi apocrife, è veritiera nel rendere lo stato d’animo dell’Imperatore, la sua rassegnata amarezza di veder morire con lui l’ultimo sacerdote degli antichi Dei, loro figlio e loro padre da quando erano raminghi e perseguitati nel mondo e l’ultimo servitore in trono del grande popolo romano.
Tra i delitti di famiglia e gli odi della parte cristiana, Giuliano era sempre stato uomo di solitudine, colmata solamente nei rari momenti felici dal pensiero del suo Dio, che non era, poi, Giove, né il Sole, né Mitra, ma il semplice e disadorno Dio dei filosofi e degli apostoli. Si era sentito come un missionario tra i suoi, quasi un Messia:
“Quali ragionamenti varranno a persuadermi… a non vacillare e a sopportare coraggiosamente ciò che Dio mi ha imposto?”
Non aveva nulla del fanatico, questo pastore di anime in trono. Se non sempre negli atti –era anche Imperatore – professò sempre nei discorsi la tolleranza verso tutte le fedi: secondo la testimonianza di Ammiano Marcellino, esortava i cristiani “a servire la propria religione intrepidamente, senza avere a temere alcun divieto”, in altri termini, disse le stesse cose che aveva proclamato Costantino cinquanta anni prima, solo che le intenzioni di Giuliano, al contrario di quelle di Costantino, erano immuni da intenzioni nascoste. Cosicché non è stato per niente paradossale, né irriverente, la proposta di scambiare l’appellativo con cui i due sono passati alla storia: Giuliano il Grande e Costantino l’Apostata.
Se la storia si curasse di queste finezze di giustizia, bisognerebbe ricordare quello che Libanio scrisse del suo amico Imperatore, che si limitava “a rallegrarsi per coloro che lo seguivano, deridendo gli oppositori, tentando di persuadere, non mai lasciandosi indurre a violenza” e citare quel passo della sua lettera che lo rappresenta come l’uomo mite e fiducioso che fu:
“Io voglio che i galilei non abbiano a subire alcun danno, non siano uccisi né maltrattati. Dico solo che si debbano tenere in maggiore conto gli adoratori degli Dei, poiché la stoltezza dei galilei ci manderebbe tutti in rovina, se dalla benevolenza degli Dei non fossimo sorretti.”
“Vincesti o Galileo!”
Quella frase, mai pronunciata poteva anche significare, con una enfasi teatrale che non era di Giuliano, la sua ammissione in extremis che tra lui e il Galileo non vi era mai stata vera guerra, ma piuttosto l’aspirazione combattuta a una verità comune: la religiosità deve essere nel profondo dell’uomo. Uno storico autorevole, Gaetano Negri, ha, infatti, sottolineato l’affinità del sistema di Giuliano con quello cristiano: entrambi apportavano l’idea di un Dio creatore della Natura; né l’Apostata si proponeva di riportare alla lettera il Paganesimo tra gli uomini – “non  è un reazionario” – ma piuttosto di esaltare il simbolo di una verità soprannaturale inconoscibile o conoscibile soltanto in una sorta di rapimento mistico; in sostanza, tentava di salvare insieme lo spiritualismo cristiano e il complesso della cultura, della poesia e della serenità classica. Se, talvolta, può sembrare, curiosamente, un primitivo adoratore del Sole:
“Fin da fanciullo io sentii un amore vivissimo per i raggi del Dio, e alla luce eterea mi volgevo con tutta l’anima, così che non solo avrei desiderato di contemplare sempre il Sole, ma, se talvolta uscivo di notte sotto un cielo puro senza nubi, dimentico di ogni altra cosa, mi abbandonavo alle bellezze celesti non comprendendo più ciò che mi si diceva e ciò che io stesso facevo.”
è evidente che per lui il Sole non è che la forma visibile del Bene regnante nel mondo delle idee pure; come la Madre degli Dei simboleggia il procedimento attraverso il quale l’idea si cala nella materia, che ne viene spiritualizzata e quasi divinizzata.
E vi è, poi, la componente letteraria della personalità di Giuliano, che fa fiorire la nostalgia di un mondo perduto, uno di quei mondi del ricordo che, in realtà, non sono mai esistiti.
“Vi è stato in lui qualcosa dell’erudito, del bibliofilo, dell’archeologo”,
scrive Augusto Rostagni.
La resurrezione degli Dei è anche opera nata dai libri e destinata a finire nei libri, una rivolta dell’uomo di lettere contro le cose che vivono, il sogno di una immobilità riposante contro l’affannoso procedere della Storia: 
“Non ti trascini”,
scriveva Giuliano in una sua opera satirica, Misopogon (Il nemico della barba),
“non ti trascini la moltitudine dei tuoi coetanei che frequentano i teatri a desiderare quel genere di spettacoli. Ti piacciono le corse? Ve ne è una in Omero composta con abilità incomparabile. Prendi il libro e leggi. Odi parlare di ballerine? Ben più nobilmente danzano i fanciulli presso il popolo dei feaci in Omero. E là leggerai della arborata isola di Calipso e delle grotte di Circe e del giardino di Alcinoo.”
Prendi il libro e leggi.
La letteratura è più vera della vita e la sola cosa reale è il sogno.
È questa devozione appassionata per un disegno fantastico e il suo urtarsi drammatico con la Storia, che ha affascinato gli scrittori nella figura di Giuliano l’Apostata. Per citarne qualcuno tra i grandi e i meno grandi, Henrik Ibsen, Cesare e Galileo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij, La morte degli Dei, Gore Vidal, Giuliano.
Giuliano si sarebbe compiaciuto di questa predilezione dei letterati, essendo stato lui stesso un grande letterato, grande, almeno, per la passione.
Uscito dai libri, era già tutto pronto per rientrare nei libri, come simbolo di una civiltà al tramonto, incarnazione di una crisi della Storia, elogio vivente della fantasia in trono, cavaliere di un’immagine sconfitta del mondo.
Per tutte queste cose, era stato odiato anche se lui stesso era incapace di odio.
Si sarebbe compiaciuto al pensiero che, secondo la semplificazione che la Poesia usa fare della Storia, che semplice non è mai, meritatamente, lui Giuliano e non il povero Romolo Augustolo, doveva rappresentare l’ultimo Signore legittimo della Roma dei Re, dei Consoli e degli Imperatori. Forse, con quell’amore della stilizzazione retorica e della vaghezza visionaria che lo caratterizzava, avrebbe addirittura gustato il finale del romanzo di Gore Vidal, attraverso le parole del fedele Libanio:
“Con Giuliano la luce si è spenta e dopo di lui non ci resta nulla, solo lasciare che le tenebre avanzino, sperando in un nuovo Sole, in un giorno nuovo, nato dal mistero del tempo e dall’amore dell’uomo per la luce.”
Daniela Zini
Copyright © 22 novembre 2010 ADZ


Martedě 23 Novembre,2010 Ore: 12:02
 
 
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