- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (247) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org CONFUCIO E L’ANTICA CULTURA,di Daniela Zini

Cina
CONFUCIO E L’ANTICA CULTURA

di Daniela Zini

I suoi detti, tramandati dai discepoli nei Libri e nei Dialoghi, costituirono le basi degli ideali morali dei cinesi. Predicò la lealtà, l’obbedienza allo Stato, la mansuetudine, la morale della vita familiare. Era un umile maestro di scuola, ma la sua dottrina forgiò la storia della Cina.


Confucio
Lo hanno chiamato: l’Imperatore senza corona della Cina. E sarebbe facile vedere una involontaria ironia nella attribuzione a Confucio, di un simile titolo: a Confucio, per il quale lo scarsissimo successo nell’attività pratica di governo fu la grande amarezza di tutta la vita. Non Imperatore avrebbe voluto essere il Maestro di Lu e neppure regnante di uno dei numerosi potentati feudali in cui, praticamente, si suddivideva la Cina del suo tempo: perché troppo vivo era in lui il senso delle gerarchie e il rispetto legittimista per le dinastie esistenti. Ma avrebbe, certamente, voluto che Imperatore o regnanti affidassero a lui le funzioni di Ministro e il compito di applicare il suo insegnamento etico-politico per riorganizzare l’Impero universale, “tutto ciò che sta sotto il cielo” e per ricondurre la società del suo tempo alla pienezza e allo splendore dei primi Chou. Ma ciò non fu praticamente possibile; i rapporti del Maestro con i potenti del suo tempo furono difficili o ambigui, fatti di incostanza o di considerazione solo apparente da parte di chi deteneva il potere. 
Tuttavia, già, il primo biografo di Confucio a noi noto, il grande storico Ssu-ma Ch’ien, che scriveva nel I secolo a.C., aveva modo di notare il contrasto tra la sorte di molti che chiudono la loro vita nella gloria, ma sono presto dimenticati, e quella di Confucio che, dopo una esistenza relativamente modesta e dimessa, si era già affermato come il maggiore tra i figli della sua terra. In realtà, nessuno, forse, più di Confucio merita questo titolo di Imperatore senza corona. Nessuno, forse, ha contato più di lui nella storia politica, culturale e sociale del paese natale.
Forse, Mosé o Maometto hanno “edificato” i loro popoli e le loro culture più di quanto non abbia fatto Confucio per la Cina; ma, dietro ai primi, si delinea la maestà di un Dio trascendente e onnipotente, che sembra ridimensionare la figura del profeta; mentre Confucio non ha mai perduto, nonostante le parziali divinizzazioni successive, una dimensione schiettamente e puramente umana.
Il rapporto di Confucio con il profilo culturale e storico della Cina, non è, quindi, facilmente riassumibile. Non è stato il profeta della religione cinese, ma colui che ha posto le prime basi di quella sorta di religione laica e politica che sarà il confucianesimo. Non è stato il fondatore dell’Impero, colui che ha guidato il popolo in una grande migrazione o in una definitiva conquista, ma il suo insegnamento ha fornito la giustificazione dottrinale a quello che è stato chiamato  l’Impero confuciano e che è, a tutt’oggi, la maggiore costruzione storico-politica che si conosca per dimensioni geografiche e per continuità cronologica. Non è stato, infine, l’inventore di una nuova lingua o di un nuovo sapere, ma i Quattro Libri e i Cinque Classici, la cui compilazione è assegnata a lui o alla sua scuola, ha costituito il Canone del Trivio e del Quadrivio cinesi fino alla soglia dei giorni nostri. 
Chi è stato, dunque, questo personaggio, tanto noto, tanto popolare e, tuttavia, per molti versi tanto misterioso?
La risposta non è facile.
I dubbi avanzati da qualcuno sulla stessa realtà storica del Maestro non hanno mai trovato molto credito, ma il fatto che la prima biografia organica risalga a circa trecento anni dopo la sua morte, pone una serie di interrogativi sulla attendibilità dei singoli episodi. Anche perché, dopo la vicenda umana, la storia della fortuna di Confucio inizia in modo molto rapido.
La sua esistenza diviene un modello e un paradigma per i seguaci della scuola, ma diviene anche un pretesto di polemica negli scritti delle scuole rivali. L’uomo, indubbiamente pedante e noioso, ma integerrimo e lungimirante, che ci appare negli scritti canonici dei confuciani, si trasforma in uno sciocco presuntuoso e vuoto nelle pagine dei taoisti e non fa una figura migliore in quella dei moisti, i seguaci di Mo Ti.
Bisogna, dunque, distinguere, tra la biografia reale, necessariamente prigioniera delle brume e delle incertezze di una documentazione inesistente o scarsamente attendibile, e la sua biografia ideale, forse, in parte inventata, ma, non per questo, meno significativa come esemplificazione puntuale di certe dottrine filosofiche e politiche.
Comunque, Confucio – è questa, come è noto, la latinizzazione elaborata dai missionari gesuiti del XVII secolo da K’ung Fu tzu che significa Maestro K’ung – sarebbe nato nel 551 a.C. nel piccolo Stato di Lu, situato nella parte meridionale dell’odierna provincia dello Shantung. La famiglia K’ung era, forse, di piccola nobiltà e vantava a quanto pare una improbabile discendenza dalla seconda dinastia imperiale della Cina, quella degli Shang. La giovinezza del Maestro non è ricca di episodi significativi, salvo quello della morte del padre, quando aveva tre anni, e la testimonianza del suo precoce amore per lo studio. Ma, dopo i trenta anni, inizia a essere noto nel paese natale come esperto dei Riti (Li), questa fondamentale istituzione del mondo cinese, in cui convergono i principi della legge naturale e le regole più formali dell’etichetta pubblica e privata. Più tardi, nel 501, inizia presso il Duca di Lu una carriera politica che, in breve tempo, lo porta ai vertici della gerarchia locale e, stando alla tradizione, a diversi successi in sede interna e in sede internazionale, vale a dire nei rapporti con gli altri potentati feudali.
Ma si è detto come la carriera politica di Confucio non fosse destinata a fortune durature. L’invidia dei vicini escogitò diversi sistemi per mettere in crisi i rapporti tra il Duca e il suo Ministro. Infine, vennero mandate in dono al Duca fanciulle esperte nella danza e nella musica: le grazie delle seguaci cinesi di Salomè ebbero la meglio sulle prediche del Seneca orientale e il Duca, comprensibilmente, iniziò a disinteressarsi degli affari di Stato, provocando l’indignazione e la partenza di Confucio.
La storia è assai bella; ed è un simbolo molto felice del moralismo sessuofobo, tipico della scuola confuciana, e, quindi, di tanta parte della cultura cinese ufficiale successiva: prendendo l’episodio per vero, non si può nascondere una certa perplessa ammirazione per la rapidità con cui Confucio, nella sua breve permanenza ai vertici della politica locale, avrebbe portato il Ducato a essere un paese, tanto vittoriano ante litteram, da trasformare in un avvenimento dirompente l’arrivo d’oltre-frontiera di un semplice corpo di ballo.
In ogni caso, Confucio sarebbe andato peregrinando, per lungo tempo, attraverso diverse regioni, ma senza particolare fortuna; nel 483, sarebbe rientrato a Lu, dedicandosi soprattutto all’insegnamento; la sua morte sarebbe sopraggiunta nel 479, trovando il Maestro amareggiato e deluso per la propria incapacità di modificare il corso delle vicende umane; ma non era quella la fine di Confucio; era, anzi, l’inizio della sua fortuna.
Le perplessità che circondano la sua biografia si presentano in parte anche per quanto riguarda il suo pensiero, che ci è tramandato, oltre che da una serie di citazioni e di affermazioni contenute in varie opere, per quanto riguarda soprattutto gli aspetti filosofici, etici e politici, nei primi tre dei Quattro Libri, il quarto, come è noto, porta il nome e la firma del maggior continuatore del Maestro, ossia Mencio.
Il Grande Studio e il Giusto Mezzo sono attribuiti, per la stesura materiale, a diretti discepoli di Confucio; ma sono costituiti, quasi per la loro interezza, da episodi della vita di Confucio o da aforismi e sentenze introdotte dalle parole canoniche: tzu-yüeh(il Maestro disse). Si tratta, quindi di opere che, nella sostanza, potrebbero essere addirittura attribuite a Confucio, se non sussistessero molti dubbi sulla loro attendibilità, stante anche il fatto che le prime testimonianze attendibili sono molto tarde. I dubbi sono minori – ma esistono anche in questo caso – per quanto riguarda i Dialoghi, opera nella quale è, forse, più facile rintracciare le linee di quello che era il pensiero del Maestro.
Nella prospettiva che qui ci interessa, vale a dire del rapporto esistente tra Confucio e il Confucianesimo e la storia cinese, è, forse, utile sottolineare subito come proprio il grande successo e la finale canonizzazione della scuola pongano ostacoli assai gravi alla ricostruzione del pensiero del fondatore; perché anche rifiutando, come è necessario fare, la prospettiva cara a molti interpreti, secondo cui i secoli successivi avrebbero corrotto la purezza dell’insegnamento originario, è evidente che i commentatori delle dinastie successive hanno spesso fatto dire a Confucio più di quanto questi non intendesse e questa azione si è spesso concretata anche in una serie di interpolazioni nelle opere che riferivano il pensiero del fondatore.
In ogni caso, alcune linee essenziali del suo pensiero sono rintracciabili con sufficiente sicurezza e permettono di chiarire abbastanza bene la portata del contributo confuciano al patrimonio di fondo dei valori e delle idee che, per più di due millenni, hanno costituito la Cina. Va, innanzitutto, ricordato come Confucio rifiutasse ogni patente di originalità, affermando di essere solo un cultore e un restauratore della civiltà, che, con i primi sovrani Chou, aveva conosciuto il proprio apice. Molte osservazioni si possono fare su questa premessa che, se accettata alla lettera, circoscriverebbe, indubbiamente,in modo molto grave, il significato storico della figura di Confucio.
In primo luogo, è opportuno ricordare come il termine cinese, che traduciamo solitamente con confuciano, suona Ju e significa uomo colto, letterato. In altre parole, la scuola ha un nome che non contiene un riferimento specifico alla persona del Maestro di Lu; il paradosso degli autori occidentali che parlano, giustamente, di un confucianesimo prima di Confucio non sorge all’improvviso in un deserto culturale, ma sviluppa temi di una civiltà, già antichissima, anche se le individualità teoretiche si disegnano in essa solo in modo confuso.
Confucio rivendica la validità di un passato che gli sta alle spalle, ma ciò non significa necessariamente che in lui non sia rintracciabile un decisivo contributo originale: quel contributo che, al di là, forse, delle sue stesse intenzioni, i posteri gli hanno ampiamente riconosciuto.
Il rapporto di Confucio con il passato è comunque essenziale sotto due diversi riguardi. Da un lato richiama alla mente il fatto che anche l’altra grande scuola filosofico-religiosa della Cina, il taoismo, è caratterizzato da una viva nostalgia per un passato perfetto e perduto: coincidenza importante e significativa, che ha probabilmente contribuito a rafforzare il mito di una Cina immobile nel tempo, eternamente nostalgica, refrattaria al progresso.
Tuttavia non si può dimenticare che il passato al quale guardava Confucio è assai diverso da quello cui pensavano i seguaci del Tao: per il primo si trattava di un momento storico ben preciso, neppure tanto lontano dal momento in cui il Maestro viveva, un momento storico che costituiva il culmine di un lungo processo precedente e che era, nel modo più evidente, una conquista della ragione umana; per i taoisti, invece, si trattava di un passato sostanzialmente pre-istorico o a-storico, uno stato di natura innocente e incontaminato, che si è, irreparabilmente, corrotto quando la ragione umana ha iniziato a distinguere nell’unità del reale, inventando i concetti e a distinguere nella comunità degli uomini inventando le gerarchie sociali e politiche.
Ma, tuttavia, sembra difficile negare che la passione di Confucio per l’antichità giustifichi, in qualche misura, l’accusa di poco progressismo che, sia pur tra diverse oscillazioni, la pubblicistica comunista gli ha attribuito e rende perplessi davanti alla appassionata difesa della democraticità di Confucio, tentata, a esempio, da Herrlee Glessner Creel. Per lo studioso, la democraticità e il progressismo di Confucio si basano sulla sua affermazione, secondo la quale la cultura e il potere avrebbero dovuto essere aperti a tutti senza distinzioni di nascita, e su quella, secondo cui il Governo dovrebbe agire nell’interesse del popolo. Ma quest’ultima asserzione non serve, evidentemente, a qualificare un regime possibile, perché non vi è tiranno che non affermi di rappresentare il bene del popolo. Quanto alla prima, si tratta, indubbiamente, di un elemento importante e significativo del pensiero confuciano. Parte dalla premessa – che sarà resa esplicita e argomentata solo da Mencio – secondo cui la natura umana è sostanzialmente buona, ma anche dalla convinzione che questa bontà debba essere in qualche modo recuperata con lo studio e l’autodisciplina.
Grazie all’apporto anche di elementi successivi, darà vita a un sistema meritocratico – almeno in linea di diritto – che caratterizzerà l’impero cinese per quasi due millenni. Si tratta di quello che viene solitamente definito il sistema degli esami, in base al quale i responsabili che reggevano l’Impero, a livello centrale come a livello locale, erano scelti in base a esami – locali, provinciali e nazionali – ai quali chiunque poteva accedere, e ciò indipendentemente da qualsiasi privilegio ereditato con la nascita.
È ben vero che, in pratica, la difficoltà degli esami era tale da rendere necessaria una preparazione lunghissima che richiedeva praticamente una lunga disponibilità finanziaria, ed è vero anche che, soprattutto durante i periodi di crisi, la corruzione incideva pesantemente sulla obiettività dei giudizi; ma resta il fatto che il principio del libero accesso alla classe dirigente del paese ha, sempre, consentito una relativa apertura delle élites di potere, contribuendo in misura notevole alla continuità del sistema, e costituisce il più significativo contributo dell’esperienza storica cinese alla dottrina politica del mondo intero.
Questo non solo in termini teorici: il sistema degli esami fu, infatti, uno degli aspetti che più colpirono gli europei giunti in Cina nel XVI e XVII secolo e che contribuirono a fare della Cina un modello di organizzazione politica agli occhi di tanti pensatori occidentali fino alla vigilia della rivoluzione francese. Quando l’Inghilterra, il più avanzato paese europeo del XVIII secolo, elaborò nuove forme di organizzazione politica che sarebbero sfociate nella creazione del civil service, il modello cinese era ben presente nelle vivaci polemiche, che si produssero a proposito della opportunità di creare una burocrazia sulla base di un sistema di esami.
In questo senso, dunque, l’insegnamento confuciano fu, indubbiamente, di una importanza eccezionale e, visto nella nostra prospettiva, estremamente moderno. Tuttavia, anche in questo caso, è necessario evitare una valutazione troppo drastica. Si deve ricordare, infatti, come, per Confucio, la preoccupazione fosse più di tipo meritocratico che di tipo democratico: era mossa più dalla esigenza di assicurare efficienti esecutori alla leadership tradizionale delle dinastie ereditarie, che da quella di garantire una possibilità di espressione politica a più ampi strati della popolazione.
Una corretta valutazione del significato politico delle ideologie di cui Confucio e i suoi allievi erano portatori non può prescindere, infatti, dal quadro complessivo in cui la scuola si muoveva nei secoli che vanno dalla vita del Maestro alla unificazione della dinastia Ch’in. Le scuole filosofiche di questo periodo erano molte, ma, in una sintesi rapida, può essere, forse, sufficiente ricordare il rapporto esistente da un lato con i taoisti, dall’altro con i legisti.
I primi si contrapponevano ai confuciani praticamente sotto ogni riguardo. Contestavano la possibilità di inquadrare la realtà del mondo e dell’uomo in precise categorie conoscitive, rifiutavano la organizzazione gerarchica della società, contrapponevano alla esigenza sociale dei rivali un atteggiamento spiccatamente individualista, che sarebbe andato, sempre più nettamente, configurandosi come un rifiuto dei valori politici.
L’interpretazione del taoismo, sia nei suoi aspetti più antichi o filosofici, sia in quelli posteriori o religiosi, è ancora incerta e non manca chi veda in questa scuola, almeno alle origini, una protesta delle comunità agricole, non ancora completamente integrate, contro la stratificazione classista del mondo confuciano. In ogni caso si può dire, con semplificazione eccessiva, ma non del tutto arbitraria, che mentre l’ordine in Cina è quasi sempre stato un ordine confuciano, il momento di rinnovamento, vale a dire le crisi dinastiche, partite, per lo più, da rivolte contadine, rivelano spesso una influenza diretta o indiretta del taoismo e, più tardi, del buddismo.
Per quanto riguarda il rapporto con l’altra scuola, non si può negare che, nonostante le moderne antipatie per i legisti, in quanto portatori di una dottrina totalitaria, questi ultimi rappresentarono allora il futuro, ossia l’Impero unificato, mentre Confucio, Mencio e, in misura molto minore, Hsün-tzu rappresentavano il passato, ossia il morente universo del feudalesimo Chou. L’Impero, infine, lo hanno fatto i legisti, che opponevano la norma positiva Fa, alla più fluida moralità implicita nei Riti Li; l’autocrazia imperiale, alla articolazione delle relazioni feudali; il primato del rapporto di sudditanza politica a quello dei legami familiari. L’importanza che la tradizione confuciana attribuisce  al Classico della pietà filiale va intesa, soprattutto, in termini di polemica contro i legisti su questo ultimo punto.
Si dirà che la vittoria legista fu assai breve, coincidendo solo con l’esecrato ventennio della dinastia Ch’in e che la successiva, gloriosa dinastia Han è caratterizzata da una completa rivincita dei confuciani. È, tuttavia, evidente che il Confucianesimo di questo periodo è per molti versi diverso da quello più antico, perché, in realtà, dovette accettare profondissimi compromessi con la dottrina dei rivali, apparentemente sconfitti, e, nel già ricordato sistema degli esami, è chiara una ispirazione anche legista.
Un’altra profonda evoluzione del confucianesimo sarà, molto più tardi, la conseguenza del medioevo che, la fine della dinastia Han e l’avvento nelle regioni settentrionali di popolazioni barbariche produrranno in Cina. Con una certa analogia con quanto si produsse in Occidente, poco più tardi, si assistette alla crisi dei valori, che possiamo definire classici e alla vittoria di una grande religione soteriologica ed extramondana di importazione: il buddismo. Qui, per la prima volta, la Cina deve riconoscere un debito nei confronti di una grande civiltà straniera, quella indiana.
L’avvento della nuova ideologia non fu senza polemiche, soprattutto perché sembrava contraddire radicalmente tutti i valori sociali di cui il confucianesimo era portatore. Ne venne fuori un compromesso: perché, se da un lato il buddismo in Cina – e in Corea, e in Giappone – ha assunto un carattere assai meno mistico e di fuga dal mondo di quanto non avesse in India, dall’altro lato ha portato in Asia orientale una nuova ispirazione che accentuava l’interesse per i problemi di tipo metafisico e il gusto per l’introspezione individuale.
I secoli del primo frazionamento e quelli della grande dinastia Tang costituiscono la grande stagione del buddismo cinese, una stagione in cui la dottrina Mahayana si sviluppa e si articola in una serie ricchissima di scuole e di sette diverse, alcune molto lontane tra loro per ispirazione e per premesse dottrinali: si va dalla scuola San-lun, nella quale rivive il pensiero di Nagarjuna e della corrente indiana Madhyamika, alla scuola Wei-shi, sviluppo della corrente Yogacara di Asanga e Vasubandhu; dal sincretismo tipicamente cinese delle scuole Hua-yen e Tien-tai al misticismo non privo di elementi tentrici della scuola Chen-yen; dal fideismo delle sette amidiste alla esperienza meditativa della tradizione C’han, particolarmente nota in Occidente nella sua versione giapponese di Zen.
È in questi secoli che si compie o si completa l’inserimento nell’area culturale cinese dei paesi limitrofi come il Vietnam, la Corea e il Giappone: inserimento che avviene in gran parte grazie alla vivacità e alla tendenza espansiva della dottrina buddista, anche se, con essa, penetrano naturalmente in questi paesi tutti gli aspetti della cultura cinese e, in particolare, certe caratteristiche della organizzazione sociale e politica che, a onta di ogni eclisse, restano pesantemente condizionate dall’antico confucianesimo.
È proprio sotto i Tang, tuttavia, all’inizio del IX secolo, che la tradizione classica cinese registra i primi segni di risveglio, con una ripresa di interesse per i temi della cultura antica e con una accentuazione della polemica anti-buddista, nella quale è lamentato l’asservimento della civiltà cinese a una dottrina venuta da lontano e, quindi, essenzialmente, barbara.
Si annuncia così la grande fase di ripresa del confucianesimo della dinastia Sung, che culmina nei nomi di Chu Hsi (1130-1200) e, più tardi, sotto i Ming, di Wang Yang-ming (1472-1529). Sono costoro i maggiori rappresentanti delle due scuole che vengono, generalmente, indicate in Occidente con il nome complessivo di neo-confucianesimo. Chu Hsi, in particolare, che si atteggia, come il primo Maestro, a fedele restauratore del passato, attraverso soprattutto il commento dei classici confuciani, è una figura di grande rilievo, uno scrittore sistematico ed enciclopedico, che è stato, di volta in volta, paragonato ad Aristotele, a San Tommaso, all’indiano Sankara per la sua funzione di ultimo organizzatore della tradizione di pensiero che gli era alle spalle.
È inutile dire che la rivendicata fedeltà di Chu Hsi e dei suoi contemporanei o posteri al passato classico va considerata con molta cautela. La secolare esperienza filosofica e religiosa del buddismo non poteva certo essere ignorata. Chu Hsi fu, addirittura, accusato di essere un buddista camuffato, come pensatore, e l’accusa sembra avvalorata dal gusto per la grande costruzione metafisica che, certamente, distacca i neo-confuciani dai loro antenati del tardo periodo Chou. Ma, è, anche, vero che l’ispirazione di fondo dei Maestri Sung e Ming è tipicamente confuciana. Questo è testimoniato, oltre che dalle opere, dalla biografia stessa di questi pensatori.
Se è vero che il buddismo in Cina ha conosciuto non pochi compromessi con il potere politico e che non mancarono monaci e monasteri che ebbero significative posizioni di potere, è vero anche che nel buddismo rimase sempre abbastanza netta la separazione tra l’impegno pratico e l’azione religiosa o dottrinale. Per i neo-confuciani, invece, l’impegno pubblico, la carriera di funzionario, costituivano un momento necessario e inscindibile della ricerca filosofica e culturale.
Tutti i maggiori Maestri di questo periodo hanno ricoperto cariche politico-burocratiche, a volte, di grande rilievo; nei casi in cui questo non è avvenuto, è stato non a causa di un voluto disimpegno, ma per il fallimento nel superare gli esami mandarinali, fallimento che costituiva sempre un elemento di frustrazione e, a volte, lo stimolo a una maggiore originalità di pensiero, ma che confermava la coscienza di una stretta simbiosi tra impegno culturale e dovere di servizio pubblico; una simbiosi che, certament,e Confucio avrebbe approvato, come sarebbe piaciuto ai rappresentanti più significativi del mondo romano.
In ogni caso, va ascritto a Chu Hsi il merito e la colpa di aver fissato sostanzialmente il confucianesimo in quegli schemi rigidi che sarebbero rimasti immutati nei secoli successivi e che avrebbero, poi, giustificato l’accusa alla scuola di aver fornito l’alibi ideologico della rigida conservazione in cui la società cinese si andava chiudendo.
Possiamo aggiungere, per concludere questo sintetico profilo dei rapporti tra Confucio e il suo popolo, che la revisione critica del ruolo storico giocato dai neoconfuciani non è iniziata lo scorso secolo, ma risale più addietro, serpeggia attraverso tutto il periodo mancese, vale a dire, quando l’avvento di una dinastia barbara aveva naturalmente portato l’intellighenzia cinese a domandarsi che cosa non funzionasse nella visione del mondo ereditata dal passato, e ha una delle sue origini in quella singolare pagina storica e culturale che si identifica con la presenza in Cina degli occidentali e, in particolare, dei grandi missionari e studiosi della Compagnia di Gesù.
La strategia di conquista spirituale della Cina, elaborata da Francesco Saverio e dai suoi successori, tra i quali spicca il nome dell’italiano Matteo Ricci, si fondava su due presupposti: influenzare culturalmente l’élite del paese, secondo un principio programmatico generale dei gesuiti; e recuperare, per quanto possibile, il pensiero tradizionale, sottolineandone gli aspetti naturaliter christiani, per facilitare l’introduzione delle dottrine di Roma, mettendo in risalto piuttosto le analogie che le differenze rispetto al pensiero locale.
Questa strategia missionaria ha dato luogo, da un lato, a una polemica vivissima con il buddismo, di cui si avvertiva la scarsa considerazione in cui era, ormai, tenuto dalla classe mandarinale e la cui dimensione soteriologica non era evidentemente compatibile con quella cristiana: per cui l’“eresia di Fo”, come la chiamano i testi dei gesuiti, viene bollata come contraffazione diabolica della religione rivelata. Dall’altro lato, i padri cercavano di distinguere, all’interno del confucianesimo, tra l’antico Maestro e i moderni commentatori, condannando spesso questi ultimi, per esaltare in termini appassionati il primo, che “se fosse vissuto ai giorni nostri si sarebbe forse convertito al confucianesimo”.
Si può discutere a lungo sull’attendibilità storiografica della interpretazione che di Confucio hanno voluto dare i padri della Compagnia di Gesù. Ma, in fondo, è con essa che viene pagato l’ultimo originale omaggio alla cultura del grande Maestro vissuto più di duemila anni prima. Dopo tanti commenti e tante interpretazioni da parte della saggezza di tutta l’Asia orientale, era dall’estremo Occidente che doveva giungere l’ultimo tributo all’Imperatore senza corona della Cina.
Daniela Zini
Copyright © 16 novembre 2010 ADZ


Martedì 16 Novembre,2010 Ore: 22:13
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Storia

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info