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www.ildialogo.org IL GLORIOSO PASSATO DELLE REPUBBLICHE MARINARE: AMALFI PISA GENOVA,di Daniela Zini

IL GLORIOSO PASSATO DELLE REPUBBLICHE MARINARE: AMALFI PISA GENOVA

di Daniela Zini

“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”
 
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
 
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
 
 
Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
 
La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia  senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.
 
 
Il glorioso passato delle Repubbliche Marinare:
 
AMALFI
PISA
GENOVA
 
 
di
Daniela Zini
 
 
 
 
1.     Amalfi, la Perla della Divina Costiera
“Questa città appare assai potente e popolosa; nessuna è più di essa ricca di argento, di stoffe, di oro. In questa città dimorano moltissimi navigatori, esperti nel segnalare le vie del mare e del cielo. Questa gente moltissimi mari percorre: qui si conoscono gli Arabi e i Libici, i Siciliani e gli Africani. Questa gente è famosa quasi in tutto il mondo come quella che arreca altrove ciò che è degno d’acquisto e ne riporta quanto ha comprato.”
Guglielmo di Apulia
 
Si dice che la civiltà cretese sia scomparsa a causa di un violento maremoto. Quasi lo stesso fenomeno, in questo caso, terribili mareggiate fiaccarono la spina dorsale di Amalfi, la prima delle Repubbliche Marinare italiane.
Nell’anno 1013, una tempesta senza precedenti si accanì contro la città, i marosi giunsero fin dentro l’abitato, le torri del vescovado crollarono come fuscelli, la flotta mercantile e i navigli da guerra furono sbattuti sugli scogli e sommersi.
Il fatto si ripeté, il 24 novembre 1343, con violenza ancora maggiore: una parte dell’abitato fu distrutta, le case e le strade erose dal mare, le navi affondate. Ma, ormai, Amalfi era una città spenta: tra l’una e l’altra calamità naturale una sventura ben più grave l’aveva colpita. Nel 1135, i pisani, rivali impietosi e terribili, l’avevano saccheggiata e data alle fiamme. La mareggiata, dunque, demolì del tutto una città ormai finita.
L’indipendenza e la gloria di Amalfi erano iniziate nell’839, quando un folto gruppo di amalfitani, esperti di marineria e trasferiti di forza a Salerno dal principe longobardo Sicario, si ribellarono e tornarono liberi nella loro città di origine, eleggendo a capo (comes) un certo Pietro. Teoricamente dipendente da Costantinopoli, Amalfi riusciva a mantenere, con la sua forza, rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale e partecipava, quando il suo commercio era in pericolo, alle lotte contro la crescente potenza musulmana. Navi amalfitane si batterono bene alla Punta della Licosa, al largo delle scoscese coste del Cilento, nell’846, e nelle acque di Ostia, nell’849.
Se queste due battaglie navali contro legni saraceni sanzionarono la sua indipendenza, trenta anni dopo, nell’879, un trattato di amicizia con i saraceni rese palese la sua spregiudicatezza. Per rendersi del tutto indipendente da Costantinopoli, Amalfi non poté altro che giocare la grande carta dell’alleanza con i musulmani, cui concesse perfino l’uso di uno dei suoi porticcioli. Ma simile alleanza non poteva essere che poco duratura. I prefetti eletti dal popolo si riaccostarono a Costantinopoli per tentare di ottenere, con il titolo di patrizi imperiali, il riconoscimento del loro potere in senso dinastico. Nel 958 si ebbe, infatti, il primo duca, Sergio I.
In questo periodo Amalfi raggiunse il suo maggiore splendore. A Tunisi, Tripoli, Alessandria, Acri, Laodicea, gli amalfitani avevano ottenuto privilegi per costruire fondachi e aprire banche. A Costantinopoli ebbero un quartiere tutto per loro, all’ingresso del Corno d’Oro.
Gli amalfitani furono abili carpentieri e costruttori di navi. La più antica documentazione dei legni medievali da loro costruiti ci viene da due manoscritti greci, che mostrano piccoli legni di forma simile ai mercantili dei tempi classici, con due timoni ai lati delle fiancate poppiere e un attrezzo del tutto nuovo nella storia della navigazione, la vela latina di forma triangolare, che, probabilmente, ebbe origine araba. Questi legni avevano un albero solo, lievemente inclinato verso prora, che recava un lungo pennone su cui era fissata la vela, il cui orientamento era controllato da due paranchi. Fu, solo verso il 1200, che i legni mercantili e da guerra assunsero proporzioni maggiori, quali li vediamo, a esempio, nei mosaici di San Marco: aumentò il numero degli alberi, fino a tre, e apparirono i castelli di poppa.
L’attività instancabile degli amalfitani nei loro scali mediterranei si sviluppò soprattutto nella fondazione di ospizi per pellegrini e viaggiatori e di ospedali; ne fanno fede le case di riposo costruite ad Antiochia da Mauro, figlio di Pantaleone, e l’ospedale costruito da Gerardo da Scala e da altri mercanti amalfitani a Gerusalemme, per concessione del califfo fatimita d’Egitto. Quest’ultimo ospedale fu eretto presso il Santo Sepolcro, verso il 1020, e dedicato a San Giovanni. Essendo Gerusalemme ancora in mano agli infedeli, era mantenuto con le offerte degli amalfitani: da questa fondazione si sviluppò, in seguito, l’ordine religioso-militare dei Cavalieri di San Giovanni che si trasferì, nel 1291, nell’isola di Cipro, dove rimase fino al 1308, anno in cui i Cavalieri conquistarono Rodi (Cavalieri di Rodi) e, infine, a Malta, nel 1530. 
Grande era, quindi, nell’XI secolo, la potenza marinara e mercantile di Amalfi e non sembrava probabile un rapido declino. La ragione vera del precoce tramonto amalfitano sta, forse, nella sua assenza alla prima Crociata, solo in parte spiegabile con l’ostilità che Amalfi dimostrò per i primi successi commerciali che Pisa, Genova e Venezia stavano ottenendo in Oriente. Già, nel 1081, il quartiere commerciale veneziano si era affiancato e aveva superato per volume di merci quello amalfitano sul Corno d’Oro, a Costantinopoli, dopo che la Repubblica di Venezia aveva stipulato un trattato con l’imperatore Alessio Comneno, per cui la flotta della laguna si impegnava a difendere le coste dell’impero bizantino in Oriente. L’ostilità raggiunse il culmine quando l’imperatore permise ai veneziani di imporre un tributo ai mercanti stranieri, compresi gli amalfitani, che avessero fondachi e privilegi commerciali sul Bosforo. Amalfi era stata nell’XI secolo la città più ricca d’Italia; i cronisti scrivevano che case e chiese splendevano d’argento e d’oro, che nelle strade, si incontravano mercanti arabi, libici, siriani, ebrei. Ora, doveva subire l’umiliazione di pagare un tributo a Venezia per mantenere i suoi magazzini sul Corno d’Oro.
Notevole fu, invece, il tentativo, primo nella storia, di codificare le antiche leggi marittime e commerciali con un corpus, di cui, oggi, ci rimane una redazione tarda e rimaneggiata, insieme alle consuetudini della Repubblica, nelle Tavole Amalfitane, conservate al Museo Municipale di Amalfi.
Con l’inizio della decadenza commerciale di Amalfi, gravi lotte politiche si susseguirono nel Salernitano: dal 1076 al 1127 fu un alternarsi di duchi e principi al dominio della città. Prima, Roberto il Guiscardo, poi, Ruggero di Puglia, poi, Gisulfo II di Salerno, quindi, il duca Marino di Napoli, infine, Ruggero II di Sicilia, che stabilì il dominio normanno su Amalfi. Da questa situazione instabile scaturì uno degli episodi più gravi per la storia della prima Repubblica Marinara d’Italia.      
Durante la guerra tra il normanno Ruggero e i fautori di papa Innocenzo II, tra cui la Repubblica di Pisa, una flotta pisana, nel 1135, sorprese Amalfi sguarnita delle sue milizie e la mise a sacco, incendiando le case al momento di ritirarsi. Due anni dopo, mentre la guerra continuava, la flotta pisana si ripresentò davanti ad Amalfi, ma, questa volta, gli abitanti preferirono pagare una indennità piuttosto che vedere le loro case distrutte.
Era, praticamente, la fine.
Ed è, oggi, molto triste pensare che la grande stazione commerciale della prima Repubblica è legata – nella memoria dei più – alla scoperta della bussola da parte dell’amalfitano Flavio Gioia, personaggio e scoperta creati per un errore di virgola. Lo storico rinascimentale Flavio Biondo, infatti, fu il primo ad attribuire questa scoperta ai navigatori amalfitani, mentre perfezionarono uno strumento già esistente, imperniando l’ago magnetico sulla rosa dei venti. Gian Battista Pio, uno studioso bolognese, mezzo secolo dopo, riportò che “ad Amalfi fu inventato l’uso dell’ago calamitato, da Flavio è detto…”. Uno storico napoletano successivo abolì la virgola e aggiunse a Flavio, come luogo di nascita, una fantomatica Gioia (ve ne è una in Puglia). Fu tramandata così l’idea errata che “ad Amalfi fu inventato l’uso dell’ago calamitato da Flavio Gioia…”. Questo inesistente Flavio Gioia, tuttavia, ha un suo monumento ad Amalfi, mentre Postano ne rivendica i natali.  
 
 
 
2.   Pisa, la Pompei del Mare
“Ahi Pisa, vituperio delle genti del bel paese là dove 'l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovesi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch'elli annieghi in te ogne persona!”
Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII
 
Caduta la potenza amalfitana, Pisa abbandonò l’imperatore Lotario antinormanno e venne a patti con la monarchia che reggeva l’Italia meridionale. Pisa si trovò a godere dei privilegi che erano sempre stati negati agli amalfitani per la loro politica antinormanna e l’Italia meridionale le si aprì con i suoi porti sicuri, permettendole di costituire scali di rifornimento sulla via dell’Oriente.
Chi si spinge, oggi, nella campagna a occidente di Pisa, seguendo la cosiddetta “via vecchia di Livorno”, giunge dopo pochissimi chilometri a un punto in cui sembra che qualcosa muti, l’aria  stessa e la sua luminosità, il verde delle pinete, la natura fertilissima del terreno: un’antica chiesa con ingresso laterale sembra volgere le spalle al viaggiatore, sorgendo improvvisa a un bivio. La chiesa è quella di San Piero a Grado, il luogo, quello in cui, fin da epoca etrusca e romana, si apriva la baia del porto di Pisa e dove si trovavano i gradini del molo di attracco (“a grado”), e lungo cui correva ancora il cordone litorale nell’alto Medioevo.
La sua prima grande affermazione di potenza navale, Pisa la ebbe nelle acque di Reggio Calabria, il 6 agosto 1005, quando la sua flotta sconfisse quella musulmana di stanza in Sicilia, anche per vendicare un feroce assalto dei Saraceni sulla bocca dell’Arno, avvenuto l’anno precedente. Era il giorno di San Sisto, che divenne sacro alle vittorie di Pisa, come ancora oggi documenta una epigrafe araba frammentaria in caratteri cufici, ricollocata nella controfacciata della chiesa omonima, in occasione del Capodanno Pisano del 25 marzo 2008.
La lotta tra pisani e musulmani si accese per la conquista della Sardegna: a un appello di papa Benedetto VIII risposero con Pisa anche i genovesi e, nel 1013, le navi cristiane fecero strage di saraceni, guidati dal terribile al-Mujahid (Mugetto), sotto l’infuriare di una bufera nelle acque sarde. Questa vittoria aprì loro le porte dell’isola che venne, in breve, sottomessa, ma fu anche il pomo della discordia con Genova. Nel 1034, le navi pisane assaltarono il porto di Bona, in Tunisia, con un atto di pirateria, e saccheggiarono i magazzini commerciali soggetti ai califfi Ziridi di Qairuan. L’azione pisana contro i musulmani non ebbe soste. Nel 1063, con un attacco di sorpresa, i pisani spezzarono le pesanti catene che bloccarono il porto di Palermo e con il bottino strappato ai musulmani dettero inizio alla costruzione della loro superba cattedrale. Per queste loro imprese contro gli infedeli, papa Urbano II concedeva, nel 1091, alla Chiesa di Pisa la dignità arcivescovile e le assegnava in feudo la Corsica.
L’attenzione dei pisani, fino a questo periodo, era stata per il Tirreno e le coste del Nord Africa. Ma, alla fine dell’XI secolo, la prima Crociata spostò inevitabilmente il loro interesse verso il Mediterraneo  orientale. Sostituitisi i turchi agli arabi, nel possesso dei luoghi santi, l’intolleranza religiosa era divenuta un grave pericolo per i pellegrini e per i naviganti che li trasportavano, quasi esclusivamente marinai italiani. Gli arabi avevano saputo vedere, oltre il fervore religioso di una fede diversa dalla propria, una somma di guadagni insperati; i turchi, appena convertiti all’islam, dopo la grande conquista del Vicino Oriente, a opera dei Selgiuchidi, furono decisamente intolleranti.
Privati armatori genovesi inviarono per la prima Crociata dodici galee all’assedio di Antiochia, ottenendo, dopo la conquista, un quartiere della città per esercitarvi la mercatura; Pisa, allora, approntò ben centoventi navi che partirono per l’Oriente al comando del suo primo arcivescovo, Daiberto. La flotta pisana intervenne nell’assedio che il normanno Boemondo d’Altavilla aveva posto a Laodicea di Siria (Latakia), una città non soggetta ai turchi, ma a Costantinopoli, che fu attaccata ed espugnata per dissensi con l’imperatore Alessio Comneno. Dopo la vittoria, ai pisani fu assegnato un quartiere della città. Nel frattempo, il 15 luglio 1099, era caduta Gerusalemme e, essendo morto il suo patriarca Simone, fu eletto suo primo patriarca latino l’arcivescovo di Pisa.
A seguito della conquista di Laodicea, entrò automaticamente in azione il trattato concluso da Venezia  con l’imperatore Alessio, nel 1081, per il quale la Repubblica della laguna si era impegnata a difendere le coste e gli scali dell’impero bizantino. Nell’autunno del 1099, una gigantesca flotta di duecento galee partì da Venezia agli ordini del figlio del doge Giovanni Michiel. Raggiunto l’Egeo, i veneziani avrebbero dovuto svernare, vale a dire, mettere in pratica quello che allora era detto scioverno: le imbarcazioni erano tratte in secco, le commessure delle tavole erano ripassate con pece e catrame, le manovre fisse e correnti erano riparate o sostituite. Il capitano veneziano decise di svernare a Rodi, ma dovette uscirne ben presto per mettersi in caccia della flotta pisana, rea di aver contribuito alla caduta di Laodicea, mentre era in rotta per la Palestina. Attaccatala, le recò gravissimi danni.
Contemporaneamente, giunse a Laodicea anche una flotta genovese di trenta legni al comando di Guglielmo Embriaco, detto Testa di Maglio. Ora, le quattro Repubbliche Marinare italiane erano tutte presenti nel tratto del Mediterraneo Orientale, anche se, in forte contrasto per il possesso dei migliori mercati, pur mascherandosi dietro il pretesto di concorrere alla liberazione dei luoghi santi dai turchi. Dieci anni dopo questi avvenimenti, la flotta pisana era, comunque, ancora forte, tanto che fu in grado di intervenire con successo a fianco delle truppe condotte dal normanno Tancredi d’Altavilla nella riconquista di Laodicea, che era stata di nuovo occupata dai bizantini.
Da allora, vale a dire dal primo decennio del XII secolo, i pisani cercarono di inserirsi con ogni mezzo nel disaccordo sorto  tra Costantinopoli e Venezia, a causa della preoccupante affermazione della Serenissima, non solo in campo commerciale, ma anche in quello finanziario e politico. Ma i pisani non trascurarono neppure il Mediterraneo occidentale, tanto è vero che, tra il 1113 e il 1114, per suggerimento del papa, attaccarono, a più riprese, i porti musulmani delle Baleari, ottenendo una strepitosa vittoria con il tiepido aiuto di Barcellona e delle città della Provenza. Se la conquista delle Baleari fu effimera, poiché le isole caddero ben presto sotto la dinastia berbera degli Almoravidi che dominava su Algeria e Marocco, più proficua fu l’azione di Pisa in questo settore, poiché, quando, nel 1181, le Baleari divennero indipendenti con la dinastia dei ben Ghania, i pisani ottennero grandi vantaggi commerciali e un fondaco a Maiorca.
Nel 1135, durante la contesa tra il normanno Ruggero e i fautori di papa Innocenzo II, ebbe luogo il triste episodio della distruzione di Amalfi da parte della flotta pisana. Fu questo il periodo di maggiore potenza e splendore per Pisa: in patria si erigevano i più ricchi monumenti che la città avesse mai visto (la Cattedrale fu consacrata, nel 1118, il Battistero fu iniziato verso la metà dello stesso secolo, il celebre Campanile, nel 1173, il Camposanto, alla fine del secolo, su un luogo spianato con molta terra del Golgota, portata dalla Palestina con le navi pisane).   
Nei fondachi di Tunisi, d’Egitto, di Siria e di Palestina i mercanti pisani ottenevano nuovi privilegi; negli Stati musulmani pagavano una decima sui prodotti che importavano e un 5% su quelli che esportavano; negli Stati crociati avevano ottenuto, invece, la piena franchigia doganale. Si è detto, già, di rivalità con Venezia in Oriente, ma la vera irriducibile rivale di Pisa era Genova e proprio per il predominio nel Tirreno, il mare di casa. Pomo della discordia erano le isole di Corsica e di Sardegna: nel primo caso, era intervenuto il papa, suddividendo l’isola in due regioni amministrative ecclesiastiche, ma da cui derivava anche una dipendenza di carattere politico. Nel caso della Sardegna, invece, si trattò di vero e proprio dominio pisano, ottenuto anche con l’appoggio del Sacro Romano Impero, essendo ghibellina la vecchia aristocrazia mercantile pisana, mentre Genova, come Firenze, era guelfa.
La tensione divenne estrema, nel 1241, quando, insieme alla flotta di Federico II di Sicilia e imperatore di Germania, Pisa occupò l’Isola del Giglio. All’interno non vi era tranquillità, poiché l’aristocrazia feudale e il popolo, di parte guelfa, si opponevano ai potenti mercanti ghibellini. Nello stesso tempo, nel sud della Sardegna si era accesa un’accanita lotta tra pisani e genovesi: questi ultimi riuscirono a conquistare il forte pisano di Castel di Castro, che fu, poi, ripreso dai pisani, nel 1257, quando, passati all’offensiva sotto la guida dei Capraia, dei Visconti e dei Gherardesca, assoggettarono tutto il Cagliaritano, dividendolo in tre signorie tra le tre famiglie nobili. Le passioni e le trame furono così violente che il Senato pisano pensò, nel 1272, di espellere i due massimi rappresentanti delle fazioni: Ugolino della Gherardesca e Giovanni Visconti. I due nobili, imparentati tra loro, si erano, invano, accordati per sostituire al governo ghibellino dei mercanti quello guelfo della nobiltà. Nel 1275, Pisa era sconfitta ad Asciano da una lega guelfa e il conte Ugolino poté rientrare in città, l’anno dopo, mentre Genova si organizzava per infierire con un colpo mortale sulla sua rivale.
Nell’agosto del 1284, dopo che il conte Ugolino aveva ricevuto il titolo di comandante della flotta, la squadra genovese, agli ordini di Benedetto Zaccaria, bloccò il porto di Pisa, ma con una brillante sortita, settantadue galee pisane riuscirono a prendere il mare con rotta verso Genova al comando del potestà, il veneziano Alberto Morosini, e si schierarono, a loro volta, davanti alla città ligure. Prontamente Zaccaria si portò alle spalle dei pisani, mentre da Genova tentava di uscire Oberto Doria con un’altra flotta. Per non essere circondati, i pisani, approfittando dell’oscurità, ripresero il largo, ma il Doria li superò e li attese con sessantaquattro galee nelle acque dell’Isola del Giglio, mentre la squadra di Zaccaria con trenta galee si tenne fuori vista a ridosso dell’isola.
I pisani che manovravano centodue imbarcazioni, tra galee e navi minori, si credettero superiori e accettarono la battaglia presso le secche della Meloria, ma durante lo scontro apparvero le altre navi genovesi. Le grandi galee pisane, ampie e solide, con grande ponte libero e vasta stiva, generalmente adibite al trasporto di merci, manovravano lentamente in mezzo a quella grande folla di legni, mentre le navi genovesi da combattimento, lunghe centoventi piedi e larghe quindici, erano assai manovriere, così snelle e sottili. Il pomeriggio del 6 agosto 1284, il giorno di San Sisto, già sacro ai trionfi pisani, Pisa vide il sole tramontare sul suo sogno di gloria; ebbe quaranta galee perdute, di cui trentatre catturate, circa cinquemila caduti e novemila prigionieri, tra i quali il podestà Morosini.
Nei mesi successivi, divenne così intenso il pellegrinaggio a Genova dei parenti dei superstiti, che nacque il detto:
 
“Chi vuol vedere Pisa, vada a Genova.”
 
Ugolino della Gherardesca e Giovanni Visconti, che ressero il comune dopo quella tragica giornata, tentarono di assicurarsi la neutralità di Lucca e di Firenze, cedendo loro, nel maggio del 1285, alcuni castelli di confine. Contemporaneamente, le famiglie dei prigionieri della Meloria premevano per un trattato di pace con Genova che Ugolino della Gherardesca sembrava rinviare, anche perché le previste cessioni territoriali da farsi ai genovesi avrebbero colpito le sue vaste proprietà in Sardegna. Fu, allora, accusato dalla famiglia Gualandi, rappresentante dei prigionieri, e dall’arcivescovo Ruggieri di alto tradimento (in realtà, Ruggieri, che favoriva i ghibellini in Pisa, voleva sbarazzarsi di un pericoloso rivale che si era, di nuovo, accostato alla parte ghibellina). Ugolino fu rinchiuso nella Torre dei Gualandi, con i figli e i nipoti e qui furono lasciati morire di fame, come Dante racconta nella Divina Commedia.   
Solo, nel 1923, si giunse a una pace, rovinosa per Pisa, per cui questa, sei anni dopo, dovette cedere a Genova la sua parte di Corsica e vaste zone della Sardegna. Pisa fu bloccata sul mare dall’espansione genovese e nel retroterra da quella fiorentina. Furono anni duri, di lotte interne e di alterni periodi di successi e di scacchi militari e politici: passarono gli astri dell’imperatore Arrigo VII, cui andavano tutte le speranze pisane, di Uguccione della Faggiola che riuscì a conquistare Lucca e sconfiggere Firenze; passò la signoria dei Donoratico. Restava ancora alla città una parte della Sardegna, da cui ricavava quasi la metà delle sue entrate, che, tuttavia, era preda agognata degli aragonesi di Spagna, i quali trovarono l’appoggio di papa Bonifacio VIII in cambio della rinuncia aragonese alla Sicilia.
I pisani condussero fiaccamente la lotta contro gli aragonesi, dal 1322 al 1323; artigiani e mercanti vedevano di buon occhio un accostamento di Pisa a Firenze per poter vendere le loro merci su quel ricco mercato. La guerra in Sardegna, dopo la sconfitta della Meloria e l’annullamento di molti privilegi in Levante a opera dei Veneziani, li spaventò.
Nel 1326, cessava il dominio pisano sull’isola.
L’ultima grande amarezza della loro vita marinara i pisani la ebbero, nel 1342, quando reagirono a un tentativo fiorentino di aprire un porto commerciale a Telamone. Navi pisane intervennero, ma i genovesi, alleati di Firenze, forzarono il porto di Pisa e ne asportarono le catene che bloccavano l’ingresso.
Fu la fine, anche morale, per Pisa: le catene furono, in parte, donate ai loro avversari fiorentini che le restituirono, solo nel 1860, con l’unificazione dell’Italia, in segno di unità nazionale. Come si può leggere sulla lapide posta sopra le stesse:
 
“A segno perenne di fraterno affetto, di concordia, di unione ormai indissolubile.”
 
Oggi, le catene si trovano nel braccio occidentale del Cimitero Monumentale pisano.
 
 
 
3.   Genova, la Superba
“Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica Signora del Mare: Genova.”
Francesco Petrarca
 
Così come Pisa aveva iniziato la sua ascesa marinara battendo, nel 1005, la flotta musulmana nelle acque di Reggio, Genova mosse i primi passi di potenza navale nella lotta contro i musulmani di Frasseneto, un covo di legni da corsa, che gli arabi tenevano a occidente di Nizza. Invano, una flotta bizantina li aveva attaccati, nel 930: da allora Costantinopoli  si era disinteressata del Tirreno ed era stata sostituita da Pisa e Genova che, insieme, avevano cacciato i musulmani dalla Sardegna e dalla Corsica. Il primo intervento genovese sulla scena del Tirreno meravigliò per la perfezione costruttiva delle loro navi, tanto che i genovesi ricevettero da Alfonso il Saggio, re di Castiglia, l’incarico di attrezzare l’arsenale di Siviglia e da Filippo il Bello, re di Francia, quello di Rouen.
A Genova, le navi non appartenevano allo Stato, come a Venezia, ma ai privati, che compartecipavano alle spese di costruzione; le conducevano capitani al servizio di mercanti, o corsari, i quali, tutti, in caso di imprese di particolare importanza, si offrivano al comando dei Consoli del Mare. In seguito, questi gruppi amatoriali si fusero in una grande consorteria armata, detta “Compagna”, che divenne, poi, responsabile anche di iniziative politiche, oltre che di quelle commerciali.
I genovesi entrarono nella scena internazionale aderendo alla prima Crociata con la spedizione a Laodicea delle loro trenta navi al comando di Guglielmo Embriaco, detto Testa di Maglio. Oltre ai vantaggi a Laodicea, Genova ne ricavò anche un fondaco ad Antiochia, con la Chiesa di San Giovanni e molti privilegi ed esenzioni di imposte. Era tipico degli armatori genovesi chiedere per il loro intervento il 15% del bottino di guerra e un terzo dell’abitato delle città conquistate. Alla seconda Crociata, tuttavia, Genova, impegnata nel duello con Pisa per il possesso della Corsica, non partecipò. Ciò non diminuì la sua autorità, tanto che, nel 1162, Federico Barbarossa ne riconobbe l’autonomia, e, dopo la morte di suo figlio, Enrico VI, un capitano corsaro genovese fu eletto conte di Siracusa. Federico II, salito sul trono normanno dell’Italia meridionale, nel 1198, cancellò ogni privilegio genovese, mentre poco dopo, nel 1204, i crociati unitisi ai veneziani condotti dal doge Enrico Dandolo, conquistarono Costantinopoli durante la quarta Crociata e fondarono l’impero bizantino.
Ora, Genova trovava bloccate le sue vie commerciali sia in Italia meridionale, a opera dei normanno-svevi di Sicilia e Puglia, sia in Oriente, a opera della affermata potenza veneziana. I mercanti genovesi affidarono allora la fortuna delle navi ai loro corsari che, in breve volgere di anni, conquistarono i punti-chiave di Malta, Corfù e Creta. Non contenti, i genovesi tentarono, nel 1235, un’arrischiata impresa contro i musulmani di Ceuta, che comandavano il transito di ogni nave per lo stretto di Gibilterra; fu tale la ripercussione dell’audace colpo di mano che il sovrano Hafside di Tunisi concesse ai mercanti genovesi stabilimenti e fondachi nelle città costiere dell’Africa settentrionale fino a Tripoli.
Le vicende delle fazioni guelfe e ghibelline in Italia trovarono Genova in campo guelfo, proprio quando Pisa collaborava con l’imperatore Federico II. Mentre le navi genovesi recarono a Roma i cardinali francesi che si portavano al Concilio che doveva scomunicare l’imperatore, i pisani attaccarono e conquistarono, nel 1241, l’Isola del Giglio e dispersero i genovesi. Il nuovo papa, tuttavia, Innocenzo IV, fu un genovese, Sinibaldo Fieschi, e le acque si calmarono anche perché Federico II morì, nel 1250. Se nel Tirreno l’ostacolo di Pisa era difficile da aggirare, ancora più temibile era la lotta con i veneziani in Oriente per il possesso dei più fiorenti scali commerciali.
Le famiglie più potenti di Genova, a capo delle quali si trovarono, di volta in volta, i Grimaldi, i Fieschi, i Doria, gli Spinola, e la nuova forza politica della borghesia mercantile condussero l’offensiva commerciale su un piano militare, tanto che, essendo capitano del popolo Guglielmo Boccanegra, avvenne ad Acri, in Terrasanta, un pesante scontro tra genovesi e veneziani. La flotta di Genova fu quasi distrutta e migliaia di persone perirono in città. A ricordo dell’impresa, i veneziani tolsero da Acri due pilastri, che posero tra San Marco e il Palazzo Ducale.
Genova si riebbe ben presto e cercò la sua rivincita quando, nel 1261, dando man forte all’imperatore d’Oriente Michele VIII Paleologo, riuscì a cacciare i franco-crociati da Costantinopoli, che, per sessanta anni, era stata una creatura di Venezia, ma che aveva visto il furto di oggetti preziosi estendersi fino alla violazione delle tombe degli abitanti greci per arricchire il tesoro di San Marco. Quale prezzo del loro aiuto, i genovesi ricevettero dai bizantini l’85% delle entrate doganali del Bosforo e il nuovo quartiere di Galata, sulla collina di fronte al vecchio nucleo urbano oltre il Corno d’Oro. Ancora oggi, sul dedalo di viuzze che costituirono il quartiere genovese, si alza la bella torre fortificata, eretta dopo il trattato di Ninfeo (1261) tra Genova e l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo, sui resti di una torre precedente. I genovesi possedevano inoltre un fondaco sul Bosforo. Prima cura dei nuovi padroni del porto fu quella di abbattere a colpi di piccone il fondaco veneziano e il palazzo detto del Pantocratore, dove avevano sede i notabili della Serenissima.
Contemporaneamente, Michele VIII Paleologo veniva incoronato in Santa Sofia – non lontana dal fondaco genovese – con tutta la pompa degna di un imperatore bizantino.
Dopo la vittoriosa battaglia della Meloria, Genova aveva osato attaccare perfino i muniti porti dalmati dell’Adriatico settentrionale che non avevano conosciuto altra bandiera se non quella di San Marco. Venezia cercò di reagire con la forza dell’orgoglio e accettò la battaglia nelle acque dell’isola di Curzola, l’8 settembre 1298. Agli ordini del doge Andrea Dandolo erano novantasei galee veneziane, settantasei quelle genovesi agli ordini di Lamba Doria. Attaccarono dapprima i genovesi, ma incontrarono una strenua resistenza, essendo, poi, costrette le loro navi a cedere al vento e ad allontanarsi; ma un gruppo di galee, staccate la sera prima da Doria, corsrro alle spalle dei veneziani, che restarono aggirati. Quando il sole tramontò, ottantaquattro legni veneziani erano perduti, il doge morto in battaglia, i prigionieri oltre seimila. Tra costoro vi era Marco Polo, il quale, se non avesse combattuto a Curzola, probabilmente non avrebbe mai scritto il suo Libro delle Meraviglie o Milione, che dettò in prigionia a Rustichello da Pisa.      
Mentre questi avvenimenti accadevano in Adriatico, due fratelli genovesi, Ugolino e Vadino Vivaldi stavano viaggiando in mari infidi e sconosciuti. Partiti da Genova, nel 1291, con due galee, la Sant’Antonio e l’Allegranza, facevano vela “per mare Oceanum ad partes Indiae”. Visti per l’ultima volta sulla costa africana di fronte alle Canarie, i due legni tentarono il periplo dell’Africa, ma dei Vivaldi non si ebbe più alcuna notizia, se non per una tradizione cinquecentesca che li dava sbarcati nei pressi dell’odierna Mogadiscio. Questa impresa fu voluta dai genovesi per sbloccare, cercando nuove vie di traffico, il commercio con l’India, interrotto dalla caduta del regno cristiano di Gerusalemme e dalla scomunica che coglieva chiunque avesse rapporti di affari con l’Egitto, feudo dei Mammalucchi Bahariti, rigidissimi con gli infedeli.
Un altro tentativo genovese fu il progetto di alleanza con i mongoli che, nel 1258, avevano distrutto Baghdad e si erano impadroniti di tutta la Persia. Tentarono di convogliare tutto il traffico commerciale dalla Cina e dall’India verso il Tigri e l’Eufrate fino all’Anatolia e a Costantinopoli, impedendo ai mercanti arabi di dirottarlo via mare verso il Mar Rosso e l’Egitto. Per fare questo dovettero costruire un arsenale a Bassora e un fondaco a Baghdad ove potessero trovare ricetto navi e merci che giungevano per la via del Golfo Persico. Con le nuove ricchezze Genova si evolse: i mercanti cercarono di impadronirsi del potere, le grandi famiglie si coalizzarono per eliminare rivali concorrenti. Cadde il podestà, si giunse al dogato perpetuo. Simon Boccanegra divenne, nel 1339, il primo doge a vita.
La potenza marinara dei dogi genovesi si fondò sui buoni rapporti con i gruppi amatoriali che presero il nome di “maone”, da una parola araba che significa “indennizzo”, e che implicava il diritto a compiere una determinata impresa, anche di pirateria, se le squadre navali rimanevano inutilizzate. La prima impresa fu quella della maona di Focea, quella di Lesbo, e così via, finché ogni armatore si ritenne in diritto di essere “indennizzato” per qualche supposto mancato guadagno.
È chiaro che questo portò alla dissolutezza commerciale e alla totale mancanza di fiducia di greci, turchi e arabi nei riguardi dei genovesi. D’altra parte, i turchi ottomani che avevamo conquistato l’Anatolia, premevano sempre più alle porte di Costantinopoli. I veneziani stavano recuperando la loro presenza in Oriente e quando, per un banale incidente di precedenza, vi furono tafferugli tra genovesi e veneziani all’inconorazione di Pietro II, re di Cipro, una maona di quaranta galee genovesi costrinse il re neo-eletto a consegnare il proprio figlio come ostaggio e a lasciare ai genovesi il porto di Famagosta. L’ultimo contrasto con Venezia, tuttavia, sorse per il possesso della minuscola Isola di Tenedo che domina l’ingresso ai Dardanelli. Il re di Cipro, per far pagare ai genovesi l’affronto subito si alleò con Venezia, che trovò aiuto anche presso Bernabò Visconti che dalla sua signoria milanese, premeva alle spalle di Genova. La guerra fu detta “di Chioggia” dall’ultima decisiva battaglia.
Dopo aver bloccato la flotta genovese a Zara, i veneziani, condotti da Vettor Pisani, vennero sconfitti nelle acque di Pola, il 29 maggio 1379 e si ritirarono nella laguna dove si fortificarono con ostruzioni. Gettato in carcere Pisani, i veneziani subirono l’onta di un bombardamento navale eseguito dalle navi di Pietro Doria, entrato nel canale di Malamocco. Doria attaccò poi Chioggia, occupandola dopo durissimi combattimenti, il 16 agosto, sessantaquattro galee genovesi tentarono, quindi, di impadronirsi del Lido, ma furono respinte, il 2 settembre. I veneziani, allora, tolsero di prigione Vettor Pisani, lo nominarono capitano generale, venne riorganizzata la flotta, mentre tornava dall’Oriente la squadra di Carlo Zeno.  Zeno e Pisani riuscirono a chiudere i genovesi in una stretta mortale a Chioggia. Il 24 giugno 1380, circa quattromila marinai superstiti e affamati si arresero ai veneziani. Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, fu il mediatore della pace di Torino, nel 1381, che vide iniziare la lenta decadenza della Repubblica genovese.
Il destino marinaro di Genova fu condizionato dai turchi: perduta l’indipendenza in patria (dal 1396 al 1436, la città conobbe padroni francesi, piemontesi e lombardi), i mercanti, raggruppatisi in maone, si considerarono liberi in ogni loro azione, così come fecero le colonie. Spregiudicatamente, servivano chi pagava meglio: l’esempio più tipico è il traghetto dell’esercito turco effettuato da navi genovesi ai Dardanelli, dopo che questo era stato battuto da ungheresi, polacchi e tedeschi condotti da Giovanni Hunyadi. Invano vi si oppose una flotta greco-veneziana. Le monete d’oro del sultano Murad II e l’odio per Venezia convinsero i genovesi a forzare il blocco.
Nel 1451, il nuovo sultano Maometto II costruì il castello di Rumeli Hisar nel punto più stretto del Bosforo, non lontano da Costantinopoli. Il forte comandava il passaggio dello stretto: i genovesi, allora, cercarono di correre ai ripari, inviando due galee con settecento uomini agli ordini di Giovanni Giustiniani-Longo, che fu dall’imperatore Costantino XII nominato comandante supremo delle forze di terra e cui fu offerta in feudo l’Isola di Lemno. Quando, poi, Maometto II diede l’assalto alla capitale nel 1453, Costantino poté contare anche sugli equipaggi di poche navi veneziane sorprese nel Corno d’Oro: seimila greci e tremila stranieri (tra i quali trecento balestrieri mandati da Genova) si trovarono di fronte a circa centocinquantamila turchi.
Il 6 aprile, Maometto II sferrò l’assalto decisivo. Genovesi e veneziani dimenticarono i rancori e combatterono, accanitamente, spalla a spalla. Pochi rimasero a raccontare gli episodi di valore. Vi era il fior fiore delle famiglie delle due Repubbliche: Giustiniani-Longo, Langasco, Cattaneo, Bocchiardo, Corsaro, Mocenigo, Dolfin, Trevisan, Venier, Minotto, Gritti, Loredan. Costantino XII, di fronte alla lealtà veneziana, in questo supremo frangente, affidò il comando della flotta ad Alvise Diedo, che combatté  con i figli Marco e Vettore. Triste, in tale clima di epopea, fu il doppio gioco dei genovesi di Galata, il quartiere oltre il Corno d’Oro, i quali aiutarono il sultano pur di non perdere i loro privilegi. L’assalto durò ininterrotto fino al 29 maggio: i musulmani cadevano a migliaia. L’imperatore Costantino XII e Giustiniani si trovarono a combattere, fianco a fianco, sui cadaveri dei loro uomini, fino a che il capitano genovese fu gravemente ferito e riparò in un naviglio che lo condusse a Scio, mentre l’ultimo sovrano di Costantinopoli, ormai solo su una montagna di morti, si gettava contro gli assalitori in cerca della fine.
Nei mesi successivi caddero anche gli ultimi scali genovesi in Crimea, ma il commercio con l’India e la Cina non fu interrotto: il posto dei genovesi fu preso dai grandi mercanti moscoviti, tra i quali gli Stroganov.
L’ultima bandiera genovese fu ammainata là dove Giustiniani era morto di crepacuore, a Scio, che divenne turca, solo, nel 1566. Ma, già allora, Genova non era più una Repubblica marinara.
 
 
 
 
Daniela Zini
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Sabato 23 Ottobre,2010 Ore: 07:46
 
 
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