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www.ildialogo.org "UN LEADER CHE E' STATO CREATO DAI MEDIA": GLI "ARCANA IMPERII" DI OGGI. La mezza verità (mezza falsità) di una riflessione sulla libertà di stampa di Nadia Urbinati,a cura di Federico La Sala

STORIA D'ITALIA (1994-2010): IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" E IL GIOCO DEL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO. CHE LE ISTITUZIONI DEL NOSTRO PAESE ABBIANO PERMESSO UN PARTITO CON IL NOME DI "FORZA ITALIA" PRIMA, E CON IL "POPOLO DELLA LIBERTA'" POI, E' LA PREMESSA non detta DEL PARADOSSO IN CUI L'ITALIA E' STATA BUTTATA.
"UN LEADER CHE E' STATO CREATO DAI MEDIA": GLI "ARCANA IMPERII" DI OGGI. La mezza verità (mezza falsità) di una riflessione sulla libertà di stampa di Nadia Urbinati

(...) Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.


a cura di Federico La Sala

La lezione di Tocqueville

di Nadia Urbinati (la Repubblica, 4 giugno 2010)

La libertà di stampa è una di quelle libertà per le quali non può esistere una via intermedia tra massima libertà e dispotismo. Lo aveva capito quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville, il quale, da critico diagnostico della trasformazione democratica delle società moderne, non si faceva scrupolo a confessare la sua ambigua attitudine nei confronti di questa libertà. Una libertà che diceva di amare non perché un bene in sé ma perché un mezzo che impedisce cose veramente indesiderabili come l’impunità, l’abuso di potere e le tentazioni assolutistiche di chi governa. Proprio perché ogni tentativo di regolare la libertà di stampa si risolverebbe invariabilmente in uno sbilanciamento di potere a favore di chi regola, meglio, molto meglio una libertà senza limiti.

Del resto, chi può decidere su quale sia il limite giusto? E poi, chi controllerà colui che decide sul limite? Per questa ragione, Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell’opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l’intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l’assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.

L’impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull’opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all’opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire.

È per questa ragione che l’azione del premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l’impossibile: vivere di pubblico senza pubblico.

Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l’opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma il premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l’ambizione assurda dell’assolutismo dispotico nell’era dei media.

Come ha scritto Ezio Mauro a commento dell’attacco in diretta che il premier ha lanciato contro chi aveva ricordato le sue passate dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali (Massimo Giannini) e contro chi aveva mostrato con i dati un suo calo nei consensi (Ipsos e Pagnoncelli), egli vuole «impedire ai giornali di raccontare la verità» per distribuire invece «un’unica verità di Stato».

I monarchi assoluti dell’età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell’opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c’era era all’interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c’era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l’avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per il leader, l’essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un’immagine pubblica, un’immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna del leader con ambizioni assolutisiche nell’era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l’opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione.

Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell’immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi.

La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell’immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all’udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.

_________________________________

Sul tema, in rete, si cfr.:

ESPERIMENTO ITALIA. L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ... E C’E’ ANCORA!!! 

IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI 

COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....

RIFARE UNO STATO?! BASTA UN NOTAIO, UN FUNZIONIARIO DEL MINISTERO DELL’INTERNO E LA REGISTRAZIONE DI UN SIMBOLO DI PARTITO CON IL NOME DEL POPOLO!



Sabato 05 Giugno,2010 Ore: 17:18
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/6/2010 21.20
Titolo:Se la tv di Stato taglia a metà la trasmissione di Roberto Saviano ...
Le forbici del potere


di Giovanni Valentini (la Repubblica, 05.06.2010)



Se la tv di Stato taglia a metà la trasmissione di Roberto Saviano, vuol dire che lo Stato intende fare a metà la lotta alla camorra? In vista del cda Rai convocato per martedì prossimo l´interrogativo è più che lecito. Soprattutto alla luce delle inammissibili esternazioni con cui il presidente Berlusconi ha accusato lo scrittore napoletano di danneggiare l´immagine dell´Italia con i suoi libri e i suoi articoli contro la criminalità organizzata. È chiaro, comunque, che si tratta di un altro caso di censura preventiva, ai danni della televisione pubblica, dei telespettatori e dei cittadini italiani.

A quanto sembra di capire, sulle quattro puntate previste del programma che Saviano sta scrivendo per Rai Tre con Fabio Fazio, due sarebbero a rischio: una sulla ricostruzione post-terremoto in Abruzzo e l´altra sullo scandalo dei rifiuti in Campania. Due inchieste di approfondimento, dunque, su due vicende che certamente interessano l´opinione pubblica e hanno una rilevanza civile. Nessuno le ha ancora visionate, e forse non ne ha neppure letto il testo, ma la forbice del censore è già pronta a scattare per impedire a tutti noi di vedere e di giudicare.

Evidentemente, sotto il regime televisivo, siamo condannati ad avere una tv a sovranità limitata. Una tv dimezzata. Una tv con il silenziatore. E il fatto è tanto più grave perché deriva dalla pretesa di un premier-tycoon, un capo del governo che è anche capo del polo televisivo privato in concorrenza diretta con la televisione pubblica. Siamo, ormai, alla censura a reti unificate.

Prima che il presidente del Consiglio smentisca qualsiasi interferenza diretta o indiretta sull’autonomia della Rai, addebitando a chi lo critica l’arte della menzogna di cui è maestro, ricordiamo anche qui i precedenti. Già il 28 novembre del 2009, in un convegno dei giovani del Pdl a Olbia, il premier dichiarò minacciosamente: «Se trovo chi ha fatto le nove serie della Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, lo strozzo». Poi, il 28 gennaio di quest’anno, nel corso di una conferenza-stampa a Reggio Calabria rincarò la dose: «Spero che questa brutta abitudine di fare fiction sulla mafia finisca. Queste fiction hanno danneggiato l´immagine del Paese».

Più recentemente, il 16 aprile scorso, lo stesso presidente del Consiglio ha ribadito il concetto che serial tv come La Piovra e libri come Gomorra fanno una cattiva pubblicità all´Italia nel mondo, promuovendo la mafia. Su questa scia, pochi giorni dopo il direttore del Tg 4 Emilio Fede ha sbottato: «Basta, Saviano non è un eroe. Non se ne può più!». E da ultimo, perfino il calciatore milanista Marco Borriello, napoletano di origine, s’è sentito in diritto di dichiarare che Saviano «è uno che ha lucrato sulla mia città», salvo poi pentirsi, esprimere il proprio rammarico e infine ammettere che «il problema è più grande di me».

Ecco, la conclusione del giocatore del Milan può valere anche per il patròn del Milan, per i suoi fans e ancor più per i censori della Rai. Lasciate stare: il problema, effettivamente, è più grande di voi. Non è il libro, il film o la trasmissione di Saviano che fanno una cattiva pubblicità all’Italia. Sono i problemi, i fatti, le situazioni che lui ha il coraggio di denunciare a non fare una buona pubblicità al nostro Paese. E sono le censure a danneggiarne l’immagine nel mondo, a farci fare una pessima figura.

C’è, al fondo di queste insulse reazioni, un’interpretazione puramente mediatica del potere; una visione esclusivamente propagandistica della politica. Come se tutto si riducesse a un maxi-spot, a una campagna promozionale o pubblicitaria, per nascondere i problemi reali, attirare masse di turisti ignoranti o creduloni e magari valorizzare, al di là delle bellezze naturali, le gambe delle nostre segretarie o gli attributi delle nostre escort. Un Carosello permanente al posto della lotta alla mafia.

Dice bene il sito della Fondazione Fare Futuro, presieduta da Gianfranco Fini: «Tagliare la trasmissione di Saviano significa che lo Stato abdica alle sue funzioni per accontentarsi di nani e ballerine, di zerbini e di veline». È il modello della tv di regime, rassicurante e consolatoria, compiacente e servile, falsa e bugiarda. Eppure, sappiamo tutti che all’interno della Rai non mancano né la competenza, né la professionalità né tantomeno il senso di responsabilità: quelle risorse, cioè, che giustificano e legittimano il ruolo della televisione pubblica.

Da Saviano a Santoro, da Floris a Dandini, da Ruffini a Busi, per citare solo i protagonisti o le vittime degli ultimi casi, questa funzione non si difende però a colpi di forbici. Si difende con l’impegno a fare informazione, intrattenimento o spettacolo, al servizio dei cittadini piuttosto che al servizio del potere.

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