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www.ildialogo.org DISSERO “PLACET” AL DOGMA DELL’INFALLIBILITA’,di Daniela Zini

DISSERO “PLACET” AL DOGMA DELL’INFALLIBILITA’

di Daniela Zini

Centoquaranta anni fa, durante il pontificato di Pio IX, ha inizio il Concilio Vaticano I.
Perché la Chiesa affronta la battaglia dell’infallibilità del papa, proprio mentre si va frantumando il suo regno temporale? Complessi motivi, legati alla situazione europea del tempo, sono all’origine della decisione.


Uno degli eventi più memorabili della Chiesa è la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale. Centoquaranta anni fa, inizia nella basilica di San Pietro il Concilio Vaticano I, dal quale scaturisce la costituzione che conferisce al capo della Chiesa cattolica una suprema autorità. Con questa svolta, la Chiesa imbocca la strada di un assolutismo religioso e, proprio, mentre si va frantumando il suo regno temporale.
La decisione del Concilio Vaticano I è definita, secondo i punti di vista, un atto di estremo orgoglio e anche di estrema debolezza. Molto probabilmente, è l’uno e l’altra insieme. Sui come e sui perché Pio IX e le massime gerarchie ecclesiastiche giochino una carta tanto azzardata, nel momento in cui la mossa sembra meno propizia, si è scritto una monumentale biblioteca e ancora se ne discute.
Nel mare delle illazioni, delle deduzioni e delle ipotesi, più o meno fondate, che hanno sommerso il concilio, il punto fermo è dato dall’indagine storica racchiusa nel capitolo La Chiesa e gli Stati nell’Europa contemporanea, che Giovanni Spadolini ha inserito in appendice a L’opposizione cattolica. L’opera è considerata un testo fondamentale della storiografia del cattolicesimo in Italia, dopo il Risorgimento. Per completare il grande affresco, Spadolini, senza uscire dal tema, anzi, penetrandovi maggiormente, mette in risalto la situazione europea e i motivi politici, ideologici, le forze palesi e nascoste che “a monte” del concilio scatenano il corto circuito dell’infallibilità.
Credo che non si riesca a comprendere questa pagina drammatica e lacerante della Chiesa moderna, senza osservarla attraverso l’indagine di Spadolini.
“L’affermazione dell’infallibilità pontificia”,
scrive Spadolini,
“è contemporanea alla crisi definitiva del potere temporale. Si potrebbe dire che le deliberazioni del Concilio Vaticano, contro la resistenza di numerosi vescovi francesi e austriaci, contro le prospettive di una secessione germanica, contro le tradizioni e le suggestioni democratiche di tanta parte dell’Europa e del clero, non sarebbero state possibili senza un assoluto isolamento sul piano diplomatico internazionale, senza una volontà consapevole di rompere con il concerto europeo, senza una sottintesa decisione di compromettere il potere temporale.”
E, dopo aver tratteggiato nei dettagli le rapide, incalzanti e convulse trasformazioni, che in quel periodo modificano i vari paesi europei, prosegue:
“Nella mente di Pio IX, uno dei papi meno politici che la Chiesa abbia avuto nei tempi moderni (nonostante i clichés del 1848 e i canti della rivoluzione), la preoccupazione religiosa prevaleva di gran lunga sulle considerazioni diplomatiche, e il suo scopo fondamentale era quello di irrobustire l’ideologia cattolica, di salvaguardare l’integrità del magistero pontificio dalle insidie e dalle minacce delle correnti revisioniste, ereticali e liberaleggiantiche si erano diffuse in Europa dal 1830 in là. La vera risposta alle iniziative italiane non fu tanto la convenzione di settembre (con cui si garantiva l’indipendenza allo Stato pontificio), quanto il Sillabo; la vera reazione all’abbandono e alla diserzione delle potenze cattoliche non fu tanto la lotta contro Garibaldi, quanto il Concilio Vaticano, la proclamazione dell’infallibilità, l’affermazione della supremazia pontificia sull’Episcopato, la consacrazione solenne e sdegnosa dell’assolutismo e centralismo papale, contro tutti i tentativi e le indulgenze democratiche e autonomistiche.”
Questo il filo che cuce tutta la storia del concilio. Un filo lunghissimo, esteso da un capo all’altro del secolo XIX, e, per giunta, aggrovigliato. Per tentare di dipanarlo, Pio IX ricorre a un colpo di forbice e lo prepara per cinque anni.
Il papa confida, per la prima volta, l’intenzione di convocare il concilio,  il 6 dicembre 1864, a un ristretto gruppo di cardinali, durante una normale seduta di lavoro della Congregazione dei Riti, chiedendo ai cardinali la loro opinione. Tredici rispondono che sia opportuno convocarlo, due che non sia conveniente e qualcuno, ancora, che non lo ritiene necessario. La maggioranza è a favore e, nel marzo del 1865, Pio IX insedia la commissione preparatoria, che, subito, si trova di fronte alla soluzione di un quesito fondamentale.
Bisogna invitare i principi, vale a dire i capi di Stato, come era stato fatto nei precedenti concili?
In caso affermativo, non si sarebbe potuto escludere il re d’Italia.
La commissione si rimette al papa, che risponde con un secco no.
Nella bolla che annuncia il concilio si parla soltanto di “collaborazione” dei principi.
Ecco come il cardinale Manning, arcivescovo di Westminster, spiega il “mancato invito” nel libro L’istoria vera del Concilio, pubblicato nel 1878:
“Invitarli, dunque, a intervenire sarebbe lo stesso che pregare le autorità pubbliche degli Stati Uniti di prendere parte alle deliberazioni del parlamento britannico.”
Mentre in Vaticano si cavilla, l’Europa cambia faccia.
Il 16 giugno 1866, scoppia la guerra tra Prussia e Austria.
Qualche giorno dopo l’Italia parte alla conquista del Veneto.
Il 15 settembre 1864, la Francia di Napoleone e l’Italia del governo Minghetti avevano firmato la famosa Convenzione di Settembre, con la quale l’Italia si impegnava a trasferire la capitale del regno da Torino a Firenze e a non aggredire lo Stato pontificio e la Francia a ritirare da Roma le proprie truppe, nel termine massimo di due anni. 
Pio IX, che ha previsto l’apertura del concilio, per il giugno del 1866, nel giorno dell’anniversario del martirio di San Pietro,  è costretto a rinviarla. Palesa con pessimismo al comandante del presidio francese che abbandona forte Sant’Angelo:
“ Non bisogna illudersi, la rivoluzione verrà fin qui.
Infine, il 29 giugno 1868, può pubblicare la bolla Aeterni Patris, che fissa il concilio per l’8 dicembre dell’anno successivo, festa dell’Immacolata. Nel documento riecheggiano i toni perentori del Sillabo (vale a dire del documento emanato, nel 1864, da Pio IX in cui si elencano, in ottanta proposizioni, le dottrine moderne che la Chiesa considera erronee):
“Ora è a tutti noto e manifesto da quale orribile tempesta sia presentemente sbattuta la Chiesa e da quali e quanti mali la stessa civile società sia afflitta. Imperocché  da nemici fierissimi di Dio e degli uomini la Chiesa cattolica è salutare dottrina e la veneranda potestà ed autorità suprema di questa Apostolica Sede è oppugnata e conculcata, e tutte le cose sante sono disprezzate, ed i beni ecclesiastici dilapidati, e vescovi e uomini ragguardevolissimi per sentimenti cattolici vengono vessati in mille guise, e le famiglie religiose disperse, e libri empi d’ogni genere e pestiferi giornali e perniciosissime sette di ogni forma sono dappertutto diffuse, e la educazione della misera gioventù quasi da per tutto tolta al clero e, quel che è peggio, in molti luoghi è affidata ai ministri dell’iniquità e dell’errore…”
Le condanne e le visioni apocalittiche già espresse con il Sillabo fanno da premessa all’imminente concilio e nessuno dei tentativi operati sia dall’esterno, vale a dire dalle potenze straniere, sia dall’interno dello stesso episcopato, con le raccomandazioni alla cautela provenienti da alcuni e autorevoli rappresentanti delle correnti più avanzate del clero, riescono a trattenere Pio IX dall’assumere le posizioni più rigorose dell’integralismo cattolico. I templi in cui, all’inizio del suo pontificato, papa Mastai veniva accolto dalle moltitudini come un coraggioso innovatore, sono tramontati per sempre. La sua marcia involutiva è ormai inarrestabile.
Il concilio inizia, l’8 dicembre 1869, in un’aula ricavata nel braccio destro della basilica vaticana. È il ventesimo concilio della Chiesa cattolica e si apre tre secoli dopo l’epilogo dell’ultimo, a Trento, nel 1563.
La cerimonia si svolge con spettacolare solennità.
Pio IX, entrato nel tempio sulla sedia gestatoria, benedice la folla con lenti gesti della mano.
Sono presenti settecento padri conciliari, altri settantaquattro arriveranno più tardi. Dei millecinquanta invitati, tuttavia, duecentosettantasei non metteranno mai piede nella basilica e più di un terzo sono di nazionalità italiana.
Su Roma cade una pioggia fitta, continua e, dopo il canto del Veni Creator e la recita della preghiera per il Sinodo, il papa dal trono rivolge un’allocuzione in latino, e sferra un ulteriore attacco contro la “nuova società”, il libero pensiero, il mondo laico, le filosofie razionali e tutto quanto è foriero di “sconvolgimento” e di “empietà”.
“Venerabili fratelli”,
enuncia Pio IX,
giacché voi conoscete con quanto impeto l’antico avversario del genere umano abbia assalito e ancora assalisca la casa di Dio. Per opera sua ampiamente si dilata quella congiura di empii, che forte per l’unione, potente per ricchezze, sostenuta dalle istituzioni, e avendo la libertà per velo all’iniquità, non cessa di muovere una guerra spietatissima e piena di ogni scelleratezza contro la Chiesa di Cristo. Non ignoravate la natura, le forze, le armi, i progressi, le mire di questa guerra. Vi sta di continuo sotto gli occhi lo sconvolgimento e la confusione delle sane dottrine a cui tutte le umane cose nei propri ordini si appoggiano, il luttuoso pervertimento di ogni diritto, le arti molteplici di mentire audacemente e di corrompere, colle quali si disciolgono i vincoli salutari dell’onestà e dell’autorità, si infiammano tutte le peggiori cupidigie, si svelle radicalmente dagli animi la fede cristiana, cosicché in questo tempo sarebbe a temersi una certa ruina della Chiesa di Dio, se potesse distruggersi da alcuna macchinazione o sforzo degli uomini.”
Tra la cerimonia dell’inaugurazione e la seconda seduta pubblica trascorre poco meno di un mese, fino al 6 gennaio 1870, ma, nel frattempo, il concilio mette a punto la macchina organizzativa. Si procede, per prima cosa, a formare la Commissione dei Postulati, vale a dire la sezione incaricata di accogliere e vagliare le proposte che perverranno dai padri. Le nomine avvengono su designazione del papa, per cui Pio IX riesce a collocare i suoi uomini più fidati al centro del dispositivo che regolerà le discussioni. Dell’équipe, composta da dodici cardinali, due patriarchi, dieci arcivescovi e due vescovi, fanno parte alcuni dei prelati che più hanno collaborato con il pontefice alla compilazione del Sillabo, alla condanna degli errori del progresso e della società liberale.
Gli altri leaders della corrente integralista finiscono nei posti chiave delle Commissioni della Fede, della Disciplina e degli Ordini Religiosi. L’intero apparato risulta così in mano a cardinali e vescovi sincronizzati con le tesi di Pio IX. Nell’intervallo tra le due sedute pubbliche va delineandosi uno schieramento, diviso tra papisti e antipapisti, vale a dire tra i sostenitori a oltranza dell’estremismo pontificio e i contrari; e, secondo calcoli approssimativi, la maggioranza raccolta attorno a Pio IX può disporre di cinquecentocinquanta voti. È evidente che alla piccola pattuglia dell’opposizione non sarà consentito che di seguire il dibattito lungo gli itinerari già prestabiliti.
Quasi subito, tuttavia, la maggioranza si rivela meno compatta e omogenea. Con la presunzione di essere estremamente forte, commette un errore, calca troppo la mano, suscitando immediati malumori e dissensi. Il passo sbagliato è la presentazione di un progetto che tende a trasformare in un dogma le ottanta proposizioni del Sillabo. I padri conciliari dovranno  approvarlo in blocco, ma lo schema relativo alla costituzione dogmatica sulla dottrina cattolica contro gli errori del razionalismo, redatto da padre Franzelin, teologo pontificio, viene duramente criticato per la forma prolissa e polemica, la meno adatta a un documento conciliare.
Le reazioni sono talmente vivaci che, perfino, Pio IX non osa insistere e, per evitare che, fino dal principio, il concilio naufraghi in uno sconquasso generale, ordina una precipitosa ritirata. Ingoiato il boccone amaro, non lo digerisce ed ecco che, nell’aula, si ode la proposta di una modifica sulla procedura dei lavori, in modo da restringere ulteriormente l’esigua area di manovra della minoranza.
Si tratta di cambiare il regolamento che disciplina il dibattito. D’ora in poi, nessuno sarà autorizzato a esprimere obiezioni nei confronti degli schemi in discussione senza prima averle formulate per iscritto e con dettagliate correzioni. Si deve istruire una “pratica” che, poi, la commissione vaglia, riservandosi il diritto di comunicarla o meno all’assemblea. Non solo, ma, anche dopo la complicata fase preliminare, il presidente avrà la facoltà di interrompere e chiudere il dibattito su richiesta di due padri, approvata dalla maggioranza.
Con questo sistema, il papa smorza sul nascere qualsiasi opinione contraria, toglie al gruppo minoritario qualsiasi possibilità di iniziativa. Il ricorso all’obiezione scritta riduce enormemente l’efficacia, la spontaneità, l’immediatezza degli interventi dell’opposizione, in pratica, li svuota di ogni effetto e, in più, permette alla maggioranza di studiare a fondo le repliche e le opportune contromisure, senza, poi, contare che il diritto di porre fine alla discussione, in qualunque momento, sopprime quel poco di democratico che al concilio è rimasto.
Benché assurdo, il progetto è approvato e, con questa “stretta di freni”, il Vaticano I perde le sue caratteristiche ecumeniche per diventare un semplice consiglio ecclesiastico.
La mossa spiana definitivamente la strada alla grande questione dell’infallibilità, la più attesa e lacerante. Con lo schema De Ecclesia Christi, il Concilio entra nella fase incandescente. Il documento considera la Chiesa in se stessa, nel suo capo terreno e nei suoi rapporti con il mondo civile. In quella primavera del 1870, i padri si trovano in mano il nodo più antico, che, nel lungo corso dei secoli, nessuno ancora è riuscito a sciogliere. A guardare bene, i nodi sono due. Uno riguarda i rapporti tra Chiesa e Stato, l’altro il papa e il concilio. Uno esterno e l’altro interno, entambi aggrovigliatissimi. 
Si riapre la ferita sempre dolorante del gallicanesimo, sotto il cui nome è stata indicata, fino dai tempi del diverbio tra Filippo IV il Bello e Bonifacio VIII, la tendenza a ottenere la supremazia dello Stato sulla Chiesa e la dipendenza delclero dallo Stato.
Pio IX cerca una rivincita e punta sulla demolizione del gallicanesimo, recidendone i vitali gangli politici ed ecclesiastici. Quelli politici, pronunciandosi contro le limitazioni della Chiesa negli affari di Stato; quelli ecclesiastici, respingendo la dipendenza dell’autorità papale dai padri conciliari. Con il dogma dell’infallibilità, Pio IX si propone di annientare sia l’opposizione esterna, degli Stati, sia l’opposizione interna, della Chiesa, vale a dire la parte più avanzata del clero, le chiese nazionali e i protestanti. Con il concilio spera di seppellire, sotto la pietra tombale dell’infallibilità, tutto ciò che si oppone alla Chiesa di Roma. Conferendo al vicario di Cristo le supreme prerogative dell’infallibilità, Roma torna a essere caput mundi.
Pio IX, sul piano teologico, parte dal presupposto che, se la Chiesa è infallibile nel suo magistero, di conseguenza, anche il pontefice non può sbagliare, avendo ricevuto da Cristo la missione di rappresentarlo e di parlare in suo nome. Gli agiografi di Pio IX e gli scrittori che ne hanno condiviso le posizioni si sono sempre sforzati di smentire che il dogma dell’infallibilità fosse il vero obiettivo del concilio e hanno sempre sostenuto che la questione fosse nata spontanea durante lo svolgersi dei lavori. Ufficialmente, questa è la verità, ma se si guarda dietro la facciata le cose cambiano.
Stando alla versione ufficiale del concilio, agli atti delle sedute, appare, infatti, che il dogma dell’infallibilità affiora allorché il dibattito è già avanzato e su proposta di un gruppo di prelati, ma, in realtà, la proclamazione è scontata e programmata in ogni dettaglio. Nello schema, si parla genericamente di consolidare l’autorità pontificia, senza un preciso riferimento all’infallibilità, ma questo non toglie che, su tale abbozzo di sceneggiatura, sia stata preparata, in anticipo, quella definitiva, che appunto comprende la scena madre del dogma. E l’incarico di introdurla è affidato a una sessantina di padri, i quali raccolgono subito una valanga di adesioni. Essi rivolgono la petizione che il concilio dichiari in modo inequivocabile “la suprema e infallibile potestà del papa”. Tra i promotori vi sono l’arcivescovo di Malines, Duchamps, l’arcivescovo di Westminster, Manning – poi creati cardinali – Senestrey, vescovo di Ratisbona e il vescovo di Hebron, Mennillod.
La petizione scatena furibonde reazioni, dentro e fuori la basilica vaticana e solo per accennare ai principali episodi occorrerebbe un intero volume. In Francia e in Germania, voci autorevoli, come quella di Ignaz von Döllinger, insigne docente di storia ecclesiastica all’università di Monaco, minacciano addirittura scissioni. Un incredibile numero di opuscoli e di libelli anticlericali dilaga, sollevando nella sua scia scandali, rivelazioni, querele, memoriali. Accanto alle voci sinceramente accorate e che esortano il concilio a non spezzare in due il mondo cattolico, si ode lo strepito di coloro che auspicano la frattura come felice rimedio.
L’infallibilità invade i parlamenti, mobilita i gabinetti ministeriali, le cancellerie e le ambasciate, “terremota” gli ambienti intellettuali. Per evitare che i dissidi tracimino, alluvionandoirrimediabilmente i rapporti diplomatici tra il Vaticano e le capitali europee, si modifica lo schema, restringendolo solo al potere ecclesiastico, vale a dire varando la costituzione Pastor Aeternus, esclusivamente dedicata all’aspetto di Pietro e dei suoi successori, alla piena e sovrana potestà papale su tutte le chiese e tutti i fedeli.   
È la via per aggirare l’ostacolo in modo da arrivare all’infallibilità senza travolgere gli ultimi, deboli legami che ancora vincolano il traballante Stato pontificio al mondo laico. In compenso di questa concessione, la maggioranza conciliare accarezza la speranza di ottenere l’infallibilità per acclamazione. Ma non vi è consenso unanime, al contrario, proprio nell’aula della basilica di San Pietro, si sviluppa una forte opposizione.
All’invito dei vescovi italiani e spagnoli di proclamare che “ab errore immunem esse Romani Pontificis auctoritatem numerosi colleghi tedeschi e francesi rispondono negativamente. Pur riconoscendo che il concilio non possa essere rappresentativo senza la partecipazione del papa, la minoranza teme che la definizione dell’infallibilità diminuisca i vescovi, per diritto divino eredi degli apostoli. Molti oratori illustrano anche le gravi conseguenze che deriverebbero all’episcopato nei paesi cattolici, dove la fede religiosa si sta, già, affievolendo. L’infallibilità papale, in ultima analisi, rende superfluo perfino il concilio, dato che il pontefice può fare a meno dei vescovi.
Attraverso modifiche, ritocchi dello schema, il 10 maggio 1870, il progetto di costituzione del dogma viene distribuito e, tre giorni dopo, ha inizio la parte conclusiva del dibattito. Un vescovo americano manifesta senza eufemismi che l’infallibilità nuocerebbe enormemente alla Chiesa del suo paese, dove solo una religione ispirata alla libertà può raccogliere nuove adesioni. L’arcivescovo di Praga prospetta come una simile decisione spingerebbe i boemi sulla sponda del protestantesimo. L’arcivescovo di Parigi, Darboy, pronuncia un discorso magistrale che occupa quasi l’intera seduta del 20 maggio. Con realismo, espone tutti i pro e i contro, e tira le somme. I conti non tornano, per lui il dogma segnerebbe un fallimento perché il mondo, ormai incamminato sulla via del progresso, non tornerebbe indietro per seguire il concilio.
L’intervento dell’arcivescovo di Parigi lascia una profonda impressione e dà alla minoranza l’illusione che non tutto sia perduto. Ancora non si è spenta l’eco di Darboy che i domenicani accorrono di rincalzo. Fino a quel momento, i domenicani, per tradizione schierati su posizioni contrarie ai gesuiti, attestati sulle linee più estremiste del concilio, hanno operato in copertura. Non hanno osato affrontare in campo aperto la Compagnia di Gesù.
Dopo il discorso dell’arcivescovo di Parigi, il cardinale Guidi, del convento della Minerva di Roma, e quindici vescovi dello stesso ordine si scagliano contro il dogma con tutta la forza della loro eloquenza. Il papa, sostengono, in sostanza, i domenicani, è certamente infallibile, ma quando esprime l’opinione dei vescovi, non se agisce su personale ispirazione. Per cui è indispensabile modificare la costituzione in questo senso. E si appellano alla complessa casistica che coinvolge, prima e dopo San Tommaso d’Aquino, l’intera tradizione della Chiesa. La maggioranza accusa il colpo e sembra disorientata. Si dice che anche Pio IX si sia adirato moltissimo e abbia urlato al cardinale Guidi, in un’udienza privata:
“La tradizione sono io.”
La sera della vigilia dell’ultima congregazione, un’ambasciata della minoranza chiede di essere ricevuta da Pio IX. La compongono il primate di Ungheria, gli arcivescovi di Liegi, Lione e Monaco, i vescovi di Magonza e Digione, i quali implorano il pontefice perché receda dall’infallibilità. Pio IX risponde gelido:
“Io farò ciò che sarà possibile, ma non ho ancora letto lo schema, non ne conosco il contenuto.
E li congeda.
Il 18 luglio, alle ore 9.00, si vota. Monsignor Valenziani, vescovo di Fabriano, legge il testo dell’infallibilità:
“Noi fedelmente inerendo alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, a gloria del Dio Salvator Nostro, ad esaltazione della cattolica religione e a salute delle popolazioni cristiane, ciò approvando il sacro concilio, insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato: che il Romano Pontefice, quando parla “ex Cathedra”, cioè, quando esercitando l’ufficio di Pastore e Maestro di tutti i cristiani, definisce secondo la sua suprema autorità Apostolica una dottrina intorno alla fede od ai costumi che debba tenersi da tutta la Chiesa, mercé all’assistenza divina nel beato Pietro a lui promessa, gode di quella infallibilità di cui il divin Redentore volle fosse data la sua Chiesa nel definire la dottrina circa la fede e i costumi; e che perciò siffatte definizioni del Romano Pontefice sono irriformabili per se stesse, e non già per il consenso della Chiesa. Se alcuno poi, il che Dio allontani, presumerà di contraddire a questa nostra definizione, sia anatema.”
Ogni padre è invitato a esprimere il voto. Per cinquecentotrentacinque volte si sente “placet”, vale a dire sì, e due soltanto “non placet”. Sono i vescovi di Cajazzo e di Little Rock. Molti, tuttavia, circa una sessantina, non sono intervenuti nell’aula e altri hanno già fatto le valigie. Un caloroso applauso accoglie la litania dei “placet” e poi Pio IX, assiso in trono, dichiara:
“Questa somma autorità, venerabili fratelli, non opprime ma aiuta, non distrugge ma edifica, e spessissimo conferma nella dignità, unisce nella carità, e consolida e difende i diritti dei fratelli, vale a dire dei vescovi… e così uniti possiamo combattere le battaglie del Signore, onde non solo non ci deridano i nostri nemici, ma piuttosto temano, e cedano una volta le armi della malizia al cospetto della verità, sicché tutti possano dire con Sant’Agostino:
“Tu mi hai chiamato nell’amabile tua luce, io vedo.
Lampi e tuoni fanno da contrappunto alla voce del Papa. Un temporale è esploso con straordinario fragore nel cielo di Roma rovesciando sulla città un’acqua torrenziale. Scrive il corrispondente del Times che:
“I placet dei padri lottarono contro l’uragano; in mezzo al rombo dei tuoni, e al balenio dei lampi che percotevano tutte le finestre, illuminando il tempio e tutte le cupole di San Pietro. Placet, gridava Sua Eminenza o Sua Grandezza; e, a modo di risposta, la folgore elevava la sua voce terribile, e i lampi venivano a solcare il baldacchino e ad abbracciare tutte le pareti della sala conciliare. Ciò durò, senza interruzione, per un’ora e mezza, fino a che ciascuno dei padri presenti rispose all’appello del proprio nome. Io non ho mai assistito a una scena più grandiosa e di un effetto più ammirabile.”
Ricordando che anche il giorno dell’inaugurazione ha piovuto, il popolino mugugna:
“Concilio bagnato, concilio disgraziato.”
E quanto accade subito dopo sembra dargli ragione.
Il giorno dopo la Francia dichiara guerra alla Prussia.
In agosto, le truppe francesi abbandonano Roma per accorrere sul Reno.
Il 20 settembre, i bersaglieri aprono la breccia di Porta Pia e, in ottobre, un plebiscito sancisce il crollo del potere temporale della Chiesa.
Più di centotrentatremila cittadini romani, contro millecinquecento, optano per l’annessione al regno di Italia. 
Se sul piano politico il concilio non è riuscito a salvare neppure il salvabile, forse, anche più disastrosa è la conseguenza sul piano ideologico e religioso. Un congresso di dissenzienti, i vecchi cattolici, formano in Germania, Svizzera e Olanda una Chiesa separata.
Il concilio, sospeso il 20 ottobre, non è più ripreso. Ma per demolire le impalcature dell’aula montata nella basilica di San Pietro si attenderà fino al 1879, quando Pio IX è stato sepolto da un anno.
Daniela Zini
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Venerdì 30 Aprile,2010 Ore: 14:44
 
 
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