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www.ildialogo.org LA STRAGE DEGLI ARMENI: GIORNI DI SANGUE SUL MUSSA DAGH,di Daniela Zini

LA STRAGE DEGLI ARMENI: GIORNI DI SANGUE SUL MUSSA DAGH

di Daniela Zini

PARTE SECONDA


“La mia coscienza non mi permette di rimanere insensibile di fronte alla negazione della Grande Catastrofe subita dagli armeni dell'Impero ottomano. Rifiuto questa ingiustizia e per parte mia condivido i sentimenti e il dolore dei miei fratelli e sorelle armeni. A loro chiedo scusa.”
 
Nel dicembre del 2008 un gruppo di intellettuali turchi lanciava una petizione on-line per chiedere il riconoscimento ufficiale del genocidio degli armeni all'inizio del secolo scorso in Turchia.
Rievochiamo una delle pagine più tragiche e meno conosciute della storia del nostro secolo: la repressione delle minoranze etniche armene da parte dei turchi. La lotta, che registrò crudelissimi episodi, ebbe il suo terrificante culmine nel 1915, quando il resto del mondo era occupato a seguire i drammatici eventi della prima guerra mondiale. Tra il dicembre del 1914 e il febbraio del 1915, il Comitato Centrale del partito Unione e Progresso, guidato da due medici - i dottori Nazim e Shakir - pianificò la totale soppressione degli armeni come popolo.Venne, così, creata la famigerata Organizzazione Speciale, una struttura paramilitare dipendente dal ministero della guerra, ufficialmente incaricata di operazioni spionistiche oltre confine, ma segretamente incaricata di sterminare gli armeni.
Il 10 ottobre scorso, dopo quasi un secolo di gelo, Turchia e Armenia hanno firmato, a Zurigo, uno storico accordo di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi. L’accordo dispone che venga riaperta la frontiera turco-armena, che vengano ristabilite relazioni diplomatiche tra i due  Stati e che la questione del genocidio armeno venga affidata a una commissione di storici per la sua indagine oggettiva.
 
 
 
Ma la questione armena nell’impero ottomano nasce nell’aprile del 1915 o esiste una lunga incubazione che ne spieghi gli orrori?
È una vecchia storia.
Bisogna risalire agli anni di Abdul Hamid II (1842-1918).
Hamid nasce nel 1842 da Valide Sultan Tirimüjgün (1819–1852), originariamente chiamata Virjin, una armena. Il padre, Abdul Mejid, rappresenta nello scacchiere politico del Mediterraneo la grande potenza ottomana, ma anche un esempio sconsolante di arretratezza. Trascorre gran parte del tempo nell’harem: tra i suoi divertimenti preferiti si ricorda quello di spaventare le cortigiane facendole inseguire da una turba di topi affamati. Hamid è più furbo, più sospettoso, più insinuante del genitore. Il suo fascino conquista i diplomatici, lo stesso kaiser ne è contaminato. La sua astuzia gioca i più colti rappresentanti dell’Europa. Schiacciato dalla presenza russa che, sotto il pretesto di difendere le comunità cristiane, vuole annettersi la Bulgaria e la Macedonia, il sultano fa trapelare a Inghilterra e Francia il pericolo delle ingombranti pretese zariste nel Mediterraneo. Suggerisce la santa battaglia. E l’idea piace alle ambizioni colonialistiche europee. A Londra, nel 1878, è in voga una canzoncina:
 
“I russi non avranno Costantinopoli.”
 
Intanto, Hamid è stanco della finzione democratica. Appena terminata la guerra contro la Russia, mentre l’Europa è distratta dalla crisi politica che il conflitto ha creato, resuscita l’assolutismo ottomano.
 
“Ho commesso un grave errore.”,
 
annuncia nello sciogliere un parlamento fantoccio.
 
“D’ora in avanti seguirò le orme di mio nonno , il sultano Mahmud il quale seppe capire che soltanto con la forza si può muovere il popolo.”
 
La forza e le spie. Ne girano più di ventimila in tutto l’impero. Hamid non si fida di nessuno e legge personalmente i loro rapporti che, spesso, sono malignità o vengono ispirati da vendette personali. Si seppellisce sotto una montagna di carta. Non vuole discutere neppure con i ministri. E prende decisioni che sbalordiscono per assurdità e crudeltà. In questo clima di terrore e di incertezza si inquadrano le prime persecuzioni armene. Poggiando il suo potere sulla collaborazione del più arretrato clero musulmano, Hamid fa della religione uno strumento del dispotismo. 
La convivenza tra armeni e turchi non è mai stata quieta. Considerati minoranza e come tali schiacciati da discriminazioni non sempre sottili, gli armeni si sono difesi arroccandosi nelle loro tradizioni, chiudendosi in caste. Nel 1980, gli armeni delle montagne di Zeitum, che avevano conservato una certa indipendenza, si erano sollevati: occorsero dieci anni di repressioni per metterli tranquilli. E per calmarli il governo di Costantinopoli si era sprecato in promesse. Ma erano rimaste parole che nessuno manteneva. Ed ecco che, tra il 1887 e il 1890, si fondano comitati rivoluzionari modellati sui comitati nichilisti russi.     Anche i nomi riecheggiano quei nuclei lontani di rivolta: Hneak (La campana, che è anche il nome della rivista di Herzen, Kolokol, organo di opposizione all'autoritarismo zarista) e Dasnacuthiwn (La federazione).
Anche in questo caso il furbo sultano gioca di astuzia.
È inutile inviare truppe in quelle impervie terre di frontiera, sfrutta, invece, la rivalità tradizionale che separa gli armeni dai curdi.
I curdi sono di razza ariana, ma non seguono gli armeni nei commerci. Vivono di brigantaggio, sono nomadi e predoni e quel che più rende felice Habdul Hamid, musulmani.
Ritorna, in altri termini, il leit motiv dell’intolleranza religiosa.
Ai curdi vengono inviate armi in abbondanza e si fa sapere che le loro bande sono considerate truppe ufficiali nella spedizione punitiva contro la minoranza armena.
Siamo nel 1891.
Mandare i curdi a caccia di armeni significa scatenare una guerra di religione e di razza.
E, così, avviene.
Per tre anni maturano i rancori, poi, nel 1894, alle uccisioni isolate segue un eccidio in massa che sbigottisce il mondo. I curdi rinchiudono 2.000 armeni nella cattedrale cristiana di Urfa (l’antica Emessa) e li bruciano vivi. Un brivido di commozione attraversa l’Europa, ma niente di più.
Perché non arrivano proteste, non si minaccia Abdul Hamid di rappresaglie se con la sua autorità non mette fine all’oppressione?
Perché il kaiser si proclama in ogni occasione incantato dalla soave personalità del sovrano turco?
Con un tale amico alle spalle il re musulmano dorme tranquillo.
Ed ecco che la disperazione stimola l’intelligenza armena: la protesta non deve essere soltanto clamorosa, ma deve mettere in pericolo gli interessi dei grandi esportatori di Londra e di Parigi, dei finanzieri di New York e di Berlino.
L’idea è questa: impadronirsi della Banca Ottomana, la cui sede si trova nel cuore di Costantinopoli e di là farsi sentire, far capire quel che succede, minacciare la distruzione di grandi ricchezze.
Gli armeni fanno centro.
Ovunque si protesta per il colpo di mano dei terroristi, ma anche per la ragione che hanno spinto un manipolo di disperati a una azione che avrà per conseguenza inevitabile la loro morte. Gli ambasciatori delle potenze cristiane fanno la fila davanti allo studio del sultano: si accumulano note di biasimo, raccomandazioni, suppliche di clemenza.
Francia, Inghilterra e Russia chiedono un’inchiesta per l’ultimo eccidio (avvenuto a Sassum) e mandano loro funzionari a svolgere indagini.
Hamid finge indignazione, promette la punizione dei colpevoli, ma, segretamente, con nuovi ordini, esaspera la guerra religiosa. Ordina il massacro degli armeni che abitano nella capitale, a Smirne, in Anatolia. L’ordine è segreto, ma l’esecuzione ha carattere ufficiale ed è condotta con perfetta efficienza. La caccia all’armeno viene guidata, casa per casa, nelle strade, nelle campagne, da ufficiali della polizia e dell’esercito, seguiti da una coda di volontari, i quali, spesso, indossano la divisa di soldati o di gendarmi. L’eccidio va avanti per quattro giorni, poi, di colpo, cessa: 7.000 armeni sono scomparsi nella capitale, da ogni parte del paese giungono notizie raccapriccianti.
Il numero complessivo degli armeni massacrati tra il 1891 e il 1900 non è certo, ma, facendo una media dei vari calcoli, si può fissare sulle 300.000 persone.
Tenendo conto che non esistevano camere a gas, si può dire che l’organizzazione del crimine funzionò a dovere, con una efficienza che solo gli uomini di Hitler riuscirono a superare.
Ci si è chiesti cosa possa aver spinto Abdul Hamid a ordinare il genocidio. Il fanatismo religioso e, soprattutto, la folle paura di venire assassinato. Glielo facevano credere i rappresentanti più conservatori del clero musulmano attraverso una camarilla di palazzo, che rendeva inaccessibile il sovrano a chiunque.
Una turba di strani personaggi circondava giorno e notte Hamid: stregoni, fachiri, eunuchi, piccoli intriganti che facevano capo al segretario del sultano, un uomo privo di scrupoli: Hasan Izzet Pasha (1871-1931). Questi conosceva le debolezze del padrone. Quando Hamid chiedeva un parere Izzet sapeva che avrebbe, poi, agito, testardamente, in modo contrario al suo suggerimento. Il gioco diviene facile: rovescia le carte e, così, il sultano finisce con l’essere un fantoccio in mano al segretario.
Ormai il trono vacilla. Si spengono i clamori del massacro armeno, ed ecco si rivoltano i cristiani di Creta, che la Grecia appoggia militarmente. È l’ultima vittoria di Hamid: i suoi soldati, al comando di ufficiali tedeschi, schiacciano la ribellione.
Nell’esercito, intanto, prende vita un’organizzazione rivoluzionaria segreta. Si chiama Vatan (Patria) e rappresenta l’ala estrema della setta dei Giovani Turchi, il movimento ideologico che discende spiritualmente dai Giovani Ottomani, vale a dire da quei progressisti che diedero filo da torcere trenta anni prima al sovrano. Ma la nuova corrente è più radicale, più ostile alla influenza europea e, allo stesso tempo, istericamente protesa all’imitazione di tutto ciò che l’Europa offre. Vogliono una Turrchia moderna, ma non fagocitata dalle grandi potenze occidentali. Un nazionalismo ieratico muove questi entusiasmi, un nazionalismo che supera, perfino, quello ossessivo del sovrano. In armonia con la sua sostanza massonica, il comitato del Giovani Turchi accoglie sostenitori di ogni etnia e di ogni religione: anche greci, ebrei e armeni. Professa la dottrina dell’ottomanesimo, vale a dire la fedeltà all’ideale di un impero plurinazionale, nel quale ogni gruppo etnico goda gli stessi diritti civili e politici.
Cosa possono pensare gli armeni di un simile programma?
Che i tempi nuovi, le idee di una generazione più evoluta, cancellino, finalmente, le faide medioevali. Così i comitati rivoluzionari armeni escono dall’ombra per sostenere la nuova causa. Causa che ha capi ben più affascinanti dello scialbo sovrano. A esempio, Mustafa Kemal (1881-1938), gelido ufficiale di cavalleria, bello ed elegante: passa alla storia con il nome di Ataturk.     
 
 
 
  
 
Daniela دانیلا Zini زینی
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Marted� 05 Gennaio,2010 Ore: 18:46
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Nellina Guarnieri Bari 29/4/2015 17.15
Titolo:Negazione e genocidio
Nonostante le testimonianze e le immagini che documentano il massacro di un popolo,con un  pilatesco appreoccio si continua ad argomentare su questioni giuridiche e banalmente terminologiche sel tema "GENOCIDIO" il tutto a seconda delle circostanze solennizzato dalla".... Memoria. Ormai non ci sono più ambiguità sul progetto del nazionalismo turco e delle pretese di costruire una razza pura ma si continua da parte del governo turco ad usare anche toni "Minacciosi"sono tante le espressionidi sdegno:homo hominis lupus....Dio è morto....forse che la prima considerazione deriva dalla seconda?o forse perchè semplicemente la storia di Caino e Abele èl'archetipo della natura umana con o senza Dio?aiutatemi a capire perchè lo sdetno è tanto.....

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