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www.ildialogo.org LE RAGIONI FONDAMENTALI,di Daniela Zini

Riflessione
LE RAGIONI FONDAMENTALI

di Daniela Zini

“Eppure, in questa tragica vigilia non esiste altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera. Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è “flatus vocis”, il resto è catastrofe.”
Carlo Rosselli, 1935
L’umanità sta laboriosamente cercando la sua strada attraverso un agitato periodo di transizione. Le istituzioni politiche e sociali devono, ancora una volta, essere trasformate: un nuovo mondo sta per nascere.
Il vecchio mondo, da qualsiasi lato si guardi, appare nel suo letto di morte.
Non vediamo intorno a noi che diffidenza, incertezza e fanatismo.
Viviamo sotto il regime della grande paura.
Per decine di milioni di esseri umani la fame e la disperazione sono più che una paura, sono realtà della vita giornaliera.
Per cecità da una parte, per impotenza dall’altra, le soluzioni della disperazione sembrano essere le sole adottabili e realiste.
Che cosa dobbiamo pensare di tutto ciò?
Il problema dell’ordine internazionale è il problema più urgente, quello che deve avere una precedenza assoluta nella nostra considerazione, in quanto solo una sua razionale soluzione può dare un senso a tutte le soluzioni proposte per i particolari problemi politici, economici, spirituali che, oggi, si presentano nell’ambito dei singoli Stati. Se non arriveremo a un assetto internazionale che metta fine alle guerre a ripetizione, coinvolgenti tutti i paesi del mondo, non potremo salvare la nostra civiltà: entreremo in un nuovo medioevo.
La guerra non è più un urto tra eserciti.
È una conflagrazione tra popoli che nella lotta impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite.
È la guerra totale, in cui ciascuna delle parti cerca, con i più efficienti strumenti forniti dalla scienza moderna, di distruggere il potenziale bellico e di abbattere il morale del nemico, come mezzo indiretto per annientarne l’esercito.
È la negazione di ogni sentimento umano, il definitivo ripudio del diritto come regola di vita. È un turbine che sradica intere popolazioni dalle terre sulle quali risiedevano da secoli, per gettarle senza più case, senza mezzi per vivere, a migliaia di chilometri di distanza; che non rispetta né ospedali, né luoghi di culto, né asili d’infanzia; che riduce in macerie fumanti biblioteche, musei, opere d’arte, i più preziosi patrimoni ereditati da innumerevoli generazioni passate.
La cosiddetta intellighenzia risulta composta di propagandisti e di esperti, perché non si apprezzano più le opere di significato universale, né le ricerche disinteressate, ma solo le opere che esaltano i sentimenti nazionalisti e i ritrovati tecnici che possono tradursi in armi efficienti. Discorsi, giornali, televisione, fanno appello alle forze irrazionali dell’animo umano, per creare uno stato di follia collettiva che unifichi tutto il popolo in una sola volontà diretta a un unico fine: la vittoria, a qualunque costo, sopportando qualsiasi sacrificio.
Non ci si deve neppure più domandare cosa la vittoria possa significare.
Si vuole la vittoria per la vittoria, si vuole la distruzione del nemico, si vuole sopravvivere, anche se quello che di noi sopravvivrà non meriterebbe in alcun modo essere difeso.
Le falsificazioni, le menzogne sono sistematicamente adoperate come strumenti di guerra al pari delle bombe e dei missili.
Chi ragiona, chi dubita, è un nemico della patria.
Tutti i valori morali sono sovvertiti: la violenza, il misconoscimento di ogni regola di vita civile, l’odio che non ammette alcuna attenuante a favore dell’avversario, il conformismo e l’obbedienza cieca agli ordini che vengono dall’alto, sono lodati, premiati, divengono abiti spirituali, in luogo del rispetto della vita umana, dell’ossequio alle leggi, della tolleranza, dello spirito critico e del senso di responsabilità individuale.
È per questo che la distinzione tra reazionari e progressisti, oggi, non corre più lungo la linea che separa coloro che vogliono consolidare o modificare, in qualsiasi modo, lo stato di cose esistente entro i confini dei singoli Stati nazionali, ma si pone tra coloro che ostacolano e coloro che favoriscono l’avvento di un nuovo ordine internazionale, capace di ridurre i contrasti tra Stati. 
Bisogna abbandonare gli odi inveterati e permanenti verso alcuni popoli e gli appassionati attaccamenti per altri.
Coloro che vogliono la pace non si preparino più oltre alla guerra.
Non è vero che le due guerre mondiali furono determinate da cause economiche. Nessuno che sappia compiere un ragionamento economico corretto può credere mai che un popolo, anche vincitore, possa trarre dalla guerra un qualsiasi risultato, se non di impoverimento, di miseria e di abiezione.
Vero è, invece, che le due grandi guerre furono guerre civili, anzi guerre di religione e, così, sarà la terza, se, per nostra sventura, opereremo in modo da provocarne l’opera finale di distruzione.
Se nell’Europa conquistata dai tedeschi si ripeté l’esperienza che Tacito aveva scolpito con le parole solenni:
“Senatus, equites, populusque romanus ruere in servitium.
ciò fu perché negli uomini lo spirito non sempre è pronto a vincere la materia.
Non ha senso alcuno dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo, della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalisti.
Certo, il produttore di armi e di altri gruppi capitalisti può avere interesse che scoppi la guerra. Ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente per farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalisti, che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra gli Stati.
Né il socialismo, per se stesso, sarebbe un rimedio adeguato alle guerre. Uno Stato socialista potrebbe tendere – come gli Stati capitalisti – a sfruttare uno Stato più debole. Tra società socialiste, come tra società capitaliste, potrebbero svilupparsi contrasti di etnie, contrasti ideologici sul diverso modo di intendere e praticare il socialismo, e contrasti economici, derivanti dalla differenza di ricchezza, dal possesso di passaggi obbligati delle correnti commerciali o dalla esclusiva disponibilità di certe materie prime.
È anche certo che i sentimenti nazionalisti anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica. La lingua, l’etnia, la religione, i costumi diversi, non impediscono la pacifica convivenza.
Nella nuova era atomica, guerra vuol dire distruzione, forse, non della razza umana, ma certamente di quell’umanesimo per cui soltanto agli uomini è consentito di essere al mondo.
Un mondo auspicabile, per la cui attuazione si deve lottare, non è un mondo chiuso contro nessuno, è un mondo aperto a tutti, un mondo in cui gli uomini possono liberamente far valere i loro contrastanti ideali e le maggioranze rispettano le minoranze e ne promuovono le finalità.
Un mondo in cui ogni Stato è pronto a sacrificare una parte della propria sovranità.
Oggi, ogni Stato afferma, nel modo più intransigente, la propria assoluta sovranità; non ammette alcun limite al proprio volere; pretende essere, in ogni caso, il solo giudice del proprio diritto. E per difendere il proprio diritto cerca di raggiungere una forza maggiore degli eventuali nemici, armandosi e alleandosi con altri Stati. La sicurezza conseguita da uno Stato corrisponde all’insicurezza, all’accettazione di una condizione di inferiorità, da parte di altri.
Il cosiddetto diritto internazionale, in realtà non è un diritto, perché afferma norme che le parti osservano finché desiderano rispettarle. In tutti gli accordi internazionali è, infatti, sottintesa la clausola rebus sic stantibus, per la quale i governi, in pratica, si ritengono vincolati solo nei limiti in cui l’adempimento degli obblighi, che dagli accordi discendono, non sia, a loro insindacabile giudizio, in contrasto con l’interesse del proprio paese.  
La più grandiosa e grottesca manifestazione della completa vacuità del diritto internazionale è stata, il Patto Briand-Kellog (27 agosto 1928), che poneva la guerra “fuori legge”. Quasi tutti i governi del mondo – compresi quelli della Germania, dell’Italia e del Giappone – si affrettarono a dare pubblica prova delle loro pacifiche intenzioni, firmando la morte legale della guerra. Stupendi discorsi, scambio di telegrammi tra capi degli Stati, brindisi, felicitazioni, articoli ditirambici su grandi giornali.
Ma di buone intenzioni è lastricato l’inferno.
Il Patto Kellog-Briand, non prevedendo nessuna efficace sanzione, lasciò le cose come stavano.
La guerra, tutta occupata a massacrare e a distruggere, neppure si accorse di essere stata messa “fuori legge” da tante brave persone.
In un’Italia in cui si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalisti, in cui, improvvisamente, si scoprono passionali correnti patriottiche in chi fino a ieri professava idee internazionaliste, in questa Italia nella quale si vedono con raccapriccio riformarsi tendenze belliciste, urge compiere un’opera di unificazione.
Opera, dico, e non predicazione.
Gli ultimi anni del XIX secolo furono illuminati da una proposta meravigliosa che fu, poi, lasciata cadere completamente in oblio.
Nell’agosto del 1898, lo zar Nicola II invitò gli Stati Uniti a incontrarsi per una conferenza destinata a garantire la pace tra le nazioni e a mettere fine all’incessante aumento degli armamenti che impoverivano l’Europa.
Il messaggio del sovrano iniziava così:
“Il mantenimento della pace generale e un’eventuale riduzione degli armamenti eccessivi, il cui peso grava tutto sui popoli, sono evidentemente, nelle attuali condizioni del mondo intero, l’ideale verso il quale tutti i governi dovrebbero tendere i loro sforzi.”
Le spese militari sono alternative alle spese sociali. Quanto più aumentano le une, tanto più devono necessariamente diminuire le altre.

Daniela Zini
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Mercoledì 12 Maggio,2010 Ore: 12:10
 
 
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