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www.ildialogo.org La cultura della transizione,di Gianni Mula

La cultura della transizione

di Gianni Mula

Gianni Mula

Ho scritto recentemente[1], concordando solo in parte con Paolo Flores d'Arcais, che la polemica Ferraris-Vattimo sul New Realism non coglie l'aspetto essenziale della crisi mondiale che stiamo attraversando. Solo con la filosofia ermeneutica di Paul Ricoeur si può cercare di salvare dal disastro incombente quanto c’è di salvabile nella società occidentale contemporanea. Ma c'è davvero qualcosa da salvare in questa società?

A prima vista la domanda parrebbe inutilmente provocatoria. È evidente che dalla crisi nella quale siamo immersi almeno il generale grande miglioramento nelle condizioni igienico-sanitarie sia qualcosa che merita di essere salvato, giusto per dire la prima cosa che viene alla mente. E potremmo anche aggiungerci le istituzioni democratiche, la pubblica istruzione e il sistema previdenziale, tutte realizzazioni alle quali potremmo estendere il famoso aforisma di Churchill: "la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre". Allora, poiché è pacifico che è stata la società moderna a realizzare sistematicamente tutti questi presidii delle nostre libertà di fatto, dovremmo dare per scontato che difendere la società che li ha generati equivale a difendere questi presidii?

In realtà le cose non sono così semplici. Perché potrebbe anche essere che la visione illuministica alla quale dobbiamo le nostre libertà stia semplicemente mostrando i suoi limiti. Al cuore di questa visione stava il metodo scientifico, cioè l’idea che la realtà nella quale siamo immersi possa essere sistematicamente, e con costante successo, analizzata come un insieme di parti indipendenti. Oggi quest’idea, a quel tempo straordinariamente innovativa, mostra tutti i limiti di una prima approssimazione. Ad esempio la separazione dei poteri, concetto che sta alla base del nostro concetto di democrazia, non sembra più funzionare. Non solo nel nostro paese, nel quale il conflitto di interessi da vizio sembra diventato virtù, ma anche nel resto del mondo occidentale. Dovunque nel mondo sviluppato, infatti, il dominio del sistema economico-finanziario su tutti gli altri settori della società è ormai diventato pressoché assoluto, e, di conseguenza, la separazione dei poteri è diventata un vuoto simulacro. Se la libertà economica individuale portasse necessariamente a questo tipo di conseguenze allora saremmo davvero nei guai, considerato anche che i sistemi di economia collettiva hanno fin qui dato pessima prova di sé.

Ma c’è perfino di peggio, perché è ormai evidente che perfino il diritto fondamentale a un’informazione non adulterata è sistematicamente violato. In questo contesto mi limito a riportare un brano, ancora da un’editoriale[2] di Giovanni Sarubbi, che sintetizza efficacemente la situazione:

I giornali e le TV italiane nei giorni scorsi hanno raccontato, a modo loro, il discorso del presidente dell'Iran Ahmadinejad all'assemblea dell'ONU che è ancora in corso. Durante quel discorso le delegazioni degli USA, di Israele e di tutti i paesi occidentali, compresa l'Italia, hanno abbandonato platealmente l'aula. La giustificazione data dalle TV e dai giornali è stata quella che nel suo discorso il presidente dell'Iran avrebbe attaccato Israele e sostenuto le tesi negazioniste sulla shoah. Abbiamo cercato il testo del discorso di Ahmadinejad su internet e lo abbiamo trovato tradotto in Italiano sul sito di Radio Irib, la radio dell'Iran in lingua italiana. Pensavamo di trovare i riferimenti ad Israele e al negazionismo della shoah ma non le abbiamo trovate. Leggere per credere.

Come è possibile che i mass media nostrani abbiano mentito in modo così spudorato? Come è possibile inventare di sana pianta una falsità così grande e così facilmente smentibile? E, soprattutto, perché dare luogo ad una tale falsificazione?

Da quest’insieme di contraddizioni emerge una società ormai diventata infedele ai principi sui quali è sorta, che pratica una neolingua nella quale le parole che contano hanno un significato stabilito dal potere, e dove l’unica alternativa reale consentita ai dissenzienti è quella di emigrare. Certo l’attuale governo italiano non durerà a lungo, ma il quadro sopra delineato rimarrà sostanzialmente invariato, perché siamo all’agonia di un sistema e non basta cercare di salvarne i pezzi buoni lasciando morire gli altri. Non ci sono pezzi buoni in un sistema che muore. È l’intero sistema di equilibri e contrappesi che abbiamo ereditato dall’illuminismo che non è più adeguato alla nostra situazione concreta. Dobbiamo inventarne uno nuovo che sappia coniugare la forma e la sostanza del rispetto delle libertà individuali con le nuove esigenze e possibilità continuamente create dalla scienza, dalla tecnologia e dall’evoluzione della società.

*     *     *

Naturalmente un nuovo sistema non si può creare dal nulla e l’esperienza insegna abbondantemente che non si può avere alcuna fiducia nella buona riuscita di progetti complessivi di rinnovamento elaborati nello studio di qualche profeta o filosofo illuminato, per quanto ragionevoli e attraenti questi progetti possano sembrare sulla carta, soprattutto se la realizzazione del progetto è pensata come esecuzione meccanica di un insieme di istruzioni.

 E allora? Allora l’unica soluzione possibile è una non soluzione, vale a dire che bisogna sin dall’inizio rinunciare a cercare un’unica soluzione accettabile da tutti, e aprirsi a un pluralismo di punti di vista e di soluzioni parziali possibili, accettando anche di dover imparare a gestire il conseguente, ineliminabile, conflitto di interpretazioni. Questa non soluzione è la via lunga[3] proposta dalla filosofia ermeneutica di Ricoeur, ed è probabilmente la sola prospettiva che possa davvero guidarci al nuovo sistema. Ma è una guida che non contempla istruzioni pratiche, né di massima, né tanto meno dettagliate. Al contrario è poco più di un invito a pensare di più, e non di meno, ogni volta che si incontrano problemi di cui non si capisce appieno l’origine e nemmeno si intravede la soluzione. È per questa ragione che la sua pratica richiede uno sforzo condiviso per far nascere e crescere, a partire dai temi specifici oggetto del contendere, una cultura della transizione. Si tratta cioè di sviluppare  la consapevolezza che la gran parte dei problemi del nostro tempo ha origine nel nostro desiderio di trovare soluzioni valide per l'eternità, in un presente immoto ed eterno che ovviamente non esiste se non come astrazione, ma non nel tempo reale che sperimentiamo appunto come una lunga transizione.

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Ma come possiamo definire una cultura della transizione? Sempre nello spirito della filosofia di Ricoeur proporrei di definirla identificando anzitutto due approcci alternativi (apparentemente) antitetici. Il primo è quello della cosiddetta cultura dell'emergenza. In questa società infatti la prassi per le emergenze proprie (terremoti, inondazioni ecc.) è abitualmente estesa a situazioni che non riguardano emergenze naturali ma che per la loro rilevanza richiedono comportamenti il più possibile unitari (ad es. gravi crisi economiche o di politica estera). In questi casi la dichiarazione dello stato di emergenza non implica più l’attivazione di una serie di trasferimenti di competenza e di sospensioni di efficacia di leggi ma significa semplicemente la richiesta di sospensione di ogni critica alle autorità e l’appello a mantenere la rotta stabilita. Di conseguenza il ricorso all’emergenza è uno strumento molto comodo per evitare che le élites al potere possano mai essere messe in discussione e quindi si tende ad abusarne, tanto che si può definire il ricorso abituale a questo strumento una vera e propria cultura dell’emergenza. Ciononostante questa cultura non dà sempre risultati negativi, e anzi si potrebbe sostenere con buone ragioni che in condizioni difficili la regola di mantenere al meglio la rotta stabilita può spesso essere  la sola ragionevole.

L’altro approccio è quello del diritto alla libertà di dissenso, che è evidentemente un diritto fondamentale ma può anche degenerare in un relativismo senza limiti, cioè in una sorta di anarchia permanente. Quando non si accetta l’appello all’unità tipico della cultura dell'emergenza non ci si identifica, neanche parzialmente, con gli obiettivi di chi guida, e quindi  non ci sono rotte da mantenere e tanto meno autorità da rispettare. Anche in questo caso, tuttavia, ci possono essere tante situazioni nelle quali una ragionevole anarchia è chiaramente meglio di una dittatura, anche dal volto umano, o di una guerra. Prendiamo ad es. il caso del Belgio, nel quale l’assenza di un governo nella pienezza dei suoi poteri apparentemente permette al paese di affrontare al meglio l’attuale crisi economica. Ma soprattutto, se la parola libertà è usata in senso proprio, è il concetto di libertà individuale ad essere inseparabile da quello di anarchia. Si pensi al concetto di libero mercato: un mercato veramente libero è per definizione imprevedibile, cioè anarchico, ed è per questo che si parla di anarchia dei mercati come di una loro caratteristica costitutiva e non di un difetto eliminabile. Nel nostro caso quest’approccio significherebbe procedere alle riforme via via necessarie salvando le libertà individuali ereditate dall’illuminismo senza però il vincolo della conservazione delle forme nelle quali si sono incarnate storicamente. In questa maniera si incoraggerebbe quindi il pensare nuovi quadri concettuali che meglio soddisfino le esigenze originarie.

Entrambi gli approcci hanno aspetti positivi importanti che non si possono lasciar cadere senza mettere in crisi l’intera prospettiva. Se la condizione umana, come dice Heidegger, è determinata completamente dalle differenti possibilità concrete a disposizione di ciascuno, allora chi sente maggiormente la necessità della difesa dell’eredità illuministica cercherà la chiarezza data da uno spartiacque tra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittive (cioè dalla difesa a tutti i costi della distinzione tra fatti e opinioni), e finirà quindi per adottare il programma del “New Realism” sostenuto da Ferraris o qualche altra piattaforma nella stessa direzione. Dall’altro lato chi si sarà scontrato, nella propria ricerca, con le oramai manifeste inadeguatezze del pensiero illuminista, si sentirà spinto a dare per scontata l’inutilità del concetto di Verità assoluta, comunque giustificato, e finirà con l’abbracciare qualcuna delle varie posizioni oggettivamente relativiste che vanno sotto il nome di postmoderne, ad esempio la posizione di Vattimo. Entrambe le scelte corrispondono quindi alla via corta di Heidegger[4].

Porsi invece nella prospettiva della via lunga di Ricoeur significa rifiutarsi di scegliere una volta per tutte tra cercare di limitare al minimo i cambiamenti necessari oppure cercare di rifare tutto daccapo. In questa prospettiva non c’è alcuna ragione perché queste due scelte debbano per forza scontrarsi. L’errore di chi si sente spinto allo scontro sta nella troppa fretta di arrivare a conclusioni definitive, errore implicito nello scegliere la via corta. Invece, nello spirito della via lunga, e quindi nella preoccupazione costante di capire le ragioni dell’altro, è naturale ricordarsi che siamo sempre immersi in una fase di passaggio, di transizione, e niente nel tempo è mai dato in via definitiva. Perché se ogni tipo di conoscenza è in linea di principio sempre perfettibile, tale è anche ogni valutazione di supposti “fatti”. È certamente vero, come ricorda Emilio Carnevali[5] che il progetto postmoderno se “non è sostenuto dal “determinismo” proprio delle narrazioni moderne – idealistiche o illuministiche che siano – è per definizione aperto ad esiti differenti”. Ma è proprio la possibilità di esiti genuinamente differenti che permette di superare, almeno in linea di principio, la contrapposizione statica tra le due scelte alternative che abbiamo analizzato. Non rimanere legati alla necessità di una regola data a priori che si decide essere buona per tutte le occasioni, rinunciare a polemizzare sulle scelte da fare per concentrarci invece sul pensare più a fondo alle possibilità che si possono aprire, è la via per superare la contrapposizione senza ricorrere a mediazioni basate sul soddisfare reciproche effimere convenienze. Rimane vero, naturalmente, che anche nel caso della via lunga non c’è alcuna garanzia a priori di successo, ma solo l’esplicitazione consapevole del rifiuto di rassegnarsi all’insuccesso.

*     *     *

Vale la pena a questo punto di riprendere la citazione fatta in precedenza di Carnevali e rispondere esplicitamente alla domanda che pone: L’altra possibilità è quella descritta da Edward Docx nel suo intervento sulla Repubblica (3 settembre): «Un post-modernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo». Se non esistono criteri oggettivi di verità e di giustizia come posso individuare l’in-giustizia? E perché dovrei agire perché il mondo vada diversamente da come va?

Se si segue la via corta queste domande non hanno risposte soddisfacenti. Se si segue invece la via proposta da Ricoeur, la via lunga, allora non si rimane più soffocati dall’alternativa tra ideologia e utopia, tra un’ideologia che manifestamente non funziona più e un’utopia inevitabilmente fumosa, ma si avvia un processo che Ricoeur ha chiamato di innovazione semantica, cioè di creazione di nuovo significato. È questo processo che permette di lavorare alla costruzione di nuovi criteri generali di verità e giustizia a partire dalle situazioni particolari ma concrete di in-giustizia che verifichiamo direttamente. Questi nuovi criteri saranno ovviamente relativi alle situazioni particolari da cui nascono, e quindi inevitabilmente provvisori, ma pur nella loro provvisorietà permetteranno di lavorare in termini costruttivi alla creazione di una nuova società.

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Tutto questo può sembrare vago, inutilmente complicato, e in definitiva inutile. Ma situazioni di questo genere si sono già verificate più volte nella scienza moderna e, anche se non lo dice quasi nessuno, sono state risolte, naturalmente ante litteram,  in maniera coerente con la filosofia ermeneutica di Ricoeur.

Quando si scoprirono le geometrie non euclidee crollò la convinzione sino ad allora universalmente accettata che la matematica descrivesse verità a priori sul nostro mondo. Ma i matematici continuarono a fare il loro mestiere di creare nuove teorie pur accettando, come disse Einstein nel 1921, che “le proposizioni della matematica in quanto descrizioni della realtà sono incerte, mentre se non descrivono la realtà sono certe”. Tutto era partito dalla scoperta che il quinto postulato di Euclide, quello che dice che per un punto esterno a una data retta passa una, ed una sola, retta parallela alla retta data, non solo non era immediatamente evidente, come gli altri postulati, ma poteva benissimo essere sostituito da postulati diversi, ad es. che passano infinite rette parallele a quella data, oppure che non ne passa nessuna. Questa ambiguità pose ai matematici un mare di problemi, che furono risolti seguendo la prescrizione della via lunga, secondo cui vale sempre la pena di lavorare a cercare di capire (cioè a pensare), anche senza aver a priori alcuna garanzia (in questo caso quella dell’applicabilità dei risultati alla realtà naturale).

Quando Gödel nel 1931 pubblicò il suo rivoluzionario lavoro che stabiliva che una teoria matematica sufficientemente estesa da contenere l’aritmetica dei numeri interi non era in grado di dimostrare la propria coerenza, fece crollare la fiducia dei matematici nella verità della propria disciplina, indipendentemente dalle sue possibilità applicative. Addirittura un grande matematico come Hermann Weil disse al riguardo che quel risultato era la prova dell’esistenza di Dio, perché la matematica era certamente coerente. Ma era anche la prova dell’esistenza del diavolo, perché era impossibile dimostrare la coerenza della matematica.

Un corollario di quel risultato poneva in linea di principio ancora maggiori problemi alla prosecuzione normale dell’attività matematica. Questo corollario, noto come teorema di incompletezza di Gödel, stabilisce che, per ogni sistema di assiomi sufficientemente potente da contenere l’aritmetica dei numeri interi, vale l’alternativa: o è coerente, e allora è incompleto (cioè esistono al suo interno affermazioni di cui non si può dire se sono vere o false), o è completo, e allora è incoerente (cioè esistono al suo interno affermazioni tra loro contraddittorie). Anche in queste condizioni i matematici continuarono a seguire (ovviamente  sempre senza saperlo, perché la svolta ermeneutica di Ricoeur non cominciò a divenire nota  internazionalmente se non verso la fine degli anni sessanta) le prescrizioni della sua via lunga, rinunciando a cercar di ricostruire una garanzia a priori della coerenza delle loro teorie.

E furono premiati perché non solo la loro attività continuò a essere portatrice di nuova conoscenza, ma ottennero anche un risultato particolarmente importante dal punto di vista di quel processo di creazione di nuovo significato che Ricoeur ha chiamato innovazione semantica. Per lungo tempo, infatti, dopo i teoremi di Gödel, l’incompletezza dei sistemi assiomatici fu considerata dai matematici un inconveniente rilevante. Ma all’inizio degli anni sessanta Abraham Robinson riuscì a utilizzare l’incompletezza costitutiva dei sistemi di assiomi per costruire una nuova analisi infinitesimale, chiamata  analisi non standard, in grado di riprodurre tutti i risultati dell’analisi standard e, in più, di semplificare grandemente i ragionamenti matematici in una serie di casi sino ad allora notevolmente complessi. Quella di Robinson fu certamente un’intuizione geniale, ma è anche un esempio estremamente significativo di come, nello spirito della via lunga, sia possibile trasformare un inconveniente grave in una risorsa importante.

Sin qui abbiamo considerato, per semplicità di esposizione, esempi tratti dalla matematica, ma ce ne sono almeno altrettanti nel campo della fisica. Quello forse più interessante è il più recente, la scoperta del meccanismo delle transizioni di fase. Questa scoperta ha dimostrato in maniera conclusiva che ci sono limiti essenziali alle possibilità della scienza di prevedere rigorosamente comportamenti macroscopici sulla base di informazioni microscopiche. In altri termini ha dimostrato che anche nelle scienze fisiche dobbiamo rassegnarci ad accettare il fatto che è sempre possibile trovarsi in un ineliminabile conflitto di interpretazioni. In compenso ha anche dimostrato che un conflitto di interpretazioni non è necessariamente un limite all’avanzamento della conoscenza ma che anzi la sua esistenza porta alla scoperta di nuove leggi generali sui fenomeni critici (ad es. l’universalità degli esponenti critici) che esprimono il comportamento di intere classi di sistemi fortemente interagenti. Va da sé che, a causa dell’irriducibilità a una descrizione più semplice delle interazioni tra le parti che compongono questi sistemi (e alla conseguente estrema complessità di una teoria microscopica dei fenomeni critici), non avremmo avuto altra maniera (al di fuori cioè del conflitto di interpretazioni) di scoprire queste nuove leggi.

*     *     *

A questo punto ci si potrebbe ancora chiedere: va bene, abbiamo capito che nelle scienze sono avvenuti (e continuano ad avvenire) progressi straordinari, ma per quale ragione i problemi metodologici delle scienze dovrebbero illuminarci nell’analisi di problemi etici e filosofici che, per loro natura, sono irriducibili a misurazioni quantitative di qualunque tipo? E soprattutto perché una difficile ricerca di certezze filosofiche dovrebbe venire impedita da una, magari discutibile, interpretazione di risultati scientifici che riguardano certamente altro?

È certo che analisi quantitative di problemi filosofici ed etici non hanno (e non avranno mai) alcun senso. L’amore, l’odio, la felicità, il dolore non sono esprimibili in termini numerici. Ma l’unica ragione del nostro cercare certezze assolute nei ragionamenti filosofici è la convinzione di vivere in un’epoca nella quale, nei campi che le competono, la scienza fornisce certezze assolute. Ma quest’epoca è ormai finita, non perché la filosofia abbia perso la bussola e ceduto a tentazioni irrazionalistiche, ma perché è la scienza ad essere cambiata. Nel suo avanzare la scienza ha infatti imparato ad affrontare problemi meno semplici di quelli affrontati sinora e ha scoperto che se è vero che non ci sono limiti insuperabili alla nostra conoscenza, dobbiamo però pagare questo risultato di principio con l’impossibilità, altrettanto di principio, di scoprire leggi che valgano per tutti, in tutte le situazioni, e, soprattutto, per l’eternità. Oggi la scienza, sempre utilizzando le tecniche e la visione dei limiti e delle possibilità dell’indagine scientifica che le hanno permesso di spiegare i fenomeni critici, si occupa non solo del funzionamento biologico del corpo umano ma anche di comportamenti psicologici (vedi le ricerche sull’autismo) e sociali.

Per esemplificare in termini estremamente concreti oggi è possibile, con lo stesso approccio usato per i fenomeni critici, condurre ricerche in campo socioeconomico e porsi il problema di capire come sono variati, diciamo negli ultimi trenta o quarant’anni, i principali indicatori economici riguardanti i paesi occidentali. Una ricerca di questo tipo potrebbe includere le variazioni quantitative nei vari prodotti interni lordi, nella consistenza della forza lavoro, nei flussi migratori, nel numero e nella tipologia delle imprese, nella vita media e nella tipologia delle cause di morte ecc. Ma le nuove tecniche potrebbero consentire anche di scoprire l’esistenza di una vera e propria transizione di fase nelle condizioni generali di vita, ad es. della classe media, in questi paesi e nell’intervallo di tempo considerato. Quindi un risultato qualitativo. Sarebbe questo un risultato scientifico oggettivo? Certamente, ma nello stesso senso nel quale è un fatto oggettivo che applicando un’opportuna pressione un vapore si condensa e diventa liquido. Se quest’evento si verifica il fluido esaminato è un vapore, cioè un gas al di sotto della sua temperatura critica, se non si verifica allora il fluido esaminato è un gas (al di sopra della sua temperatura critica).

Ritornando al nostro abbozzo di analisi economica diremmo allora che la scoperta di una transizione di fase nelle condizioni generali di vita della classe media in un dato periodo di tempo è un risultato il cui significato dipende dalla validità del modello usato (cioè, per rimanere nell’analogia, dalla validità dell’ipotesi che la classe media sia paragonabile a un vapore). Validità non immediatamente evidente sulla base della sola lettura dei dati statistici anno per anno. Sarebbe certo scienza nel senso proprio della ricerca scientifica come normalmente praticata in tutti i campi, ma, trattandosi di fenomeni sociali, richiederebbe un discernimento e anche scelte di campo solitamente non associati alla scienza. Perché uno scienziato non solo non è istituzionalmente preparato in discipline come la sociologia, ma è al contrario addestrato ad evitare come la peste argomentazioni di tipo ideologico.

Quest’esempio dimostra la sottigliezza dei meccanismi mediante i quali la scienza moderna può svolgere di fatto un ruolo di legittimazione ideologica. Nonostante, paradossalmente, per Marx e molti filosofi illuministi sia la scienza a permettere il superamento dell’ideologia, la pretesa che la scienza costituisca una forma di razionalità non ideologica è, come più volte ha detto Ricoeur, essa stessa una nuova forma di ideologia. Un’ideologia che spesso giustifica di fatto l’ordine sociale esistente, coprendo, sulla base di principi di pretesa oggettività disinteressata, un sistema di manipolazione tecnologica delle coscienze. La conclusione è che non c’è modo di abolire completamente l’ideologia e la miglior cosa da fare non è negarla ma sviluppare un’immaginazione ermeneutica capace di discriminazione critica. Questa è la via lunga ed per questo che serve che cresca e si sviluppi un’adeguata cultura della transizione.

*     *     *

Ci si potrebbe infine chiedere perché ci sia tanta resistenza, da parte di molti filosofi e di molti scienziati, ad accettare il fatto di dover lavorare nel loro campo senza alcuna garanzia a priori di certezza dell’applicabilità e della validità dei risultati. Anche a fronte della dichiarata ammissione che da tempo gli scienziati lavorano in queste condizioni. Per una (non) risposta può forse essere utile questa citazione letterale di  Ricoeur:

“… l’umiltà della conoscenza si muta in desiderio di potere, per la forza stessa  delle idee e della conoscenza oggettiva. … nasce il sospetto che un sottile desiderio di potere si nasconda anche dietro l’umiltà più sincera di quello che chiamiamo ‘desiderio di verità’. L’idea che vorrei qui suggerire è che la conoscenza profana non sia la sola implicata, ma che forse lo sia ancor di più la conoscenza religiosa. Se la cristianità ha ostinatamente cercato di costruire prove vincolanti dell’esistenza di Dio, non è forse perché cerchiamo in lui la garanzia suprema sulla quale fondare la pretesa di assicurarci il controllo tramite il sapere, e questo per mezzo di prove che lo garantiscano? Il colmo del controllo da parte del sapere potrebbe appunto essere la volontà di coinvolgere Dio nella nostra impresa di dominio intellettuale chiedendogli di farsi garante della nostra ostinata ricerca di garanzia.”[6]

Note

[3] L’ermeneutica di Ricoeur parte dalla visione della condizione umana presentata da Heidegger in Essere e Tempo. Per Heidegger la condizione umana è quella di un essere che cerca di comprendere il mondo in cui si trova gettato senza averlo né voluto né scelto. Ogni vivere corrisponde quindi a un interpretare, e la condizione umana risultante è determinata completamente dalle possibilità concrete a disposizione di ciascuno. Ricoeur accetta l’impostazione heideggeriana e concorda col principio che vivere è interpretare. Tuttavia non accetta la conclusione che la condizione umana possa comprendersi direttamente attraverso l’analisi delle proprie possibilità. Se non altro perché solo nel linguaggio la condizione umana può scoprirsi come modo di essere. E il linguaggio è per definizione qualcosa che non appartiene al soggetto interrogante. Per Ricoeur, quindi, la condizione umana scopre il proprio significato solo con un lungo viaggio ermeneutico attraverso le mediazioni linguistiche dei segni e dei simboli, dei racconti e delle ideologie, delle metafore e dei miti che la determinano e in un certo senso la costituiscono, per trovarsi alla fine arricchita dalle deviazioni attraverso il linguaggio di altri.

[4] La sostanziale ambivalenza di queste due scelte da un lato mostra come la situazione meriti un’interpretazione più approfondita (ad es. come quella che Flores ha adombrato, senza però entrare nel merito), dall’altro conduce al cuore del ragionamento che ha portato Ricoeur a proporre la via lunga. Infatti l’ambivalenza è la caratteristica del linguaggio simbolico che ci permette di pensare, secondo la famosa frase di Ricoeur “ Il simbolo dà da pensare”.

[6] Paul Ricoeur, La logica di Gesù, a cura di Enzo Bianchi, Qiqajon 2009, pp. 58-9.



Luned́ 03 Ottobre,2011 Ore: 08:12
 
 
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