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www.ildialogo.org Mondo e profezia,di Gianni Mula e Carlamaria Cannas

Mondo e profezia

di Gianni Mula e Carlamaria Cannas

Manda, Signore, ancora profeti,

uomini certi di Dio,

uomini dal cuore in fiamme.

 

E tu a parlare dai loro roveti

sulle macerie delle nostre parole,

dentro il deserto dei templi:

a dire ai poveri

di sperare ancora.

 

D.M. Turoldo[1]

 

C’è qualcosa di profondamente sbagliato[2] in un mondo nel quale l’unico collante che tiene assieme la nostra struttura sociale è il comune riconoscimento che perseguire il proprio interesse materiale è una virtù. Proclamare questa realtà è proprio il genere di profezia di cui oggi c’è bisogno, ed è una testimonianza che dovrebbero dare tutti, ciascuno dal punto di vista che gli è proprio, perché profeta non è chi è capace di predire il futuro ma chi sa, può e vuole testimoniare la verità delle cose che vede e che sente. Ma in un tempo che non sa neanche darsi un nome[3], incerto com’è tra modernità, antimodernità e postmodernità, dire che il mondo ha bisogno di profeti sembra diventato un luogo comune, perché da tutti i campi del sapere in qualche modo organizzato, dalla politica all’economia, dalla filosofia alla scienza, emerge una radicale ansietà per il futuro e un comune insoddisfatto bisogno di certezze.

Ma non è un luogo comune dire che i problemi del vivere umano che davvero contano, in ogni tempo, sono quelli che riguardano i poveri e gli oppressi. Perché la gran parte di noi non si sente affatto responsabile per quelli che non contano e non hanno voce. Né ritiene che ci sia qualcosa di sbagliato nell’affrontare i problemi di questo genere in maniera completamente oggettiva, asettica, quasi fossero cose che non ci riguardano.

Per questo la voce di chi ricorda il dovere umano della solidarietà verso e con gli ultimi è sempre una voce profetica. Non necessariamente cristiana, perché la profezia non è un genere letterario esclusivo dei cristiani. Ma certo un cristianesimo senza profeti non sarebbe cristiano; qualcuno potrebbe perfino addurre a prova dell’esistenza di Dio il fatto che, nonostante la ben nota allergia ai profeti dei vertici vaticani, persino il cristianesimo post-tridentino, cioè il cattolicesimo romano, abbia sempre avuto la sua generosa razione di profeti.

Anche oggi, in un tempo segnato dalla prepotenza di tanti di tutte le provenienze che hanno scelto la menzogna come professione, i testimoni della verità non mancano e la preghiera di padre Turoldo riportata in esergo, come tutte le preghiere fatte col cuore limpido, è manifestamente accolta. Un esempio particolarmente attuale è Dio nella trasparenza dei poveri[4], il nuovo libro di Arturo Paoli e Dino Biggio. Apparentemente un libro minore, rispetto alla mole dei libri già noti di Arturo Paoli, ma con caratteristiche insolite che gli danno un significato e un'importanza che vanno ben oltre ciò che uno si aspetterebbe da un piccolo libro pubblicato da una piccola casa editrice.

Dino Biggio ha lavorato con l’intelligenza del cuore su vari testi di quel grande profeta del nostro tempo che è fratel Arturo. Il risultato è una collezione di autentiche gemme, in particolare le 49 composizioni poetiche contenute nella prima parte del libro. Anche se Arturo parla in prosa come tutti, e le frasi estratte dai suoi scritti o dalle sue conferenze sono indiscutibilmente sue, il risultato dell’estrazione è certamente poetico. Ma soprattutto ha un suono autonomo rispetto all’originale. Nella prefazione al libro Arturo osserva che le sue parole, rimesse insieme, possono trovare una nuova capacità di inquietare perché sono passate attraverso il cuore di Dino. Ora la teologia ci insegna che questo è appunto il quotidiano miracolo dello Spirito, che fa nuova ogni cosa e a tutti dona la capacità di vedere in tutte le cose un frammento del progetto di Dio. Ma come possiamo dire e capire qualcosa di questa capacità?

I guasti di un mondo squassato dall’insaziabile bramosia di denaro sono sotto gli occhi di tutti, ma solo pochi sono coloro che trovano il coraggio di segnalarli e denunciarli. Per questo gli emarginati e gli oppressi non riescono mai a raggiungere il centro della nostra attenzione. Per questo la solidarietà verso gli ultimi è tutt’altro che diffusa. Anzi molto spesso viene esplicitamente negata, in buona fede putativa, con argomentazioni che fanno leva sul presunto carattere utopico dell’andar contro le ferree leggi dell’economia e della natura umana. Ignorando il fatto che in tutte le scienze (comprese la matematica e la fisica, dopo i teoremi di Gödel e l'avvento delle teorie della complessità) è diventato evidente che ogni sapere capace di riflettere su se stesso è condannato per ciò stesso a non poter mai trarre conclusioni definitive, neanche restringendosi rigorosamente nel proprio ambito. In altri termini con la crisi della modernità è finita l’illusione che la scienza possa mai porsi, anche solo in linea di principio, come la guida sicura per tutti i problemi del vivere umano. Perciò quelle leggi ferree non possono esistere se non come volontà di una parte del genere umano di prevaricare sull’altra.

In questo contesto è certo significativo che un noto teologo cattolico americano come David Tracy[5] segnali la rilevanza culturale, non solo morale o teologica, del problema della solidarietà verso gli ultimi. Ma se la cultura dei teologi cristiani non si occupasse dei poveri e degli oppressi allora non si capirebbe a che serve! Egualmente si potrebbe pensare che le affermazioni nello stesso senso che provengono da molti filosofi contemporanei non siano altro che il naturale sviluppo della sensibilità e delle riflessioni che hanno portato Emmanuel Levinas a porre il problema dell’etica come filosofia prima. Dove invece le dichiarazioni di solidarietà incontrano distinguo rilevanti, quando non ostilità assoluta, è in economia, perché in questo campo la dottrina dominante è che il problema dei poveri e degli oppressi è un problema di distribuzione, quindi un problema etico, mentre quello di creare ricchezza da distribuire è “oggettivo”, perché se non si crea ricchezza non c’è nulla da distribuire. Più in generale è l’intera cultura contemporanea a considerare con grave sospetto ogni conflitto fra problemi etici e problemi scientifici, ritenendo solo i primi valutabili sul piano morale e riducendo gli altri a mere questioni di fatto, a parte gli  eventuali problemi etici legati all’uso delle conoscenze.

Poiché nell’opinione comune la scienza, e solo la scienza, è fonte di certezze oggettive, non c’è da stupirsi che le religioni organizzate, compresa quella cattolica, soffrano di una sorta di schizofrenia che le spinge, da un lato, a rivendicare l'origine divina dell'atteggiamento di fratellanza universale implicito nelle religioni monoteiste (e per questo universalmente lodato, a patto che non interferisca con l’ordinato svolgimento dell’apparato produttivo della società) e, dall'altro, a comportarsi di fatto in maniera del tutto obbediente alle logiche di potere e di denaro che caratterizzano la società contemporanea.

È proprio questa schizofrenia a confinare le religioni organizzate nel ruolo di ancelle delle strutture di potere che dominano l’economia globale (e indirettamente ogni altro aspetto della vita), e il cui perpetuarsi non dipende dal risultato di libere elezioni ma dalla tacita accettazione del principio del libero mercato, autentico vitello d’oro del nostro tempo. Infatti le loro dichiarazioni di principio contro il libero mercato sono totalmente inefficaci, perché niente viene detto contro la prassi generalizzata di considerare le verità scientifiche come l’unica base possibile per misurare oggettivamente il progresso di una civiltà. Quel che invece bisognerebbe fare non è  tanto attaccare il libero mercato, che quando è veramente libero e non si trasforma in oligopolio può essere utile, e tanto meno contestare valutazioni scientifiche sulla base di argomentazioni basate solo sulla fede, ma dire con forza e chiarezza che la scienza non può mai porsi al di sopra di un’etica condivisa. Se un suo “verdetto” fosse disastroso anche solo per parte degli abitanti del pianeta, questo non sarebbe il prezzo da pagare al “progresso” ma il risultato di un’azione di violenza e di rapina perpetrata da esseri umani ai danni di altri esseri umani.

Questa verità, assieme a tante altre, sempre correlate a questa prima, è il cuore della profezia di Arturo. Lo Spirito che fa nuove tutte le cose rende la sua testimonianza, a quasi cent’anni, fresca come quella di quando era giovane. Rileggerlo ora, dal punto di vista che ci viene offerto dalla paziente e ispirata azione di Dino, è un’esperienza arricchente e gratificante.

Prendiamo per esempio la prima composizione, che ha il titolo Me ne devo andare. Si tratta di un brano che fa parte di un vecchio testo pubblicato per la prima volta nel lontano 1966, e ripubblicato nel 2007 col titolo Il sacerdote e la donna[6]. Nella prefazione alla nuova edizione fratel Arturo racconta che un editore cattolico si era rifiutato di pubblicare l’opera perché avrebbe potuto oscurare la reputazione dell’autore, in quanto racconto della sua relazione con una donna. In realtà si tratta di un testo molto bello nel quale Arturo usa il racconto di uno squarcio della sua vita per affrontare il tema dell’alterità, a partire da quella sua espressione primigenia e paradigmatica che è la relazione uomo-donna. E nota come “la fine dell’esperienza dell’incontro femminile-maschilepossa non essere carica della tristezza della fine, ma essere invece un salto verso l’assolutamente Altro[7].

Osserva ancora Arturo che è proprio mediante la narrazione di episodi così privati che si può ricomporre “l’umano che la filosofia e la religione hanno separato[8]. Si possono cioè vivere gli insegnamenti della filosofia e della religione non come qualcosa di estrinseco ma come qualcosa che è davvero possibile far nostri.  Questo è appunto il risultato che l'operazione di Dino Biggiopermette di raggiungere. Leggiamo la strofa che conclude la composizione:

 

Lasciare

l’uno per i molti

tu lo definivi promiscuità,

e io intuivo che

non potevo trovare

l’Uno

se non inseguendolo attraverso

i molti.

 

Questa strofa è una sintesi di abbagliante semplicità di un problema cruciale nella filosofia del novecento: come descrivere la condizione umana di fronte al trionfare della scienza e della tecnologia. Heidegger, che fu il primo, già nella prima metà del secolo, a porre questo problema all’attenzione della filosofia, riteneva che la condizione umana (Dasein) fosse caratterizzata dalla possibilità di passare direttamente dall’interpretazione delle proprie condizioni concrete di vita alla scelta consapevole di un modo di vivere autentico, corrispondente cioè alla verità del proprio essere. Questo è l’obiettivo che Arturo chiama l'Uno. A questa visione Ricoeur, nella seconda metà del secolo scorso, ha contrapposto quella che lui, per differenziarla da quella di Heidegger, chiamava la via lunga. Questa via raggiunge la propria autocomprensione, cioè l’Uno, non direttamente ma attraverso un'infinita serie di mediazioni ermeneutiche (cioè i molti). In queste infinite mediazioni l’interpretazione della propria storia e del proprio l'ambiente è ottenuta attraverso il confronto con l’altro[9].

Il risultato finale quindi non è lo stesso, perché con la via corta uno cerca di costruire la propria autenticità attraverso il confronto con le proprie immagini degli altri, mentre con la via lunga questa ricerca può aprirsi a un vero confronto con gli altri, e, tramite essi, alla concretezza di un vero confronto col divino. La verità smette così di essere un assoluto metafisico alla cui ricerca sacrificare la propria esistenza, per diventare invece un concetto esperienziale.

Detta così, questa spiegazione delle posizioni di Heidegger e Ricoeur suona inevitabilmente come una materia da addetti ai lavori.

Invece la rappresentazione che ne dà fratel Arturo permette di comprendere che il problema dell’alterità non è tanto un problema per nuovi o vecchi filosofi bisognosi di passare il tempo quanto un problema che riguarda la vita di ciascuno. È proprio la concentrazione dell’attenzione su questo piccolo brano, grazie alla rivisitazione che ne fa Dino Biggio, che ci permette di saltare ogni mediazione per cogliere un frammento del pensiero di Arturo e lasciarci avvolgere dalla sua testimonianza.

Dio nella trasparenza dei poveri è pieno di gemme simili, e ognuna meriterebbe una meditazione approfondita. Questa presentazione potrebbe fermarsi qui, ma ci pare utile dedicare un momento alla piccola composizione omonima che dà il titolo al libro, per offrirne un lettura del tutto indipendente dalla conoscenza del contesto dal quale è stata estratta. Eccola:

 

Quando sentite dire che

il mondo va verso

la rovina e la distruzione,

non credeteci!

 

Finché i poveri ci saranno,

Dio sarà in mezzo a noi,

nella loro trasparenza.

 

Questa è la nostra

grande speranza.

 

Il primo impatto è onestamente sconcertante: com'è possibile essere increduli di fronte a chi ci dice che il mondo va verso la rovina e la distruzione, visto che gli avvenimenti di questo inizio di millennio, dalla crisi economica alla crisi ambientale, dal terrorismo internazionale ai grandi fenomeni migratori in corso, non fanno altro che indicarci l'alta probabilità di una prossima crisi globale che potrebbe portare alla quasi totale estinzione del genere umano? E perché la nostra speranza sarebbe soltanto quella legata alla sopravvivenza dei poveri? Forse il contesto permetteva di dare un senso accettabile a queste parole di fratel Arturo quando le ha pronunciate,  ma Dino doveva essere fuori di testa quando le ha scelte per evidenziarle fuori dal contesto!

Eppure ... Proviamo a riflettere nell'ambito dell'unico contesto dal quale, come cristiani, non possiamo mai prescindere, quello dei vangeli. Cioè della buona notizia che ci è stata rivelata in Cristo Gesù. Se crediamo a questa buona notizia, come facciamo a credere a coloro che Giovanni XXIII chiamava profeti di sventura? Il punto è che veri profeti non sono quelli che dicono di prevedere il futuro ma quelli che ci dicono la verità sul nostro tempo e ci esortano a convertirci, cioè a cambiare il nostro comportamento, per correggere le cose che non vanno.

L'invito di fratel Arturo non va quindi inteso come un appello ad aspettare inerti la provvidenza divina, ma come la denuncia che il male planetario, sia esso ecologico, economico o politico, non viene da imperscrutabili (e immaginarie) leggi naturali ma, sempre, dalle azioni concrete di tanti uomini e donne convinti di operare secondo logica e buon senso. E che perciò solo azioni altrettanto concrete di altri uomini e donne che si ispirino a una logica differente, la logica delle beatitudini, possono rovesciarne le conseguenze.

Ma c'è una difficoltà. Come comportarsi riguardo a vincoli oggettivi quali la finitezza delle risorse di tutti i tipi, alimentari, energetiche, ambientali? Almeno di fronte al pericolo di esaurimento di queste risorse non dovrebbe forse essere giustificato il lancio di un allarme alto e forte, così che provvedimenti di emergenza possano salvarci da serie minacce di rovina e distruzione? Certo. Ma il salvare la terra dalla distruzione non compete ai cristiani in quanto tali, ma a tutti gli esseri umani. I cristiani non devono temere le conseguenze del male che viene da fuori ma quelle del male che viene da dentro i cuori degli uomini. Le catastrofi, naturali, ambientali o politiche, non derivano da un'ipotetica fragilità del creato ma dall'idolatria degli uomini.

Ciò che invece i cristiani dovrebbero testimoniare è che non c'è emergenza che possa giustificare l'emarginazione, o peggio, di un essere umano, a qualunque categoria appartenga, e per qualsivoglia motivazione. Per i vangeli l'unica logica da seguire nel caso di esaurimento delle risorse di qualunque tipo è quella della condivisione. È certo logicamente possibile non accettarla, ma la differenza cristiana implica l'accettazione.

In questo spirito diventa allora di una chiarezza sconvolgente l'affermazione che finché ci saranno poveri Dio sarà con noi grazie a loro, "nella loro trasparenza". Perché fino a quando ci saranno poveri ed emarginati noi sapremo che cosa siamo chiamati a fare, senza bisogno di metter su improbabili comitati per la difesa della vita, o per difendere posizioni preconcette assunte come "non negoziabili". Perché i poveri servono a noi, perché è attraverso di essi, quindi attraverso la loro trasparenza, che vediamo Dio. Questa è la nostra fede, e quindi anche la nostra grande speranza.

 



[1] D.M. Turoldo, O sensi miei ..., Rizzoli, 1993, p. 570

[2] T. JudtGuasto è il mondo, Laterza, 2011

[3] D. Tracy, On Naming the PresentOrbis Books, 1994

[4] A. Paoli e D. BiggioDio nella trasparenza dei poveri, Edizioni La Collina, 2011, € 14,50 con Cd audio allegato.

[5] D. Tracy, op. cit., p. 21

[6] A. Paoli, Il sacerdote e la donna - Marsilio 2007, pag. 69.

[7] op. cit. pag. 95

[8] op. cit. pag. 93

[9] P. RicoeurSé come un altroJaca Book 1993

 



Sabato 11 Giugno,2011 Ore: 23:32
 
 
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