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www.ildialogo.org Il segno di Giona,di Carlamaria Cannas e Gianni Mula

Scienza e umanità
Il segno di Giona

di Carlamaria Cannas e Gianni Mula

Tutto quello che chiamiamo scienza è niente di più, ma anche niente di meno, di un insieme di processi deduttivi che partono da alcuni assiomi (talvolta chiamati fatti, ma anche regole o dogmi) per arrivare a conclusioni che, in quanto dedotte, sono già logicamente contenute in essi. Si tratta di un patrimonio di conoscenze sul mondo in cui viviamo che è cresciuto nel tempo e sul quale abbiamo costruito le moderne tecnologie. Non sono tuttavia conoscenze dalle quali si possano estrapolare conclusioni in qualche maniera definitive sul mondo in cui viviamo. Infatti, per quanto l’utilità delle tecnologie sia indiscutibile, il successo di una tecnologia dimostra soltanto la validità del modo col quale interpretiamo certi fenomeni, e non può essere usato per dimostrare qualcosa che valga al di fuori di quell'ambito.

L’idea che la scienza, grazie al Metodo Scientifico, possa consentire di prevedere con sicurezza qualcosa di totalmente imprevisto (cioè al di fuori dei fenomeni già compresi e degli assiomi usati per comprenderli) è solo un’illusione ottica, una specie di storia raccontata dai vincitori. La realtà è diversa: ad esempio gli esperimenti cruciali che nei libri di divulgazione della scienza si racconta che portarono alla crisi della meccanica classica sono cruciali solo nelle ricostruzioni storiche fatte a più di una generazione di distanza e dopo la costruzione di una nuova teoria, la meccanica quantistica, basata su assiomi radicalmente nuovi. Quando si dice che il Metodo Scientifico non esiste più si vuole appunto dire che la costruzione di una nuova teoria non è tanto il frutto di un rigoroso processo deduttivo (lo è anche, almeno in parte) quanto un atto creativo paragonabile alla creazione di un’opera d’arte.

Questo stato di cose è una novità per la matematica, per la fisica e per le altre scienze naturali, perché sinora queste discipline, essendo cresciute all’ombra del Metodo Scientifico, attribuivano ai propri risultati una validità oggettiva, cioè assoluta, proprio in ragione del rigore del metodo che aveva permesso di ottenerli. Non è, naturalmente, una novità per le scienze umane. Tranne che per la teologia, per la quale l'unicità, l'onniscienza e l'onnipotenza di Dio tradizionalmente implicano l'univocità delle manifestazioni della Sua volontà, a partire dalla creazione del mondo. Anzi, se si sostituisce il concetto di rivelazione a quello di ragione, il caso della teologia diventa in un certo senso del tutto analogo a quello della matematica e della fisica. Infatti come la ragione umana è alla base della scienza, così la rivelazione è alla base della fede. E come la matematica e la fisica potevano garantire la verità assoluta delle loro affermazioni grazie al Metodo Scientifico così la fede poteva garantire la verità assoluta dei propri dogmi sulla base dell’ispirazione divina e dell’infallibilità in materie di fede e di morale della Sacra Scrittura.

Ora, nella cultura del nostro tempo, la verità assoluta è un concetto residuale, che ha ormai solo un significato e un valore essenzialmente storici. Questo rifiuto dell'assoluto non è dovuto, come si crede comunemente, alla rilassatezza morale dei tempi in cui viviamo, ma, al contrario, al rigore generato dalla consapevolezza dei limiti del linguaggio, di qualunque linguaggio. Per quanto riguarda il linguaggio scientifico Gianni Mula ha già spiegato in questa rubrica come, con i teoremi di Gödel e l’esplosione della scienza della complessità, il Metodo Scientifico si è ridotto a una serie di metodi scientifici (cioè di procedure separate per i vari ambiti) dai quali è evidentemente possibile trarre ipotesi sugli sviluppi futuri ma non formulare certezze assolute. Peraltro, mentre la matematica e la fisica hanno trovato il modo di utilizzare questi limiti del linguaggio scientifico a proprio vantaggio, le teologie contemporanee, soprattutto nelle loro espressioni ufficiali, sembrano avere difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione. Il problema principale, in particolare per la teologia cattolica, è quello dello status conoscitivo da attribuire alla Scrittura: poiché l'interpretazione letterale non è più culturalmente sostenibile, si tratta di definire quali criteri sono alla base di un'interpretazione valida. E questo ci riporta alla questione del metodo: perché, come non c'è maniera di definire univocamente le procedure da usare in un'indagine scientifica, così non c'è maniera di definire univocamente i criteri di un'interpretazione della Scrittura che valga per tutti i contesti, siano essi teologici, pastorali o liturgici.

Si badi che per la scienza la presa d'atto dei limiti delle sue procedure metodologiche non ne mette minimamente in discussione significato e valore. E lo stesso vale per la teologia, il cui significato e valore non è messo in discussione se il linguaggio usato per esprimere le certezze della fede viene modificato per renderle comprensibili in una nuova cultura; né  queste revisioni possono mettere in dubbio l'esistenza di Dio come unico Assoluto perché, al contrario, il loro scopo è quello di rendere l’esistenza di Dio un concetto concretamente significativo, per i credenti, anche nel mondo d’oggi. Magari per poi decidere di comportarsi etsi Deus non daretur (come se Dio non esistesse), e ridurre l’essere cristiani, con le parole di Dietrich Bonhöffer, a «pregare e fare ciò che è giusto tra gli uomini».

Naturalmente si può porre il problema di come le certezze della fede possano convivere col sapere contemporaneo, che è acutamente consapevole dei limiti, e quindi della relatività, di ogni formulazione linguistica. Ma è un problema che esiste solo per coloro che scambiano la fede in Dio con l’adesione alla particolare formulazione dogmatica, supposta assolutamente invariabile nel tempo, di una qualche tradizione.

Una tradizione di fede viva, cioè significativa per la vita di un credente, può essere trasmessa solo da una comunità di fedeli concreta, quindi con una propria storia. Ogni epoca ha la sua storia, e i dogmi hanno un significato che dipende dall'interpretazione che viene data alla loro formulazione, interpretazione che varia con la cultura del periodo. Saper leggere i segni dei tempi significa ritrovare nel mondo di oggi i segni della fede di ieri

Ai farisei e ai dottori della legge che gli chiedevano un segno Gesù rispose che avrebbero avuto solo il segno di Giona: perché essi conoscevano la Torah ed erano quindi perfettamente in grado di capire il suo insegnamento, ma non volevano capirlo. Mentre gli abitanti di Ninive, pagani, si erano convertiti per l'insegnamento di Giona, i dottori della legge non volevano convertirsi per quello di Gesù, pur vedendone i frutti (I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. Mt, 11,5).

Oggi aprirsi al messaggio evangelico significa saper inculturare la tradizione cristiana in un mondo postmoderno tanto sofisticato nell'uso delle tecnologie quanto capace di credere alle più folli leggende metropolitane; giustamente scettico sul carattere assoluto del sapere scientifico ma al tempo stesso privo di dubbi sulle "leggi" economiche assolute che regolano il cosiddetto libero mercato; capace di preoccuparsi, almeno a livello di teoria, della conservazione dell'ambiente ma anche di mostrare totale insensibilità verso i problemi delle popolazioni più povere.

Noi cristiani non siamo riusciti in questo processo di inculturazione e siamo perciò diventati una generazione perversa e adultera, che tradisce Dio adorando gli idoli della modernità (cioè affidandosi al vitello d’oro della verità assoluta nelle cose del mondo anziché a Dio). Come i dottori della legge e i farisei noi chiediamo a Dio dei segni della sua potenza senza essere disposti a convertirci personalmente. E li chiediamo perché non vogliamo capire che se rinunciassimo a questi idoli saremmo capaci di compiere noi stessi i segni che chiediamo a Dio. Per calarci nello spirito del messaggio evangelico proviamo a rileggere il Libro di Giona nell'interpretazione che ne dà la tradizione ebraica, splendidamente raccolta in un unico racconto da Giacoma Limentani, in quel piccolo gioiello che è "Giona e il Leviatano" (Paoline, 1998), che vi consigliamo vivamente di leggere. Nel breve estratto che segue Giona, che, per i motivi descritti in dettaglio nel racconto, non voleva assolutamente obbedire all’ordine dell’Eterno di ammonire gli abitanti di Ninive che la loro malvagità era salita fino a Lui, è finalmente arrivato in quella famosa città. Ha le vesti lacere e coperte di croste e di conchiglie per le varie vicissitudini che ha attraversato, ma ha chiesto perdono all’Eterno ed è deciso a compiere la sua missione.

 

Giona a Ninive

(da Giona e il Leviatanodi Giacoma LimentaniPaoline 1998)

 

… Tutto parlava di ricchezza nella città di Ninive, tutto era d’oro e d’argento, ma l’oro era rosso come il sangue e l’argento era brunito dall’odio. Lì perfino la parola amore aveva un suono minaccioso, ché parole e concetti vi avevano perso i loro significati originali. Per i niniviti amore equivaleva ad avidità di possesso, mentre forza era sinonimo di sopraffazione.

Giona percorse le quaranta parasanghe quadrate, circondate da mura invalicabili come quelle delle prigioni. Vide esseri che guardavano sempre di sottecchi, perché nessuno scorgesse nei loro occhi i pensieri che nutrivano, e per quegli esseri umani parlò. Parlò e disse quel che l’Eterno gli comandava.

Le sue parole furono squilli di trombe, rintocchi di campane. Fecero vibrare la città, spalancarono le porte e le finestre, superarono ogni altro rumore. Echeggiarono rimbalzando da un muro a un altro. Risuonarono con identica intensità sotto i tetti d’argilla dei tuguri e fra le pareti d’avorio della reggia, dove Osnappar regnava in splendida solitudine. Fecero tremare gli idoli. Paralizzarono i sacerdoti nell’atto di immolare le vittime. Costrinsero tutti ad ascoltare.

«… “La vostra malvagità ha passato il segno. La Mia pazienza si è esaurita. Così come ho creato il cielo e la terra con tutte le sue creature, Io vi distruggerò insieme alla vostra città!”. Così dice l’Eterno».

Con questo annuncio gridato sulla piazza di principale di Ninive, davanti alla reggia, sotto gli occhi del re OsnapparGiona terminò la sua predicazione. Si fermò un attimo, stupito dal silenzio e dall’immobilità che lo circondavano, quindi si avviò verso le mura per abbandonare la città.

Fermi sulle soglie delle case, i niniviti lo guardarono passare e si chiesero chi potesse essere quel vecchio rattrappito, lacero e coperto di croste e di conchiglie, che si trascinava come un moribondo eppure aveva il coraggio di sfidare sia loro che il loro re. Che specie di Dio creatore potesse essere quell’Eterno Unico, Creatore del cielo e della terra, che si proclamava padre di tutte le creature e dava al vecchio il coraggio e la forza di condannare i loro costumi, di definire i loro dèi inutili fantocci di sasso. Pensarono:

«Ecco, adesso i soldati lo arresteranno, il re lo condannerà, i nostri dèi lo inceneriranno».

Ma gli dèi non intervenivano e nessuno osava avvicinarsi al profeta, perché i suoi occhi mandavano lampi come quelli del Leviatano.

Giona ebbe la sensazione di attraversare una città incantata. Mentre la percorreva diretto alle mura, passando per le strade dove si udiva soltanto il rumore dei suoi passi, davanti alle case sulle soglie delle quali i niniviti stavano a guardarlo immobili, pensò:

«Ecco questa città è talmente cementata nel male che i suoi abitanti non hanno capito niente di quel che ho detto, e così l’Eterno la punisce, trasformandola in una città di statue, a perenne memento ed esempio per l’umanità intera».

Mentre si avvicinava alla porta principale, l’incantesimo fu rotto da un coro di muggiti, nitriti e belati. Giona affrettò il passo e giunse in vista delle stalle e degli ovili addossati alle mura di cinta, dove ferveva un’attività frenetica.

I mandriani e i pastori di Ninive avevano diviso gli animali adulti dai nuovi nati, e li stavano chiudendo in recinti diversi: cavalli e giumente, mucche e tori, pecore e montoni in un recinto, e puledri, vitellini e agnelli in un altro. Così separati gli animali piccoli e grandi muggivano, nitrivano e belavano, disperatamente chiamandosi.

Il senso dell’assurda impresa fu rivelato a Giona da un’invocazione che pastori e mandriani insieme pronunciarono a voce altissima, per superare il coro degli animali disperati:

«Tu vuoi condannarci, Eterno. Ebbene, se Tu non avrai pietà di noi, noi non avremo pietà per questi animali».

Giona scosse la testa e si affrettò ad abbandonare Ninive per non essere coinvolto nella sua distruzione. Stavolta l’Eterno non avrebbe potuto perdonare: l’unica reazione dei niniviti alle Sue minacce era una sfida, un ricatto di cui facevano le spese delle povere bestie.

Quel ricatto era il primo, maldestro atto di contrizione di gente spaventata, che non sapeva come comportarsi perché nessuno glielo aveva mai insegnato. Una volto rotto l’incantesimo dello sbalordimento, altri rumori cominciarono però levarsi da vari punti della città. I niniviti non riuscivano ad esprimere quello che provavano, ma sentivano il bisogno di riunirsi, per cui abbandonavano le proprie case, tutti diretti verso la reggia. Qui, le prime a trovare una risposta adatta alla profezia furono le madri con i lattanti al petto. Mostrati al cielo i loro piccoli, piangendo gridarono:

«Per amore di questi innocenti, perdonaci ed insegnaci la pietà».

La preghiera delle madri riscosse Osnappar. Per la prima volta da che era nato, Osnappar guardò in faccia i suoi sudditi e vide che erano stanchi, infelici e disorientati quanto lui. Scese dal trono, si tolse la corona, si strappò di dosso il manto di porpora, si cosparse il capo di cenere, si rotolò nella polvere e ordinò ai suoi sudditi di tornare alle loro case, digiunare, vestirsi di sacco e fare penitenza in attesa di ordini.

niniviti tornarono a casa e poco dopo gli araldi cominciarono a battere in lungo e largo la città, proclamandovi i decreti che Osnappar emanavano a mano a mano che gli venivano in mente:

«La polizia segreta agirà d’ora in poi allo scoperto, col compito di soccorrere i poveri».

«I templi siano svuotati degli idoli, vi vengano aperte finestre e siano trasformati in scuole nelle quali tutti possano apprendere nuove leggi di giustizia».

«I sacrifici umani sono aboliti. I sacerdoti, esperti di anatomia, sono addetti all’assistenza dei malati».

«Nessun giudice potrà più presiedere da solo a un processo. Sarà coadiuvato da un collegio di cittadini che controlleranno il suo operato».

«Nessuno potrà più denunciare chicchessia senza esibire prove inconfutabili. La falsa testimonianza sarà considerata reato».

«Nessuno dovrà più imporre le proprie opinioni o la propria volontà con la forza».

niniviti ascoltavano e non si limitavano a obbedire. Chi aveva rubato restituiva il maltolto. Alcuni arrivarono a distruggere i loro palazzi, per restituire ai legittimi proprietari anche un solo mattone rubato, e vennero perciò ringraziati. Altri si presentarono spontaneamente in tribunale per confessare colpe note a loro soltanto, pronti a subire la punizione, e furono perdonati.

… Ninive ferveva di attività, e mentre i suoi abitanti facevano piazza pulita di tutte le cattive abitudini, l’oro dei suoi palazzi riprendeva il fulgore del sole e l’argento tornava a splendere come la luna. …

Giona non l’abbandonava un momento con gli occhi, in attesa di vederla ardere di fuoco purificatore, e così unirsi in fumo alla nuvola che la sovrastava. Si trascinava intanto lungo la cresta delle montagne tutto intorno, cercando un po’ di scampo al caldo torrido, un po’ di refrigerio all’arsura, un po’ di tregua agli insetti, senza trovare pace e senza potersi sedere sui sassi infuocati da un sole implacabile. …

Scese l’oscurità e il povero Giona, che ora non sapeva come proteggersi dal gelo notturno, vide Ninive immersa nella luce della luna: una città fatata d’argento e di opali. Al mattino era ancora lì, fulgida e intatta, e con la sua bellezza sembrava deridere Giona, che dal nuovo sole non ricavava fulgore, bensì rinnovati patimenti e ulteriori motivi d’angoscia.

L’Eterno ebbe pietà del suo profeta e, solo per lui, fece sorgere dai massi un albero di ricino, maestoso come il portico del Tempio di Gerusalemme. Il tronco era liscio al tatto, perchéGiona potesse appoggiarvisi comodamente, e la chioma era formata da duecento-settantacinquemila foglie larghe ognuna più di una spanna, per ripararlo. Giona si rifugiò alla sua ombra e si addormentò, sfinito.

Fu destato dalla vampa implacabile del sole, con la sensazione che l’albero liscio e gentile che aveva cullato il suo sonno fosse diventato rugoso e pungente. Era diventato rugoso e pungente e nero come il carbone. Le belle foglie giacevano polverizzate tutto intorno, e i rami spogli si levavano al cielo inriditi e contorti … «Perché?» gridò Giona rivolto all’Eterno, «Perché hai inaridito quest’albero perfetto? Spiegamelo. Se non mi spieghi la Tua giustizia, preferisco morire».

E l’Eterno rispose a Giona: «Trovi naturale piangere per la fine di quest’albero che è stato creato soltanto per te e la cui crescita non ti è costata alcuna fatica, e Io dovrei rallegrarmi della distruzione di una città gremita di abitanti? Non sai forse che i niniviti sono figli Miei come i figli d’Israele e come gli abitanti di qualunque paese della terra? Sappi, Giona, che fino a quando in una città vive sia pure un solo uomo giusto, un solo uomo capace di pentirsi e di dare l’esempio, quella città sarà salva perché Io la risparmierò».

«I niniviti non sono pentiti», si ribellò Giona.

«Come fai a saperlo?»

«Li ho visti separare il bestiame».

«Quel bestiame che suscita la tua pietà, non soffrirebbe molto di più se Io distruggessi Ninive

«Li ho sentirti sfidarTi!», gridò Giona.

Allora l’Eterno gli mostrò l’interno di Ninive e Giona vide i tribunali dove si giudicava secondo giustizia, le prigioni vuote, i templi trasformati in scuole e pieni di studenti. Vide i sacerdoti prodigarsi per gli ammalati e vide che i poveri non erano più poveri, non più costretti a chiedere l’elemosina o a rubare, perché veniva dato loro lavoro a sufficienza e con umanità. Vide cheOsnapper non sedeva più da solo sul trono, ma girava per la città circondato da consiglieri scelti tra il popolo. E vide i volti aperti e sereni di tutti i niniviti.

La Voce gli parlò ancora una volta dicendo: «Il miracolo che stai contemplando è opera tua. Ninive si è salvata perché tu l’hai trasformata con le tue parole e il tuo coraggio».

Anche Giona si sentì infine libero e felice, ma era molto stanco. L’Eterno gli concesse di raggiungere i suoi maestri, per aspettare in pace con loro la fine dei suoi giorni.

 

 

Gli italiani di oggi sono del tutto simili ai niniviti prima della conversione, come vividamente descritti dalle parole di Giacoma Limentani: anche da noi parole e concetti hanno perso i loro significati originali, anche da noi amore equivale ad avidità di possesso, e forza è sinonimo di sopraffazione. Dire che questo vale per gli altri e non per noi, perché noi non siamo così, è irrilevante, dato che non possiamo sperare di uscire individualmente da una condizione che caratterizza tutta la società.

Anche noi viviamo nelle prigioni dei nostri egoismi, anche noi nascondiamo i nostri pensieri. Anche noi abbiamo visto passare nella nostra vita persone vestite da prete, forse non strane come quel vecchio rattrappito coperto di croste e di conchiglie, ma che dicevano (e dicono ancora, se vogliamo ascoltare) cose “strane”, di cui non si riesce a capir bene il senso. Ad esempio, già una sessantina d’anni fa, in piena guerra fredda e con la democrazia cristiana al governo, dicevano “non a destra, non a sinistra, non al centro ma in alto” oppure “l’obbedienza non è più una virtù”, giungevano perfino a contestare il potere dei vescovi, dalla “logica sottilmente mondana, sia pure sacralizzata dal diritto canonico”, o pensavano che il “popolo di Dio o nasce dalla liturgia o non nasce in nessun modo e in nessun luogo”. Cose forse troppo vere per essere accolte e quindi per innescare in noi un processo di conversione. Anzitutto, certo, perché non ci paiono rivolte a noi, che,sentendoci giusti, non possiamo sentire alcun bisogno di conversione. E poi perché in fondo la pensiamo come Giona, non solo bisogna fare la volontà dell’Eterno, ma le sue leggi vanno obbedite anche quando ci vanno di mezzo innocenti. Per noi questa verità assoluta è il bene supremo, ma è verità degli uomini che si fa Dio, non è Dio che si fa verità negli uomini che obbediscono al comandamento dell’amore.

In questo senso Giona è il prototipo dell’uomo del nostro tempo, che invoca le regole e il pugno di ferro, purché valgano per gli altri, ma non è disposto a rinunciare ai propri beni o ai propri privilegi. E non è disposto ad alcuna rinuncia perché beni e privilegi sono per lui le sole certezze sulle quali può contare: può anche essere povero, ma difenderà sino alla morte la propria certezza di essere nel giusto perché gli permette di condannare gli altri.

Noi possiamo anche, individualmente, non essere d’accordo con i vescovi o col Papa, ma non illudiamoci di essere migliori, perché abbiamo anche noi, come loro, troppe certezze che non vengono da Dio. Nel loro caso sono le certezze che li autorizzano a sentirsi in tutti i campi gli esecutori della volontà di Dio solo perché svolgono una funzione di servizio nel Suo nome. Nel nostro, di laici, sono quelle che ci spingono a credere che ci siano leggi naturali che sanciscono il non senso e l’inutilità della fatica di testimoniare il bene, perché tanto la natura degli uomini è bacata e nulla potrà mai cambiarla.

È l’obbedire a queste certezze che ci toglie quella capacità di com‑muoverci, cioè di muoverci assieme, che è la sola emozione capace di innescare sia la collera dei poveri che l’avvio del regno di Dio. Nel suo ultimo editoriale (Indignarsi è giusto) Giovanni Sarubbi osservava che nel nostro paese la capacità di indignarsi di fronte a comportamenti manifestamente aberranti è assente nella maggioranza della popolazione. Ha certamente ragione, ma siamo sicuri che concorderebbe sul fatto che noi cattolici, tutti insieme, siamo gli ultimi ad avere il diritto di stupirci per quest'incapacità di indignazione collettiva, visto che per decenni siamo stati, e siamo ancora, capaci di sopportare pazientemente che una gerarchia inadeguata al di là dell’immaginabile consentisse e favorisse, quando non attivamente provocasse, la distruzione di vite innocenti ad essa affidate.

niniviti che, tutti insieme, si com‑mossero per le parole di Giona, erano infatti « ...  gente spaventata, che non sapeva come comportarsi perché nessuno glielo aveva mai insegnato. … non riuscivano ad esprimere quello che provavano, ma sentivano il bisogno di riunirsi, per cui abbandonavano le proprie case, tutti diretti verso la reggia». È questa capacità di reagire assieme che compie il miracolo di convertire il re: «… Per la prima volta da che era nato, Osnappar guardò in faccia i suoi sudditi e vide che erano stanchi, infelici e disorientati quanto lui. Scese dal trono, si tolse la corona, si strappò di dosso il manto di porpora, si cosparse il capo di cenere, si rotolò nella polvere e ordinò ai suoi sudditi di tornare alle loro case, digiunare, vestirsi di sacco e fare penitenza in attesa di ordini».

Si dirà che queste cose capitano nelle fiabe, e che il Libro di Giona è appunto il racconto di una fiaba, di una bella fiaba, ma purtroppo la vita reale è un’altra cosa. Non abbiamo alcun titolo per esprimere giudizi di questo genere, ma pensare che nella nostra vita queste cose buone non possono accadere ci sembra la bestemmia più grande che si possa immaginare. Anzitutto perché vorrebbe dire che Gesù è venuto a salvare solo gli uomini di buona volontà, e non quelli da lui amati, cioè tutti. E poi perché l’adagiarsi su questa certezza sarebbe una bestemmia proferita con la propria vita.

Crediamo, tuttavia, di poter concludere con una parola di speranza, che viene anche dalla nostra formazione scientifica. Non so quanti di voi hanno riconosciuto, nella descrizione cheGiacoma Limentani fa della conversione dei niniviti, le caratteristiche essenziali di quella che i fisici chiamano transizione di fase. Sì, proprio di quel tipo di fenomeno che Gianni Mula ha più volte richiamato nei suoi contributi a questa rubrica come esempio dei successi della scienza della complessità. Chi li ha letti ricorderà la sua insistenza sulla relativa arbitrarietà introdotta nella scienza dal fatto che i modelli che spiegano le transizioni di fase non sono né veri, né falsi, perché non ci dicono quando avverrà una transizione ma solo che, se avverrà, sarà il frutto dell’interazione contemporanea di tutte le parti del sistema.

Nel caso della conversione dei niniviti quest’interazione collettiva è la com‑mozione generata dalle parole di Giona. Anche i vangeli descrivono situazioni di questo tipo, ad esempio è la condivisione di pochi pani e pochi pesci che ha permesso di sfamare la folla che si era riunita per ascoltare la parola di Gesù. Nel caso dell’Italia di questi tempi noi aspettiamo la com‑mozione generata dal disgusto descritto da Giovanni Sarubbi. In tutti i casi possiamo parlare di una condivisione di comportamenti. Forse per gli idolatri che siamo diventati il significato del segno di Giona è proprio la con‑sapevolezza che siamo diventati una generazione perversa e adultera. Sono i comportamenti condivisi che creano le condizioni di vita dell’ambiente nel quale viviamo e sta a noi scegliere come comportarci. La salvezza è quindi nelle nostre mani, non individualmente ma collettivamente. Non si tratta di una novità ma ci pare consolante che il Signore ce lo ricordi.

 



Giovedì 03 Febbraio,2011 Ore: 10:37
 
 
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