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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Quando il sapere si scopre complesso,di Gianni Mula

Quando il sapere si scopre complesso

di Gianni Mula

Gianni Mula Il mondo del XX secolo era in fondo semplice e chiaro: da una parte c'era il bene e dall'altra c'era il male. Non ci poteva essere alcun equilibrio se non provvisorio perché l'universalità del Metodo Scientifico, abbondantemente provata dal progresso tecnologico, aveva di fatto stabilito le regole del pensiero valide per tutti i pensieri e per ogni tempo. Queste regole non prevedevano che un’unica soluzione per ogni problema, una sola verità, la Verità. Non ci poteva essere punto d'incontro possibile tra liberismo e collettivismo, tra fede e ateismo, fra democrazia e dittatura perché tutto veniva ridotto all’opposizione tra fatto scientifico e opinione soggettiva, quindi a quella tra vero e falso, con la qualifica di vero ovviamente attribuita alla propria parte. Di conseguenza veniva meno ogni spinta morale a cercare di capire le ragioni dell'altro, e ogni disaccordo diventava una potenziale causa di scontro armato. Poco importava che in generale le parti in gioco potessero essere più di due: si aveva comunque la sensazione che la sola battaglia importante fosse quella che contrapponeva la propria parte (e quella dei propri alleati) a tutte le altre. Per questo motivo le guerre di quel secolo, di per sé indistinguibili sul piano dei motivi da quelle degli altri secoli, sono globali: se a vincere ci deve essere solo una parte tanto vale allearsi con la parte che col nostro aiuto può diventare la più forte.
La novità del XXI secolo è che l'universalità del Metodo Scientifico è entrata in una crisi irreversibile. Non nel senso che i successi della scienza siano diventati meno reali o meno importanti, ma nel senso che questi successi non indicano più un punto d’arrivo, neanche provvisorio, in un percorso ideale di avvicinamento alla Verità. Perché è proprio l’esistenza di una sola Verità (ma non di differenti verità parziali), che non è più una convinzione condivisa; di conseguenza non può più esserci un unico cammino verso di essa. Il post-modernismo è nient’altro che il riconoscimento di questa condizione (Jean-François Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, 1979). Il segno principale di questa condizione è la consapevolezza che il nostro essere immersi nella storia non ci permette più di credere nelle grandi narrazioni (illuminismo, idealismo, marxismo) che hanno caratterizzato l’epoca moderna, cioè l’epoca della rivoluzione scientifica.
Non possiamo più credere ad alcuna grande narrazione proprio perché la rivoluzione scientifica (ho scritto altrove che è un termine impreciso, ma credo che ci intendiamo) ha avuto successo. Poiché questo successo rafforza la convinzione che ogni realtà esterna a noi si riduce, in linea di principio, a quello che la scienza può dirci di essa, allora il modello di ogni spiegazione può essere soltanto quello razionale, oggettivo e soprattutto univoco della scienza. Verso la fine dell'ottocento, quando la termodinamica e la teoria elettromagnetica della radiazione hanno raggiunto la meccanica classica come pietre angolari della nostra comprensione scientifica della natura, era chiaro che nel mondo c'era spazio soltanto per un’unica grande narrazione: che si trattasse del criticismo kantiano o della filosofia hegeliana, magari nella sua versione marxista, era in fondo molto meno importante del fatto che fosse una narrazione onnicomprensiva, quindi unica. Quello che contava era infatti il principio che narrazioni diverse, anche soltanto nei dettagli (anzi soprattutto solo nei dettagli, in quanto possibili rivali), potevano venire tollerate ma mai accettate in condizioni di parità. 
Il meccanicismo ottocentesco aveva appena celebrato i suoi trionfi che cominciavano ad aprirsi le prime crepe che avrebbero rapidamente portato alla sua dissoluzione: il problema della radiazione del corpo nero e l'effetto fotoelettrico. L'unicità del suo modello di spiegazione era già stata contestata da Nietzsche. Più tardi alle sue critiche si sono aggiunte quelle di Heidegger, tanto che per molti è ormai un luogo comune l'affermazione di Gianni Vattimo che dopo Nietzsche e Heidegger credere a un unico racconto oggettivo dell’intera realtà è impossibile. Ma le loro critiche sono state recepite da larga parte della cultura del novecento come dirette contro la scienza tour court, e quindi non sono servite per stimolare gli scienziati a un utile e necessario confronto. Tanto più dopo la famosa frase di Heidegger, certo spesso male interpretata, "la scienza non pensa". Sarebbero invece state molto più utili le riflessioni di Franz Rosenzweig (La stella della redenzione, 1921) se fossero state capite a suo tempo. Ma su Rosenzweig torneremo in un altro articolo.
In realtà le basi per un effettivo dialogo c'erano già tutte, a partire dalla considerazione che, in fondo, la crisi di una visione unitaria della cultura nasceva proprio dai trionfi scientifici e tecnologici che avevano messo in crisi il meccanicismo ottocentesco ma qualificano il ventesimo secolo come il primo veramente e pienamente scientifico. Purtroppo però, gli scienziati che hanno reso possibili questi trionfi, i fisici in primo luogo, non hanno avuto né il tempo né l’interesse necessari per valutare le conseguenze dell’impossibilità di un unico racconto oggettivo della realtà. Troppo occupati a creare nuova e grande scienza, dalla relatività alla meccanica quantistica, dall’astrofisica alla biologia molecolare, hanno scambiato i loro successi, grandi ma sempre parziali, per la conferma della verità assoluta del cammino che stavano percorrendo. Avessero avuto meno successi forse ne avrebbero valutato meglio le ripercussioni sul piano culturale, e invece di appoggiare implicitamente dissennate politiche di crescita economica illimitata (a spese dell’ambiente), si sarebbero posti il problema di contribuire alla definizione di politiche di sviluppo contenibile.
Così come sono andate le cose, invece, anche il XX secolo è stato, per quasi tutta la sua durata, il secolo delle certezze (e quindi delle guerre mondiali e dei genocidi). È stato necessario arrivare alla scoperta della categoria dei fenomeni complessi perché gli scienziati cominciassero a convincersi, a fatica e malvolentieri, di quattro novità rivoluzionarie:
1) Il grande e solido edificio che avevano creduto di costruire sulla roccia del Metodo Scientifico è in realtà un insieme di strutture separate, tenute assieme da connessioni flessibili, per di più semplicemente poggiate sulla sabbia.
2) Peraltro questo insieme è di gran lunga più stabile, anche e proprio in quanto insieme di strutture differenti, della struttura unica originale. Non ha infatti alcun problema sia per riorganizzarsi secondo nuove esigenze che per incorporare nuove conoscenze. La fecondità dei tanti campi di ricerca interdisciplinare che si sono aperti negli ultimi vent’anni è una chiara dimostrazione di questa capacità.
3) Il prezzo da pagare per avere questi vantaggi è la rinuncia all’illusione che l’indagine scientifica dei fenomeni sia indipendente dal punto di osservazione. La validità dei risultati diventa così dipendente dall’osservatore, e l’oggettività assoluta della scienza diventa un’oggettività relativa.
4) Peraltro proprio questa rinuncia alla difesa a tutti i costi di un’oggettività ormai indifendibile consente di affrontare con successo problematiche da sempre inaccessibili quali quelle dei sistemi complessi.
Queste quattro novità ci portano diritto al cuore della complessità del reale. Perché la realtà, quale ci viene ora svelata dallo studio dei sistemi complessi, è sempre strutturalmente complessa, cioè irriducibile a ciò che si vede da un unico punto d'osservazione. Dobbiamo riconoscere esplicitamente che non esistono soluzioni valide per tutti i tempi e tutti i contesti e che comunque la soluzione di ogni problema dipende dall’impostazione che decidiamo di scegliere per risolverlo. Solo con questo riconoscimento esplicito ci si può davvero rendere conto del carattere di rivoluzione copernicana (al contrario) che si determina con l’inclusione del punto di vista dell’osservatore come criterio essenziale nella definizione di fenomeno complesso. La consapevolezza di questo stato di cose è di gran lunga preferibile al far finta che niente sia accaduto, o al procedere dando per scontato che i grandi progressi che le tecniche per lo studio della complessità hanno permesso di ottenere nella fisica in senso stretto valgano soltanto nel loro contesto immediato e non abbiano alcuna conseguenza al di fuori di esso, tanto meno di carattere rivoluzionario.
Invece di una vera rivoluzione si tratta, con conseguenze di grande rilevanza in tutti i campi dello scibile umano. Tuttavia il suo annuncio non viene proclamato neanche da chi è ne è perfettamente consapevole. La gran parte degli scienziati è infatti riluttante a farlo per motivi pratici, che si possono capire anche senza condividerli, legati all’immagine pubblica della scienza e ai criteri usualmente praticati nella distribuzione dei fondi pubblici per la ricerca. Ma anche nel campo delle scienze umane, cioè di coloro che avrebbero maggior interesse al suo svelamento, si assiste a un silenzio quasi generale. È vero che in questo caso possono esserci obbiettivi problemi di comprensione dell’ampiezza di questa rivoluzione, ma è forse più probabile che una visione ancora ottocentesca del ruolo della scienza faccia ancora comodo a tanti.
Consideriamo ad esempio l’atteggiamento della gerarchia vaticana riguardo a questioni fondamentali come la veridicità storica dei vangeli. Non c’è dubbio che esista fra gli esegeti, cattolici compresi, un consenso praticamente totale sul fatto che i vangeli siano opera teologica e che da essi solo con molta circospezione possano essere ricavate informazioni sulla vita del Gesù storico. Perciò dire “vero come il vangelo” non è, o non dovrebbe più essere, sinonimo di una verità non soggetta a interpretazione. Di conseguenza il fatto che la scienza non possa più pretendere per le sue verità uno status assoluto dovrebbe essere accolto positivamente da qualunque confessione religiosa che intendesse difendere in un confronto aperto con la scienza il valore di verità anche della propria fede. La gerarchia vaticana invece non solo non incoraggia la diffusione di questa notizia tra i semplici fedeli (e non è credibile che la ignori), ma al contrario fa leva sulla presunta assolutezza di problematiche leggi “naturali” (dichiarate cioè tali dalla chiesa) per far passare le posizioni più indifendibili.
Ma la gerarchia vaticana può essere legittimamente giudicata un obiettivo troppo facile. Consideriamo allora un obiettivo apparentemente impossibile da giudicare negativamente: la difesa del principio della separazione dei poteri che viene fatta dai sostenitori della modernità incompiuta o tradita. Anche in questo caso non c’è dubbio che l’assolutezza del principio della separazione dei poteri sia, nelle democrazie occidentali, un cardine imprescindibile per una democrazia compiuta. Tuttavia questo principio non opera da solo: sullo stesso piano e per lo stesso scopo operano anche altri principi quali ad esempio la libertà di espressione, la libertà di voto e l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ma un insieme di principi ragionevolmente ampio per garantire una democrazia compiuta implica di necessità l’esistenza di un contesto nel quale la loro attuazione possa essere concretamente verificata: la situazione attuale della democrazia italiana fornisce un evidente esempio delle gravi distorsioni che possono verificarsi quando i principi si scontrano con supposte esigenze di efficienza o con pretese volontà popolari. Di qui la necessità che il contesto sia incluso in ogni valutazione di un sistema normativo.
Il problema è che una più efficace retorica politica (meglio se con l’aiuto di un poderoso supporto mediatico) può servire a far vincere le elezioni anche in assenza di programmi difendibili in un pubblico contradditorio. Ma gridare al conflitto di interessi del premier come spiegazione delle sconfitte è semplicemente ridicolo: a parte il grave errore, se di errore si è trattato, di non aver fatto passare quando si poteva una legge sul conflitto di interessi, è speranza vana quella di garantire una vita democratica facendo affidamento solo su disposizioni legislative. Le leggi si possono sempre interpretare come conviene a chi detiene il potere reale, e il potere è proteiforme: una volta era quasi solo quello delle armi, poi si è aggiunto quello della capacità di mobilitare grandi numeri di persone, ora quello del denaro è certamente il più forte. Il sapere invece non è mai stato un potere in sé, ma al massimo uno strumento in più. Di conseguenza in politica sperare di vincere, anche in una democrazia compiuta, solo per il fatto di aver migliori ragioni, vuol dire esser ciechi alla complessità della realtà. 
Siamo quindi ritornati alla complessità del reale. Esserne consapevoli significherebbe che, anziché partecipare a guerre distruttive tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia, tra amore e odio, magari tradendo i propri stessi principi pur di prevalere, si può ora scegliere di confrontare le proprie idee e le proprie posizioni con altri punti di vista senza l’assillo di doverne difendere a tutti i costi la compatibilità con un principio di unicità della verità che più che sbagliato oggi si rivela manifestamente superfluo. Perché quando si capisce che non c’è, e non ci può essere in generale, un punto di vista oggettivo valido per tutti gli osservatori, si può capire anche che si può essere uniti dall’amore per la vita nonostante differenze di lingua e di cultura, o dalla fede religiosa nonostante differenze nei credi, esattamente come l’amore per lo sport unisce pur nelle varie tensioni agonistiche. 
Questa prospettiva può sembrare utopica se si continua, anche inconsapevolmente, a pensare con gli schemi della modernità, cioè rimanendo nell’ambito della propria narrazione della realtà, qualunque essa sia, senza aprirsi all’accettazione dell’altro da noi, cioè alla vita reale. Può invece diventare realistica se si procede a costruire una nuova cultura, e se lo si fa partendo da e utilizzando i materiali della vecchia cultura, pur rovesciandone la visione del mondo. Quasi un secolo fa Rosenzweig, in Credere e sapere, parlando della distanza dei principi ideali dalla vita reale scriveva: «La differenza del regno dei cieli rispetto agli “ideali” è appunto che esso non sta di fronte alla vita, bensì dalla parte della vita e soltanto perciò esso sembra così meno lindamente lavato degli ideali sempre puliti perché mai venuti in contatto con la vita. [Il regno dei cieli] possiamo ancora riconoscerlo benissimo nella vita e tuttavia rimane nostro compito di rivitalizzarlo continuamente. Come? Vivendo. E rimane sempre compito di Dio produrlo (come? donandoci la vita), del Dio che non si lega ad alcuna forma, neppure alla propria». E ancora: «A partire dal sapere, la fede non è afferrabile, ma a partire dal credere è afferrabile il sapere: per esempio, la legge di natura a partire dal miracolo della creazione, l’evoluzione a partire dalla rivelazione, la libertà dell’azione a partire dalla preghiera, gli ideali a partire dal regno di Dio, ecc. … Il sapere dubita di tutto, il cogito ergo sum non va mai abbastanza in là. Affinché il sapere abbia qualcosa di cui non dubitare, gli deve dare qualcosa la fede.» Sono le parole di un grande pensatore che ha dedicato la propria vita al superamento della divisione tra ebraismo e cristianesimo, pur nel mantenimento e anzi nella valorizzazione delle differenze. Il suo esempio e il suo insegnamento sono oggi particolarmente attuali.

Gianni Mula

 

Un confronto sui temi dell'articolo fra l'autore Gianni Mula e  Fabio Painnet Blade. 

Caro Fabio, 

grazie per il commento e l'interesse, e andiamo subito al sodo, ignorando il sarcasmo, che è peraltro, almeno nelle forme che hai usato, una forma di dissenso perfettamente accettabile.
Tu sembri attribuirmii il  "principio della verità multi-prospettica o della complessità troppo ‘complessa’ per essere univocamente riconosciuta" e sostieni che "tutti noi concepiamo l’idea che ogni sforzo profuso dall’umanità nel secolare processo di acquisizione della Conoscenza, sia stato e sia tutt’ora finalizzato ad un solo ineluttabile scopo: quello di ottenere la prevedibilità dei fenomeni. What else ? A cos’altro servirebbe altrimenti la rinomata e costosa Scienza moderna se non a risolvere problemi più impellenti che tormentano l’umanità?". A parte il fatto che io non ho mai detto né pensato frasi vuote di contenuto come quelle che mi attribuisci, l'alternativa che tu proponi come punto di partenza mi sembra almeno altrettanto vaga e fumosa. Pertanto non sono in grado né di rispondere a qualche tua obiezione, perché non mi riconosco in niente di quello che credi di leggere nei miei post, né di iniziare un confronto a partire dalle tue osservazioni, perché non sono interessato al cazzeggio  intellettuale che inevitabilmente risulterebbe da un dialogo fra sordi.
Certo si potrebbe iniziare un dialogo a partire dal criterio che "Se è vero che per ogni problema possono esistere diversi approcci è altrettanto vero che dobbiamo ritenere efficaci solo quelli che portano ad una medesima soluzione", perché questo sembra un punto di partenza ragionevole. Purtroppo non è né particolarmente nuovo né particolarmente promettente. Pensa soltanto alla vaghezza del concetto di efficacia ed al fatto che non sta scritto da nessuna parte che siamo costretti, non si sa da chi, a scegliere per un dato problema un'unica soluzione. 
Infine mi rimane del tutto misterioso perché, e in che senso, quello che dice e scrive Alberto Maggi, che conosco bene e apprezzo molto, sarebbe in dissonanza con quello che dico e scrivo io.
Cordialmente
Gianni Mula
 
PSIl numero che compare nei post del sito ildialogo.org è quello dei commenti, non quello degli accessi. In ogni caso non preoccuparti della possibilità che i miei post siano poco letti.  Se non ti piacciono per qualunque ragione puoi benissimo non leggerli. 
 
 

Questo il testo della lettera di  Fabio Painnet Blade.

Il giorno 30 giugno 2011 20:22, <XXXXXXXXX@email.it> ha scritto:
Gentile Gianni Mula, nell'impossibilità d inviare un commento al suo articolo 'Quando il sapere si scopre complesso' (per n malfunzionam già segnalato al responsabile del sito IL DIALOGO) mi trovo costretto a sfruttare questo recapito.
  Provo allora a dire la mia sulla complessità, su quella di cui ci parli nei tuoi articoli, per lo meno. Ritengo stia producendo un buon lavoro sul sito del ‘DIALOGO’ e considero gli argomenti che ci proponi di una certa attualità e perfino di comune interesse. Dico ‘perfino’ perché la forma o ‘il taglio’ che scegli in realtà non comunica granché. Essi insomma sembrano un prodotto ad uso e consumo di una ristretta platea di esperti, studiosi o semi studiosi e se pure quel Michele, che ti risponde in solitaria, dovesse essere uno di loro, bhè al posto tuo comincerei a preoccuparmi.
  Spero possa tollerare senza problemi un po’del mio sarcasmo da quattro soldi. Insomma volevo solo dire che dovresti fare uno sforzo in più, perché i temi vanno ‘alla grande’, e in un certo senso dovremmo dibatterli e farci coinvolgere tutti, ma la forma, pur con tutta la buona volontà, è davvero impenetrabile ai più,.
   Venendo al dunque, ti vorrei richiamare sul principio della verità multi-prospettica o della complessità troppo ‘complessa’ per essere univocamente riconosciuta, e a tutte quelle battute (nei punti 1,2,3)che si onorerebbero d’esser pronunciate da un filosofo piuttosto che da un fisico:
1) La verità assoluta non esiste
2) Per ogni problema esistono diversi approcci
3) I risultati non possono essere assoluti, in quanto dipendenti da scelte iniziali.
Parto dal basso – Come sarebbe a dire: i risultati non possono essere assoluti? Quale sarebbe il principio ultimo del faticoso procedimento di acquisizione del Sapere allora? Il trasformismo (e tralascio il facile appellativo politico più in voga del momento)? L’insindacabilità dell’opinione accademica (tu stesso ne denunci i rischi se non sbaglio)?
Caro Gianni (consentimi il ‘caro’), tutti noi concepiamo l’idea che ogni sforzo profuso dall’umanità nel secolare processo di acquisizione della Conoscenza, sia stato e sia tutt’ora finalizzato ad un solo ineluttabile scopo: quello di ottenere la prevedibilità dei fenomeni. What else ? A cos’altro servirebbe altrimenti la rinomata e costosa Scienza moderna se non a risolvere problemi più impellenti che tormentano l’umanità? Il tuo simpatico e poco accessibile criterio odora un po’ di sofismo illuminista, a mio avviso.
Le implicaz teologiche te le voglio risparmiare, tuttavia, piuttosto che persistere nell’utilizzo di questo basso espediente retorico, vorrei più semplicemente domandarti che rapporti intrattieni con i lavori di padre Alberto Maggi, di cui riconosco la fisionomia sulla front-page del vostro interessante sito. Ecco che intendo: l’idea che l’opera di p.Maggi si ponga in dissonanza con quanto si afferma nei tuoi articoli, l’ho maturata da poco tempo, per essere sincero devo ringraziare la paziente disponibilità dell’amico Beppe di Torino (Assoc. Chicco di Senape) e di Efisio da Cagliari. Ma questa mia – e non solo mia – convinzione (quella di una Verità non interpretabile e di una Scienza che ‘risolve’ i problemi..), prende spunto dal tentativo di valutare i documentatissimi libri di Maggi, e il suo ‘metodo’ teologico, come un codice decriptato di un messaggio evangelico che vorrebbe rive larsi essenzialmente unidirezionale (i protestanti non sarebbero d’accordo, forse). Non so che ne pensi, tuttavia a me pare già assurdo che i risultati di un problema non debbano congiungersi in un’unica positiva valenza ( predittiva, s’è detto). Ecco, ciò basta a sconfessare quanto affermato, riguardo il senso multiprospettico delle cose e perciò dei fenomeni. Mi sento di completare quindi il tuo pensiero proponendolo in un'altra forma: Se è vero che per ogni problema possono esistere diversi approcci è altrettanto vero che dobbiamo ritenere efficaci solo quelli che portano ad una medesima soluzione, la verità pertanto non potrà sottrarsi alla necessità di essere unica e unanimemente condivisa se vorrà ritenersi tale… neo sofismi permettendo, ovviamente.
Ebbene, se in definitiva provassimo a considerare le generalizzazioni precedenti come esigenza di un itinerario pervio a tutte le branche dell’analisi e della ricerca scientifica (penso alla matematica, alla medicina, alle dottrine sociologiche etc.), potremmo effettivamente riscuotere maggiori attenzioni e i tuoi articoli avrebbero occasione di migliorare sensibilmente quella cifra tristissima che compare nella casella degli accessi. Fabio Painnet Blade.
 
P.S. L’articolo ‘Mondo e profezia’ racchiude un’ autenticità e una delicatezza d’altri tempi, ma anche là, c’è un’equazione di fondo quantomeno acrobatica, che mi piacerebbe aver modo di commentare con più calma.

 



Lunedì 17 Gennaio,2011 Ore: 10:20
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
michele perrotti cagliari 19/1/2011 19.11
Titolo:Tuo ultimo "articolo".
Caro Gianni,se fossi un ipocrita direiche mi e' piaciuto moltissimo,ma sicome non credo di esserlo,debbo sinceramente confessarti che per la gran parte di esso non mi e' stato certamente agevole neppure leggerlo...!!!!Comunque ti ringrazio per averlo scritto e proposto!!!!
Autore Città Giorno Ora
Gianni Mula Cagliari 21/1/2011 23.47
Titolo:Complicato o complesso?
Caro Michele,
davvero molte grazie per il tuo commento, anzitutto per aver deciso di farlo sul sito, poi per la franchezza con la quale esprimi una valutazione oggettivamente negativa della maniera con la quale l’articolo è scritto. L’ho riletto, mi pare che tu abbia più di una ragione per lamentarti e cercherò di essere più facilmente leggibile nei prossimi articoli. Il guaio è che è più facile dirlo che farlo perché in questa serie di articoli io dico sempre sostanzialmente la stessa cosa, pur in tante salse: la verità assoluta non esiste ma questo non implica abbandonarsi al nichilismo. Infatti per ogni problema non banale possono esistere diverse (poche, non infinite) maniere di affrontarlo, tutte ugualmente legittime. E i risultati dipendono dalle scelte iniziali, quindi non possono essere assoluti. Questo infatti si è verificato in matematica come in fisica come in tanti altri campi, teologia compresa, senza che questo abbia mandato all’aria nessuna disciplina.
Consideriamo per esempio l’attuale crisi politica italiana: perché, di fronte all’evidente degrado morale dei vertici della politica nazionale, non assistiamo a un’ondata di indignazione che li travolga? Perché c’è una grave crisi economica, o perché la cosiddetta opposizione non è mica meglio, o perché la chiesa ammonisce che la governabilità è comunque un valore, o perché finché c’è lui si mangia? Per tutti e per nessuno di questi motivi, perché in tutti c’è del vero (sì anche nell’ultimo, ma non ho voglia di spiegarlo), ma la causa più importante è la paura di uscire dal coro, perché siamo condizionati dall’idea che esista in assoluto una sola maniera giusta e non sappiamo quale sia.
Cosa c’entra la complessità con questo discorso? Che la soluzione dipende dal punto di vista dal quale ci poniamo. Io sono convinto che ciascuno deve fare le cose che ritiene giuste, ed esserne ovviamente responsabile. Così chi ritiene che Berlusconi deve andare a casa deve avere il diritto di dirlo anche se non è in grado di prevedere che cosa succederà dopo, anche perché comunque quello che succederà dopo non lo sa nessuno. Né sul piano economico né su quello politico. Così chi ritiene che il ricatto di Marchionne sia inaccettabile per motivi etici, prima ancora che economici, deve avere il diritto di dirlo senza essere accusato di moralismo. Ma anche gli operai di Mirafiori vittime del ricatto hanno tutto il diritto di votare a favore dell’accordo se temono (giustamente) per il loro posto di lavoro: chi sbaglia sono i tanti che anziché rispettare le scelte degli operai, qualunque esse siano, ritengono verità assolute le leggi dell’economia, collaborando di fatto al ricatto. Se ci pensi, che un’economia possa crescere sempre è una cretinaggine anche se detta da sedicenti professoroni.
Non so se sono riuscito ad essere più chiaro, ma ci ho provato. Se però tu ritenessi insufficiente il risultato non esitare a farmelo sapere e a porre le domande che ti vengono spontanee, senza preoccuparti di abbellirle. Far domande è l’aiuto migliore che si può dare a chi scrive di cose complesse. Ti ringrazio in anticipo.

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