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www.ildialogo.org Il nuovo tradimento degli intellettuali,di Gianni Mula

Il nuovo tradimento degli intellettuali

di Gianni Mula

Gianni Mula Si dice spesso che la società italiana stia attraversando una crisi di sistema. In realtà si tratta di una crisi culturale generale, di tutta una cultura che diventa autoritaria perché non riesce ad essere autorevole. E non riesce ad essere autorevole perché un’ipocrisia devastante corrompe i comportamenti individuali e collettivi: fa giustamente scandalo la compravendita di un pugno di deputati ma non fa scandalo quella, molto più grave, estesa e prolungata nel tempo, di caterve di monsignori e di intellettuali di grande prestigio mediatico. Siamo una società polarizzata attorno alla finta alternativa Berlusconi sì, Berlusconi no, a cui ci aggrappiamo per sottrarci alla responsabilità di fare scelte concrete sul sistema elettorale, sulla distribuzione del carico fiscale, sull’organizzazione dello stato e dell’economia. Soprattutto siamo diventati una società che ha paura del futuro: non sto parlando solo delle nere prospettive con cui si confrontano le nuove generazioni, ma dell’egoismo e della cecità di ceti sociali che galleggiano in un benessere costruito sull’arraffare senza regole e senza riguardi per niente e per nessuno, e improvvisamente scoprono atterriti che negli anni a venire dovranno fare qualche rinuncia.
In questi giorni Francesco Sylos Labini ha aggiunto opportunamente che siamo una società che ha paura del futuro perché si sente immersa nel vuoto: “È un vuoto che si trova soprattutto intorno a tutti quanti quelli che hanno alzato la testa per vedere se ci sia qualcuno all’orizzonte che li ascolti, che li rappresenti, che capisca le ragioni di un malessere che non è solo generazionale ma che diventa ogni giorno più trasversale in ogni direzione lo si guardi e lo si consideri. È il vuoto che si legge negli editoriali dei grandi giornali dove i ragionamenti partono da basi irreali e sfociano in considerazioni sbandate. È il vuoto che sta intorno al sindacato che cerca di arginare il malessere, ma vi si trova sommerso da ogni dove.” (blog su ilfattoquotidiano.it)
In queste condizioni parlare del nuovo paradigma della complessità nell’ambito delle scienze umane potrebbe sembrare una via di fuga dalla politica. Ma non lo è, perché analizzare la cultura della società contemporanea alla luce del nuovo paradigma è probabilmente l’unico modo per aiutare la società a fare i conti con i problemi veri, che ci sono, e a distinguerli da quelli falsi, quelli che qualcuno ha interesse a far credere che esistano.
I falsi problemi sono quelli legati alle leggi, che si suppongono esistere ed essere intangibili, della natura e della vita associata: dal mito del libero mercato a quello della necessità di diminuire le tasse, dal mito dell’inefficienza del pubblico a quello dell’efficienza del privato, dal mito della meritocrazia a quello dell’indisponibilità della propria vita, dal mito dello stato (ridotto a essere un altro nome del governo in carica) a quello della democrazia (ridotta a momento elettorale, e in pratica neanche a questo). La crisi nella quale ci troviamo è essenzialmente culturale proprio perché non si trova più quasi nessuno, non solo e non tanto in un’opposizione inguardabile, ma in strutture e ceti sociali come l’accademia, la stampa e la televisione, l’imprenditoria e i sindacati, e perfino (o meglio in primis) la chiesa, che sia capace di un discorso di un pur minimo respiro culturale, nel quale questi miti vengano demistificati e ridotti a verità sempre parziali e dipendenti dal contesto.
A poco più di 80 anni di distanza dal pamphlet di Julien Benda (La trahison des clercs, 1927) ci troviamo dunque di fronte a un nuovo tradimento degli intellettuali. Benda, in un tempo nel quale il concetto di Verità già cominciava a mostrare delle crepe, denunciava l’abbandono da parte degli intellettuali della loro vocazione ad essere guardiani della Verità e del suo carattere assoluto. In sostanza li accusava di non essere all'altezza di grandi figure di ogni tempo quali Socrate, Gesù, S. Tommaso, Cartesio, Pascal, Spinoza, Newton, Kant e di sacrificare la Verità assoluta ad effimere convenienze politiche o ideologiche. Questo nuovo tradimento riguarda invece l’incapacità, o il rifiuto, degli intellettuali di oggi di denunciare l'incoerenza tra i proclami dei politici e i loro comportamenti pratici. Ed è tanto più devastante    in quanto nessuno li obbliga a questo silenzio, se non le proprie personali convenienze e la paura di assumersi delle responsabilità, cioè la paura di mostrare il vuoto che si ha dentro.
Tutto è piegato alle convenienze del giorno. Prendiamo questa frase (dichiarazione del ministro del lavoro Maurizio Sacconi, 27/12/2010): «I giovani sono particolarmente esposti alla disoccupazione soprattutto perché pagano il conto di cattivi maestri e qualche volta di cattivi genitori che li hanno condotti a competenze non richieste dal mercato del lavoro». Detta al bar con gli amici è una frase come un’altra, che aiuta a passare il tempo dando la sensazione di aver qualcosa da dire. Ma detta dal ministro del lavoro in carica equivale a dire ai giovani in cerca di lavoro che lavoro non ce n’è per colpa dei loro genitori che li hanno fatti studiare oppure per colpa dell’opposizione che insiste a creare difficoltà. Poiché sono ormai molti anni che l’opposizione latita e che i laureati lavorano presso i call center, la frase fotografa una situazione in cui al potere non è l’immaginazione, come si diceva nel ’68, ma l’incompetenza e l’irresponsabilità. E questo è certamente un problema vero, anzi la sorgente di tutti i problemi.
Si dirà, anche giustamente, che questo particolare ministro non è un’intellettuale. Ma il fatto è che occupa un posto che richiede le competenze generiche di un’intellettuale piùaltre competenze, e che la sua condizione di incompetenza e di irresponsabilità è condivisa dalla totalità o quasi di coloro che ricoprono funzioni pubbliche di nomina governativa. Che solo pochissime voci si siano levate a denunciare ad alta voce questo stato di cose è il segno più evidente di quel vuoto di cui parla Sylos Labini. Può essere illuminante fare il confronto con quello che è successo nei vari campi disciplinari dopo la scomparsa del Metodo Scientifico. I matematici hanno continuato a far matematica creativa anche dopo che i teoremi di Gödel sembravano aver tolto loro il terreno sotto i piedi. I fisici hanno continuato a far fisica (e che fisica: la relatività, la meccanica quantistica, le nanotecnologie) anche dopo il crollo del meccanicismo ottocentesco. Analogamente è successo per la chimica e la biologia. L’informatica prospera nella zona di confine tra matematica e fisica teorica pur incorporando appieno i paradossi dell’una e dell’altra. Perché nelle scienze umane questo non è accaduto? Perché non hanno saputo appropriarsi del nuovo paradigma della complessità?
Il nuovo paradigma è fondato sulla consapevolezza dell’irraggiungibilità in linea di principio, e non solo in pratica, della Verità assoluta. Nelle scienze della natura l’accettazione di questo dato di fatto consente di perseguire le verità parziali, le sole davvero fruibili da parte di esseri limitati nel tempo e nello spazio. Come risultato abbiamo avuto il fiorire di tanti campi interdisciplinari grazie ai quali la nostra capacità di intervento sulla natura e sui fenomeni socioeconomici è diventata realmente strabiliante. Nelle scienze umane, invece, assistiamo all’incapacità di perseguire le verità parziali, col risultato che la nostra società non riesce a utilizzare quelle capacità strabilianti a beneficio dell’intero genere umano, ma solo di una sua parte molto piccola.
La cosa sorprendente è che non è il nuovo paradigma a fare differenze fra le varie discipline: una volta che ci si libera del pregiudizio che la Verità assoluta non solo esista (il che è un’opinione legittima), ma sia in linea di principio raggiungibile attraverso il Metodo Scientifico, (il che è un’affermazione di ormai provata inconsistenza), non esiste più alcuna ragione per riservare alle discipline scientifiche il privilegio di essere le sole a poter essere portatrici di verità. Che si parli di politica economica o di diritti umani inalienabili adottare il paradigma della complessità significa prendere atto che i soli accordi possibili tra persone con storie culturali differenti sono sempre parziali e provvisori, e che questo fatto non è un limite da superare ma una condizione umana da accettare. Non c’è niente di più umano che l’ammissione dei propri limiti in quanto essere umano (o in quanto creatura, per i credenti. Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, ma non siamo Dio).
Questo non significa che un economista liberista deve rinunciare alle sue idee, o quello a favore dell’intervento dello stato alle sue, e neanche che un credente deve rinunciare alla sua fede, o un ateo ai suoi principi di laicità. Non significa neanche che uno dovrebbe riservare al privato le sue convinzioni personali ed esprimersi pubblicamente solo in maniera approvata. Significa invece che ogni confronto deve avvenire alla luce del sole, senza mai violenza neanche verbale ma anche senza alcuna autocensura, provando sempre a porsi dal punto di vista dell’interlocutore e cercando di valutare, punto per punto, le conseguenze del possibile accordo su tutti quelli che saranno chiamati ad applicarlo (o a sopportarlo).
Questo in teoria. Purtroppo in pratica ogni problema è sempre colpa dell’altro che non la pensa come noi, che non capisce perché ciascuno non possa essere padrone a casa propria o perché si debba fare diversamente da come si è sempre fatto, ecc. ecc. Ma questo succede perché nel campo umanistico chi fa le leggi non è quasi mai chi le subisce: anche chi le fa a nome del popolo se dovesse applicarle davvero a se stesso le farebbe in maniera ben diversa. Qui sta la differenza principale tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche: nelle prime le regole vanno trovate assieme, implicitamente o esplicitamente, perché non hanno senso al di fuori della comunità degli scienziati. Perciò non sono mai il frutto di un’imposizione ma un sancire la prassi più efficace e promettente tra quelle di cui si discute. In ogni caso chi dissente può liberamente scommettere il proprio tempo e le proprie risorse per perseguire linee innovative ma non ancora ben definite. Nelle seconde invece le regole sono canoni, precetti o principi normativi, che quando va bene sono frutto di decisioni a maggioranza ma sono sempre costrittivi per i destinatari, che nella pratica non coincidono quasi mai con i legislatori.
È quest’implicita aspirazione alla coercizione che porta alla frammentazione del campo umanistico in mille chiese in conflitto tra loro. È così che si arriva al vuoto di cui parla Francesco Sylos Labini. Chi alza la testa cercando di segnalare i propri problemi non trova nessuno che lo ascolti, chi legge gli editoriali dei grandi giornali cercando punti di riferimento non vi ritrova la propria esperienza, chi cerca di farsi carico dei problemi degli altri non trova collaborazione.
Ma il mondo cambia e chi non vuole accorgersene finirà per capirlo a proprie spese. Per stare sul concreto faccio il caso della politica di fronte a un problema controverso come quello delle politiche agricole comunitarie e cito da un articolo di Carlo Petrini (Repubblica 28/12/2010) nel quale si parla delle linee guida della politica agricola dell’Unione europea e in particolare della loro ricezione: «In Francia, ad esempio, si costruisce non solo identità e comunicazioni, ma anche significativi pezzetti di economia, sulla competenza diffusa a proposito di agricoltura; negli anni più recenti il movimento della società civile si è coagulato proprio intorno a un sindacato contadino che, nel bene e nel male, non ha consentito che si smettesse di parlare di agricoltura nelle case, nei bar, sui giornali, anziché solo nelle “sedi deputate”».
Non saprei trovare maniera migliore per esemplificare con efficacia come può essere possibile fare un uso creativo ed efficiente di verità parziali nell’ambito delle scienze umane. Petrini non condivide necessariamente tutto quello che quel sindacato contadino ha fatto. Dice esplicitamente nel bene e nel male: quale miglior esempio di verità parziali? Ma evidenzia anche l’azione di un sindacato che, non consentendo che nella società civile si smettesse di parlare di agricoltura, si è posto come centro di coagulazione di un movimento molto più ampio della propria cerchia di aderenti. Un sindacato che ha saputo spiegare le proprie verità parziali agli altri e c’è riuscito parlandone e facendone parlare nelle case, nei bar, sui giornali, non limitandosi a sollevare il problema nelle sedi ufficiali.
Viene naturale il confronto con l’Italia del movimento contro la cosiddetta riforma Gelmini. Anche da noi solo quando i ricercatori e gli studenti, contro le indicazioni a volte inutilmente attendiste, a volte apertamente fuorvianti, dei partiti di opposizione, si sono visti costretti a muoversi al di fuori dei canali ufficiali del governo e del parlamento, è nato nella società civile un movimento che ha dato risonanza alle loro proteste. Ma il tradimento del nostro ceto intellettuale, che già aveva consentito un primo passaggio al Senato di una versione ancor più impresentabile, non ha purtroppo consentito che si raggiungesse neanche il risultato di convincere il governo a prendersi un minimo di tempo per confrontare la legge con le sue concrete possibilità di attuazione.
L’unico insegnamento che possiamo trarre da questa vicenda è che, sin quando non ci renderemo conto che il mondo nel quale viviamo non può essere diverso da quello che prepariamo per gli altri, non riusciremo a renderci conto dell’anomalia di una polis nella quale chi dà le regole non è obbligato a rispettarle. Gli scienziati l’hanno sempre saputo, i politici e gran parte degli economisti sembra proprio che non se ne vogliano accorgere, in questo molto simili alla gerarchia vaticana, che non a caso appoggia un governo impresentabile perfino per i propri standard di comportamento. In fondo la crisi culturale nella quale ci troviamo è null’altro che l’aver dimenticato l’insegnamento di Luca (11, 46): Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! È certamente una verità parziale, dipendente dal contesto, ma che proprio per questo può essere accettata e capita senza necessariamente essere credenti.
Gianni Mula


Marted́ 04 Gennaio,2011 Ore: 09:27
 
 
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