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www.ildialogo.org Complessità<br>Il nuovo paradigma della scienza,di Gianni Mula

Complessità
Il nuovo paradigma della scienza

di Gianni Mula

Gianni MulaNegli ultimi decenni del secolo scorso il metodo scientifico è stato irrilevante nello svolgimento di ricerche di punta quali quelle che hanno portato al modello standard per le particelle elementari, al modello cosmologico del Big Bang, e ai modelli che vengono usati per la descrizione dei fenomeni critici. Ne ho tratto motivo per auspicare, nell’ultimo post, che la presa di coscienza di questa irrilevanza porti il mondo della scienza e della cultura ad abbandonare una retorica che ormai non può più dare frutti utili.
Si potrebbe discutere se sia cosa saggia enfatizzare a livello divulgativo i limiti del metodo scientifico o se non sia invece preferibile conservare l’uso del termine per indicare la maniera generica di operare che caratterizza gli scienziati, riservando la discussione di questi nuovi sviluppi al confronto fra gli addetti ai lavori. Le preoccupazioni di chi preferisce questa seconda opzione sono sia legittime che importanti, tuttavia io mi sento in sintonia con le tesi che Ulrich Beck ha esposto nel suo libro Potere e contropotere nell’età globale, (Laterza 2010). Beck, parlando della condizione politica del mondo dopo l’undici settembre, dice che l’idea del superamento delle barriere nazionali, che noi ereditiamo dall'illuminismo, può sopravvivere ed essere giustificata in queste mutate circostanze solo se si è disposti a fare i conti sino in fondo con gli aspetti oscuri di quest’idea. Per questo ha paradossalmente ritenuto necessario scrivere una «piccola orazione funebre sulla culla dell’era cosmopolitica». Per motivi analoghi ho ritenuto di celebrare con un necrologio l'ormai manifesta irrilevanza del metodo scientifico, riconoscendone la funzione positiva svolta nel passato ma segnalando esplicitamente i pericoli inerenti al continuarne la retorica nel contesto attuale.
Tuttavia un necrologio non è la sede per parlare di cosa succede dopo l’evento, cioè per parlare della scienza di oggi. La mia tesi è che la complessità è di fatto il nuovo paradigma della scienza contemporanea, un paradigma spesso dichiarato esplicitamente, come si vede dai tanti libri, conferenze e articoli dove la complessità è un’evidente fonte di ispirazione concettuale. In un certo senso molto preciso è come se la scienza, soprattutto la fisica, dichiarasse: abbiamo finito i problemi semplici, d’ora in poi affronteremo quelli complessi. Ma, posto che le cose stiano proprio così, che cosa significa dire che la complessità è un paradigma?
Cominciamo dalla definizione di sistema complesso. La distinzione tra complicato e complesso è molto importante, ma ha a che fare più con quello che si vuole sapere di un sistema che non col sistema stesso. Ad esempio un Boeing 787 è un tipico esempio di sistema molto complicato ma non complesso perché sia nella fabbricazione che nell’uso, le sue parti, per quanto numerose, interagiscono tra di loro solo nella maniera prevista dal progettista. Tuttavia anche un Boeing 787 può essere considerato un sistema complesso se quello che si vuole sapere è per quanti anni continuerà ad essere affidabile se soggetto a regolare manutenzione. In questo caso, infatti, entra in gioco la stabilità dei materiali di cui sono fatte le strutture portanti e con essa le interazioni su scala microscopica che determinano quello che si chiama fatica dei materiali (qualcuno ricorderà che negli anni ’50 i reattori inglesi Comet cadevano per cause di questo tipo). Si è convenuto di riservare il termine complesso ai sistemi nei quali le interazioni fra le parti danno luogo a fenomeni non prevedibili in base alla sola composizione, lasciando il termine complicato per tutti quelli il cui studio può richiedere molto tempo ma arriva sicuramente a conclusione. Questa distinzione di significato è giustificabile perché si tratta di due termini con etimologie diverse (il primo deriva dal latino complecti, che significa abbracciare, l’altro da com-plicare, voce latina dotta che significa piegare assieme).
 C’è poi da chiarire il concetto di paradigma, termine che è stato introdotto nella filosofia della scienza da Thomas Kuhn nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962). Kuhn, come ammette esplicitamente lui stesso nel poscritto alla seconda edizione del libro, ha usato il termine paradigma in due sensi differenti: nel primo, paradigma è l’intera costellazione di credenze, valori, tecniche, ecc. che identificano un’intera comunità di studiosi; nel secondo, paradigma è ogni problema risolto che diventi esemplare per l’intera comunità.
Questa seconda accezione di paradigma, a giudizio di Kuhn, costituisce l’aspetto più nuovo anche se meno capito del suo libro. E ben a ragione, perché è proprio il cambio di problema risolto esemplare che permette di capire, meglio di ogni descrizione a parole, il cambiamento del quadro di riferimento teorico. Così, ad esempio, si passa dalla meccanica classica a quella quantistica sostituendo l'equazione di Newton con quella di Schrödinger e dalla meccanica classica a quella relativistica sostituendo le trasformazioni di Galileo con quelle di Lorentz. Ma quando parliamo di paradigma della scienza in generale parliamo di paradigma nella prima accezione, perché ciò che ha accomunato gli studiosi durante tutti gli stadi dell'evoluzione delle nostre conoscenze da Galileo sino agli ultimi decenni del secolo scorso è stata la convinzione dell’esistenza del metodo scientifico, cioè la condivisione, da parte di tutti, dell’idea che la verifica sperimentale, vera o presunta non importa, fosse l’elemento fondamentale per l’accettazione di ogni nuova conoscenza da parte della comunità scientifica. È in questo senso che il metodo scientifico ha costituito il paradigma della scienza postgalileiana.
A questo punto, avendo fatto la distinzione tra complesso e complicato, e avendo definito con qualche precisione quello che si intende col termine paradigma, cominciamo ad avere un vocabolario minimo per descrivere la condizione dello scienziato di oggi di fronte a un problema nuovo. Prima però, per costruire su un terreno solido, conviene riflettere sulla natura dei modelli di cui parlavo all’inizio, modelli che, pur gettando vera luce su aspetti importanti della nostra comprensione dei fenomeni naturali, sia nella fisica delle particelle elementari che in quella della materia condensata, rivelano già a prima vista di non essere né veri né falsi. In sostanza questi modelli sono quadri coerenti, e certo anche utilissimi, dei concetti usati nella descrizione delle fenomenologie osservate, ma non sono né veri né falsi perché non li si deduce da niente e perché un eventuale insoddisfacente accordo con l’esperienza non li rende falsi ma semplicemente meno utili. In pratica sono l’analogo dei linguaggi specializzati che sono necessari in tutte le discipline, anche quelle umanistiche, per formulare le ipotesi e i giudizi dei quali consta ogni avanzamento scientifico e culturale. Una volta dimostrata l’esistenza di simili quadri di riferimento, e la loro natura infalsificabile, è venuto naturale riflettere su altri modelli teorici esistenti da ben più tempo e concludere che anche loro sono infalsificabili.
 L’esempio più noto, tra questi ultimi, è la teoria dell’evoluzione: teoria che non è né vera né falsa, e che quindi non può essere giustificata dal metodo scientifico, ma che è stata ed è utilissima nel guidare le ricerche sulla biologia animale e nel fornire un quadro organico e coerente ai loro risultati. Certo anche la teoria del Progetto Intelligente non è né vera né falsa, ma il suo problema è che non serve a niente, perché il fatto di supporre che esistiamo per l’azione di un’intelligenza creatrice non permette di dedurre alcunché sulle relazioni tra le diverse forme di vita biologica. Quindi la teoria dell’evoluzione appartiene di diritto alla scienza, mentre quella del Progetto Intelligente solo alla storia del potere vaticano.
Con l’emersione delle teorie né vere né false è venuta meno l’opportunità di continuare a riferirsi al metodo scientifico come garanzia di verità e quindi come paradigma unificante di ogni tipo di ricerca scientifica. Naturalmente altra cosa è il concetto di metodo nell’ambito di singoli e ben definiti campi di ricerca: in questi casi si può tranquillamente continuare a parlare di metodi scientifici da applicare rigorosamente, ma si tratta di discorsi all’interno di ciascuna disciplina che, una volta perso il riferimento a una Verità esterna alla disciplina, ci dicono molto più sullo stato dell’arte delle tecniche di quel campo che non sulla natura dell’oggetto di quelle ricerche. Infatti il concetto di metodi scientifici in questo senso si può applicare anche alle tecniche sviluppate nell’ambito delle discipline umanistiche.
L’elemento nuovo introdotto nella scienza dallo studio dei fenomeni che ora in generale si chiamano complessi è che le risposte da loro fornite non sono più necessariamente univoche. Infatti i modelli che si usano nelle teorie della complessità hanno in generale la capacità di ammettere più di una soluzione ottimale. Ed è in riferimento a questa proprietà generale che possiamo parlare di paradigma della complessità.
Il pluralismo delle soluzioni non è un limite ma la caratteristica più significativa del paradigma della complessità. Infatti è solo all’ombra del vecchio paradigma che prospera l’idea che ci sia sempre, e in tutte le situazioni, una sola risposta valida. Nel mondo reale è invece ben noto che le cose vanno diversamente: non solo nelle questioni di gusto ma anche in quelle di sostanza. Non esiste una sola maniera giusta per organizzare una fabbrica, per fare funzionare un sistema scolastico, per far pagare le tasse, per gestire un’attività economica, per costruire un sistema di assistenza sociale, per pianificare una città, per eleggere un governo, eccetera, eccetera. Il passaggio al paradigma della complessità ci permette di usare la nostra scienza per capire al meglio come funziona il mondo reale, e quindi di difenderci da quei maniaci della verità assoluta che sinora ci hanno costretto a subire fantomatiche leggi naturali nell’interesse di persone e di strutture di potere molto concrete.
Infatti l’idea di progresso connaturata alla convinzione dell’esistenza del metodo scientifico ci ha dato la speranza che le conquiste tecnologiche avrebbero permesso all’uomo di ridurre i suoi tempi di lavoro, di far sparire la fame, la povertà e le malattie, insomma gli avrebbero permesso di essere felice. Ma se la tecnologia resa possibile dal metodo scientifico ci faceva toccare con mano la raggiungibilità di questo obiettivi, al tempo stesso l’obbedienza forzosa a supposte leggi naturali dell’economia e della vita sociale ce ne allontanava, generando il mondo che ben conosciamo, un mondo dove le disuguaglianze aumentano a misura del crescere della globalizzazione, i tempi di lavoro aumentano col progresso tecnologico, fame, malattie e guerre devastano una sempre maggiore quantità di aree della terra, a dispetto del fatto che siamo in grado di produrre cibo per tutti, sappiamo curare sempre meglio le malattie, e le sole cause oggettive di guerra sono quelle che all’interno di ogni nazione oppongono le caste al potere alla popolazione senza potere. Superare il metodo scientifico e passare al paradigma della complessità è un grande passo in avanti soprattutto perché permette a tematiche di questo genere di diventare parte essenziale di una cultura condivisa e di non essere più zona sacra, riservata agli addetti ai lavori. Se nell’aggettivo sacra a qualcuno sembrasse di riconoscere un involontario riflesso anticlericale si tranquillizzi pure: è volontario e pertinente, perché il paradigma della complessità consente di affrontare in maniera analoga le problematiche tipiche di quelle che una volta si chiamavano scienze dello spirito.
Su questo punto torneremo tra poco. Che cosa significa considerare la complessità un paradigma, visto che non abbiamo più neanche un metodo che ci aiuti a costruire le teorie? Significa anzitutto acquisire la consapevolezza che i progressi importanti nella ricerca scientifica non verranno più dal sostituire al problema reale un problema fittizio nel quale le interazioni fra le particelle sono completamente trascurate e il loro effetto complessivo sostituito da una forza esterna. Approssimazioni di questo genere si chiamano approssimazioni di campo medio, e hanno dato spesso risultati in ottimo accordo con l’esperienza, ma non sono, proprio per come sono costruite, in grado di dar conto di effetti imprevisti derivanti non dalle proprietà delle singole particelle ma dalle loro reciproche interazioni. Questo è invece un risultato raggiungibile nel nuovo paradigma, anche se al prezzo di far uso di modelli estremamente elementari che descrivono le singole particelle col minimo di informazioni possibile. Con questi modelli è infatti possibile continuare a tener conto delle interazioni anche per un numero di particelle molto grande e ottenere soluzioni in grado di spiegare gli effetti imprevisti dovuti alle interazioni tra le particelle.
La verifica di quest’approccio nel caso dei fenomeni critici è stato il primo grande successo del paradigma della complessità. Successo che è però stato pagato con la rinuncia all'univocità dei risultati che era la caratteristica fondamentale del paradigma precedente. Il fatto è che quando si fanno approssimazioni così drastiche che lo stesso minimo elemento di informazione matematica (ad esempio un 1 anziché uno 0 in una casella) può significare tante situazioni fisicamente del tutto diverse, come la presenza o l’assenza di un atomo, l’orientamento a favore o contro il campo magnetico di uno spin, l’eccitazione o la non eccitazione di un atomo, la decisione di vendere o non vendere un titolo in borsa, allora è evidente che si sta studiando non un sistema particolare ma un insieme di sistemi di natura e comportamenti molto diversi, accomunati dal fatto che in tutti i casi si studiano fenomeni non deducibili dalle proprietà dei singoli componenti ma causati dalle loro interazioni.
In questo nuovo quadro la fatica dei materiali, l’invecchiamento dei materiali biologici, i crolli di borsa, l’insorgere di rivoluzioni sociali e/o politiche diventano tutti esempi di fenomeni analoghi la cui comprensione diventa possibile nel nuovo paradigma, naturalmente con le caratteristiche che gli sono proprie: anzitutto ogni previsione non potrà essere che indiretta, soggetta cioè alla verifica che il modello studiato colga effettivamente l’essenza del comportamento del sistema reale per il quale si vogliono fare previsioni, e poi le risposte non saranno necessariamente univoche. Ma, posto che il modello usato rifletta abbastanza bene le proprietà del sistema reale di cui si vuole capire il funzionamento, che cosa impedisce che uno stesso tipo di modello possa avere comportamenti tra loro differenti? Forse che una squadra di calcio non può giocare ugualmente bene con una varietà di moduli tattici, un sistema giudiziario non può essere ugualmente equo ed efficiente pur con normative anche molto diverse, un malato non può guarire anche con terapie differenti? Questa è la realtà del mondo che ci circonda, e questa è la realtà che il nuovo paradigma ci consente di descrivere, mentre col precedente avevamo solo l’illusione che sarebbe stata solo questione di tempo ma saremmo via via riusciti a trovare le soluzioni vere di tutti i problemi.
In questa descrizione molto sintetica del paradigma della complessità non c’è spazio neanche per accennare alle singole nuove tematiche che si stanno aprendo, soprattutto nelle scienze umane, nell’ambito di questo nuovo paradigma. Ad esse sarà dedicato il prossimo post.

Gianni Mula



Lunedì 13 Dicembre,2010 Ore: 10:39
 
 
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