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www.ildialogo.org Necrologio per il Metodo Scientifico,di Gianni Mula

Necrologio per il Metodo Scientifico

di Gianni Mula

Gianni MulaDe mortuis nihil nisi bene.
Il metodo scientifico non è più tra noi. È nato con Galileo, se n'è andato dopo gli studi sui fenomeni critici di Kenneth Wilson, che per queste sue ricerche ha ottenuto il premio Nobel per la Fisica. In quattro secoli di vita ha acquisito il grande merito di essere stato alla base della Rivoluzione Scientifica. Molti protagonisti delle conquiste scientifiche dell’era moderna erano infatti assolutamente convinti di due cose: la prima di essere innovatori in lotta contro un establishment tradizionalista che si opponeva al progresso, la seconda di possedere, almeno in linea di principio, un metodo che nel caso di un conflitto tra più opinioni permetteva di distinguere con certezza tra l'opinione vera e quelle false. Anche oggi che le nostre certezze sull'argomento sono cambiate, come mostra già dal 1996 l’incipit di un importante libro sulla rivoluzione scientifica (The Scientific Revolution di Steven Shapin): “Questo è un libro su una Rivoluzione Scientifica che non c'è mai stata”, rimane il fatto che per buona parte di questi quattro secoli il progresso scientifico è stato garantito e favorito dalla fiducia nell’esistenza del metodo.
Questa fiducia ha cominciato ad essere messa in discussione sin dalla seconda metà del novecento (basta ricordare il Feyerabend di Contro il metodo e La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn). Il colpo di grazia è però arrivato con la soluzione, dopo decenni di sforzi inutili, del problema delle transizioni di fase. Infatti per trovare questa soluzione si è dovuti passare dall’analisi del singolo sistema fisico che presenta una transizione di fase a quella della classe dei sistemi, di qualunque natura, che presentano fenomeni in qualche maniera analoghi. In questo modo è stato possibile costruire una teoria generale dei fenomeni critici nella quale non importa la natura fisica delle transizioni di fase (transizioni magnetiche, liquido-vapore, ordine-disordine, ecc.), ma contano solo le dimensioni dello spazio nel quale avviene la transizione. Inoltre non serve specificare la natura della grandezza fisica che segnala la transizione (magnetizzazione, densità, ecc.) ma si parla genericamente di parametro d’ordine. Il grande successo della teoria così costruita è ampiamente dimostrato dalla corretta predizione, per qualunque tipo di sistema, del comportamento delle grandezze fisiche in vicinanza della temperatura di transizione.
Il prezzo di questo successo è che questa teoria non è né vera né falsa. Ovviamente non è falsa, poiché è matematicamente coerente e fornisce risultati sperimentalmente verificabili. Ma non è neppure vera perché non è falsificabile, nel senso che, se in un qualunque caso particolare (o anche in molti) le previsioni della teoria non si avverano, se ne deduce non il fallimento della teoria ma l’esclusione del sistema considerato (o dei molti sistemi) dalla classe dei sistemi oggetto della teoria (in soldoni: si suppone che il sistema, o i sistemi, presentino transizioni di fase, e in ogni caso particolare di un esperimento che non obbedisce alla teoria è questa supposizione, non la teoria, che viene dimostrata falsa).
Ma se esiste una teoria non falsificabile in linea di principio, allora l’idea stessa di metodo scientifico è in grave crisi. Perché, se è vero che abbiamo una teoria che sembra dirci qualcosa di vero e ben definito sul mondo che ci circonda, è anche vero che questa teoria è stata costruita non grazie al metodo scientifico ma in qualche maniera in opposizione ad esso. Infatti il perno della teoria, la scelta del parametro d’ordine, è un’operazione in ultima analisi soggettiva, perché la decisione di includere nella classe oggetto della teoria sistemi di natura fisica tra loro diversa non può che essere una scelta arbitraria, non derivabile a priori dalle procedure deterministiche del metodo scientifico. Naturalmente si può pensare che queste considerazioni non si applichino a casi semplici nei quali uno sottopone a una verifica sperimentale un singolo fatto preciso. Ma è ben noto che non esistono singoli fatti che si possano sottoporre al vaglio dell'esperienza in maniera indipendente da un contesto teorico che si suppone valido a priori. È appunto per superare questa difficoltà che Karl Popper introdusse il suo principio di falsificabilità, secondo il quale un esperimento non può mai confermare un'ipotesi ma solo dimostrarla falsa. Possiamo quindi concludere che le teorie non falsificabili ci possono eventualmente dare più e non meno informazioni rispetto a quelle falsificabili, ma neanche loro ci potranno mai dare la garanzia dell'oggettività assoluta dei risultati ottenuti.
La notizia di questa sconfitta mortale per il metodo scientifico non si è tuttavia granché diffusa al di fuori dell’ambito degli scienziati, perché soprattutto coloro che non hanno un’esperienza diretta di come funziona la scienza danno in escandescenze al minimo suggerimento che il loro adorato metodo possa essere passato a miglior vita. Il semplice argomentare in pubblico che oggi il metodo non possa più essere considerato l'analogo di una ricetta di cucina, magari difficile da eseguire ma il cui rispetto è garanzia di riuscita della preparazione, rischia di suscitare reazioni inconsulte, come avverrebbe mettendo in dubbio l’onorabilità della madre di qualcuno. Scherzo, naturalmente, ma non troppo, visto come, talvolta, anche studenti universitari di materie scientifiche reagiscono alla messa in dubbio della sua esistenza. Le reazioni vanno dalla diffidenza (ma questo qui che cosa vuole farci credere?), allo stupore per vedersi sottratto un supporto che ritengono essenziale per la propria stabilità emotiva. Probabilmente il solo argomento capace di suscitare reazioni simili è il proporre considerazioni sulla morte di Dio a un pubblico di credenti digiuno di teologia.
Ma queste sono divagazioni. Il problema è che le pretese di certezza assoluta avanzate dal metodo scientifico pongono la conoscenza scientifica come altra e incommensurabile rispetto a ogni altra fonte di conoscenza, e crederci impedisce di fatto ogni crescita culturale e ogni possibile inculturazione della scienza nella nostra vita quotidiana. Dopo Heidegger, infatti, ogni esistenza umana è segnata, per la nostra cultura, dall'essere immersa (geworfen - gettata) in un contesto di tradizioni che non sono mai scelte, ma date. Questa caratteristica, che viene prima di qualunque introspezione, è fonte ineliminabile di pre-giudizi. Il metodo scientifico, in quanto si pone sopra e al di fuori dei pre-giudizi costitutivi dell'esistenza umana, non può pretendere di dire alcunché su di essa, tanto meno di definitivo. Di qui la famosa considerazione di Heidegger che la scienza, in quanto si basa sul metodo, non pensa, cioè non pensa nel modo in cui pensano i filosofi. Ma se una cosa è il pensare dei filosofi e un’altra il pensare degli scienziati, tra queste due maniere di pensare non ci può essere comunicazione alcuna.
Gadamer ha approfondito questa analisi osservando che l’idea che le affermazioni della scienza, in quanto ricavate con l’applicazione del metodo scientifico, sono vere indipendentemente dalle circostanze di luogo, di tempo, e di tradizione culturale nelle quali sono state formulate, è in contraddizione col fatto che il metodo scientifico non è piovuto improvvisamente dal cielo ma è un’idea che essendo nata in particolari circostanze di tempo e di luogo ha di conseguenza una sua storia e una sua tradizione. Pertanto l'idea di un metodo la cui certezza dispensi dal verificarne i risultati in un contesto più ampio di quello nel quale sono stati ottenuti è un'idea intrinsecamente contraddittoria che, per il solo fatto di essere accettata senza discussioni, genera la crisi culturale che caratterizza la società nella quale viviamo. È questo il paradosso della modernità, il paradosso di una tradizione che nega ogni altra tradizione.
Da questo paradosso Gadamer ricava la considerazione che “la comprensione del mondo in cui viviamo, che si è depositata nel linguaggio, non può essere del tutto sostituita dalle prospettive di conoscenza offerteci dalla scienza.” E quindi argomenta che altre verità, al di là di quelle ottenute attraverso i metodi delle scienze naturali possano essere raggiunte, ad esempio nell’arte, attraverso un corretto processo interpretativo (circolo ermeneutico). Tuttavia Gadamer, in questa maniera, si limita a far spazio a un altro tipo di verità oltre a quella scientifica, ma lascia irrisolto il problema epistemologico del privilegio riservato alle scienze naturali, cioè del diverso e superiore valore della verità scientifica rispetto a quella delle arti o della filosofia morale. Il risultato è una riconferma della separazione fra le due culture che impedisce gli scambi e gli arricchimenti che sarebbero possibili se questa separazione venisse superata.
Il problema non è meramente accademico. Nella nostra società globalizzata, quindi fortemente interdipendente, un’accusa di nichilismo non è cosa da poco perché mette in crisi ogni tipo di regole di convivenza. Eppure quest’accusa è quella che viene rivolta, almeno implicitamente, a tutti coloro che sostengono opinioni in qualche maniera classificabili (a torto o a ragione non importa) come soggettive e quindi in opposizione alla (supposta) oggettività della visione del mondo che caratterizza la nostra cultura. Basti pensare alla durezza con la quale le principali istituzioni economiche rampognano coloro che propongono di arginare la crisi economica intervenendo sul mercato, o i vari fondamentalismi religiosi si scagliano contro coloro che si permettono di interpretare con la propria testa i libri sacri. Per tutti possono valere le parole dell’allora Cardinale Ratzinger nella messa Pro Eligendo Pontifice: “il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
Com’è possibile che l’avere opinioni soggettive, cioè il pensare con la propria testa, venga condannato con tanta durezza e, soprattutto, com’è possibile che queste posizioni di condanna vengano tacitamente accettate dalla maggioranza dell’opinione pubblica colta? Certo, né le istituzioni economiche né quelle religiose possono essere considerate modelli di autorevolezza scientifica, ma i loro appelli al rigore traggono un’immeritata autorevolezza dal mito della certezza assoluta del sapere scientifico assunto a modello di ogni conoscenza certa.
In altri termini che la matematica abbia continuato a svilupparsi dopo i teoremi di incompletezza di Gödel e che la fisica abbia continuato a produrre risultati dopo che era diventato chiaro che non erano ottenuti grazie al metodo scientifico non conta niente per il grande pubblico se non si riconosce esplicitamente che il progresso scientifico non richiede più l’ostinata difesa di un’idea di metodo scientifico che appartiene al passato.
C'è qualcosa di schizofrenico nel consegnarsi a occhi chiusi a un’ideologia scientista che la pratica della scienza contemporanea rifiuta. Perché poi si finisce col pensare di scaricare sull'oggettività di supposte leggi naturali le responsabilità morali di scelte personali o collettive che non si ha il coraggio di assumersi esplicitamente. Questo significa mentire consapevolmente a se stessi, e una società che mente a se stessa non può avere futuro. Questa però non è una responsabilità del metodo scientifico ma della cultura attuale. Il metodo scientifico ha avuto un passato glorioso e benefico per il genere umano, e non merita di essere associato a questi sviluppi. Per questo è necessario che il funerale del metodo scientifico venga celebrato con tutti gli onori. Requiescat in pacem.
 
 
 


Giovedì 02 Dicembre,2010 Ore: 12:04
 
 
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