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Otto teologi tedeschi nel 1970 ritenevano il celibato una legge da mettere in discussione

Memorandum per la discussione sul celibato di alcuni teologi tedeschi indirizzato ai vescovi tedeschi. Fra i firmatari anche Joseph Ratzinger attuale Papa Benedetto XVI


I firmatari, chiamati grazie alla fiducia dei vescovi tedeschi a far parte, da teologi, della Commissione per le questioni relative alla  fede e ai costumi della Conferenza Episcopale Tedesca, si sentono in obbligo di presentare ai vescovi tedeschi le seguenti considerazioni.  

Le nostre riflessioni riguardano la necessità di un’approfondita verifica e di un’analisi articolata della legge sul celibato della Chiesa latina per la Germania e la Chiesa universale nella sua globalità (non si possono infatti separare completamente i due punti di vista). Che si chiami questa nuova verifica «discussione» o meno è un problema secondario, di ordine terminologico. Qui di seguito si parlerà di come sia da compiere questa verifica (cfr. in particolare n. V).

IL’urgente esigenza di una tale verifica non pregiudica affatto una decisione relativa a che cosa risulterà o si produrrà concretamente. Questa petizione non è una rivendicazione compiuta da avversari del celibato sacerdotale. I firmatari, fino a questo momento, non sono nemmeno pervenuti a una visione comune su quali siano le loro rispettive opinioni sulla questione specifica. Ma sono tutti convinti che sia opportuno, anzi necessario compiere una tale verifica a livelli ecclesiali alti e altissimi. È solo di questo che si parlerà qui di seguito, e non del contenuto concreto di una tale «discussione». I firmatari chiedono ai vescovi tedeschi di non fraintendere le riflessioni qui presentate, interpretandole come una lotta contro il celibato. Siamo convinti non solo che lo stato celibatario volontario nel senso di Mt 19 rappresenti una ragionevole possibilità di vivere da cristiani, cosa in ogni tempo indispensabile alla Chiesa come segno del suo carattere escatologico, ma persino che ci siano buone ragioni teologiche per collegare il celibato volontario e il ministero sacerdotale, dal momento che tale ministero mette in modo definitivo e generale chi ne è portatore al servizio di Cristo e della Sua Chiesa. In questo senso approviamo quanto affermato recentemente dalla Lettera dei vescovi tedeschi sul ministero sacerdotale (Schreiben der deutschen Bischöfe über das priestliche Amt, cfr. n. 45, par. 4; n. 53, par. 2). E in questo senso siamo anche convinti che il sacerdozio celibatario, qualunque sia l’esito della discussione, rimarrà una forma essenziale del sacerdozio della Chiesa latina. È inoltre chiaro che nella nostra Chiesa, a differenza della prassi protestante, per il clero secolare non può andare perduta nemmeno sul piano psicologico e su quello sociale e pubblico la possibilità autentica e concreta di un sacerdozio celibatario, nel quale ci si impegni pienamente in questo genere di vita anche dinanzi alla Chiesa. Senza dubbio, poi, i sacerdoti già ordinati, come è ovvio, non possono essere semplicemente e globalmente esonerati dalla promessa fatta al momento dell’ordinazione, ricorrendo a una legislazione nuova o eventualmente modificata, qualsiasi aspetto essa assuma. In linea di principio, il celibato, una volta scelto liberamente, ha carattere vincolante e non può essere ridotto ad obbligo revocabile. Sulla base di queste ragioni, un’autentica discussione della legge sul celibato non ha bisogno di aumentare la confusione nei nostri seminari fino a creare una situazione insostenibile, né di indurre i giovani a sospendere ogni decisione. La nostra richiesta, dunque, non va nemmeno identificata  con il tipo di dibattito o di «soluzione» della questione che ha luogo in Olanda, anche se non si possono ignorare la comune necessità e l’urgenza del problema per tutta la Chiesa universale.  

La domanda relativa alla verifica nel senso qui inteso è, quindi, soltanto se la modalità di realizzazione dell’esistenza sacerdotale utilizzata possa essere e debba rimanere, nella Chiesa latina, l’unico stato di vita. Le obiezioni spesso sollevate contro una tale verifica sono note: ci può essere, concretamente, soltanto uno stato di vita sacerdotale; nel caso in cui se ne ammettano altri c’è da aspettarsi che il sacerdote celibe si estingua. Non disconosciamo questi motivi. Ma chi fin dall’inizio, per tali ragioni, considera superfluo un chiarimento ci sembra avere poca fede nella forza di questo consiglio evangelico e nella grazia di Dio, della quale, pure, altrove si sostiene che è essa – non dunque la mera «legge» – a operare tale dono di Cristo.

IIUna verifica come questa può avvenire. Sul piano teologico, è senza dubbio errato pensare che in nuove situazioni storiche e sociali non si possa sottoporre a verifica, e in questo senso a «discussione», qualcosa che da un lato è una legge umana (precetto del celibato) nella Chiesa e che dall’altro esiste come realtà riconosciuta ed esercizio concreto in altre realtà della Chiesa (cfr. le Chiese orientali). Sostenere il contrario manca del sostegno di qualsiasi seria argomentazione teologica. Se si affermasse che il pastore supremo della Chiesa vieta una tale «discussione», avendo per questo, almeno sul piano psicologico, ragioni molto buone e dunque anche di un certo rilievo (perché, cioè, una nuova discussione minerebbe  di fatto il celibato nella Chiesa), su tale argomentazione andrebbe detto quanto segue:

a)   Data la posizione assegnata loro dalla dottrina ecclesiale del Concilio Vaticano II, i vescovi non possono, con una tale dichiarazione del Papa (una volta ammessa nel senso di cui sopra), essere privati della responsabilità di ripensare questo problema anche in autonomia e originalità; una responsabilità da cui neppure il pPpa può liberarli. I vescovi non sono funzionari del papa o semplici esecutori della sua volontà, ma, collegialmente (insieme al successore di Pietro), sono essi stessi portatori, nella Chiesa, del supremo potere decisionale. Formando questo collegio essi sono consiglieri del papa, cui è opportuno quanto meno prestare ascolto (anche là dove il papa faccia uso del proprio potere primaziale!), persino nel caso in cui il loro consiglio sia ascoltato malvolentieri (cfr. Paolo e Pietro: Gal 2). Ma per compiere questa missione i vescovi devono esaminare il problema tra di loro e collegialmente, di propria iniziativa. Se già il semplice sottoposto ha il diritto e il dovere di chiedersi, quando si tratti di faccende di una certa importanza, se non possa e debba presentare al superiore le proprie riserve e i propri moniti senza esserne richiesto, tanto più ciò è valido per i vescovi della Chiesa cattolica, anche di fronte al papa. Tutto ciò permette ed esige  una verifica autonoma del problema. Sarebbe stato molto meglio che i ministri responsabili nella Chiesa di tali questioni avessero preso in serio e attento esame già diversi anni fa la situazione che si era venuta a creare. In questo caso, le necessarie riflessioni avrebbero probabilmente avuto luogo in un’atmosfera più favorevole, non così carica di emotività. Ma questo non tocca per niente il fatto che la citata verifica, oggi, è diventata ancora più urgente.

b)   Come è noto, una discussione è già in fieri, e che questo confronto continua è un fatto con cui bisogna fare i conti in modo rigoroso e spassionato. Se non viene proseguita a livelli alti e altissimi, lo sarà di sicuro ai livelli più bassi (per non parlare dei mass media). Ma se la si prosegue soltanto qui, c’è da attendersi che assuma delle forme che porrebbero i vescovi dinanzi a situazioni estremamente difficili, situazioni impossibili da ammettere a cuor leggero – come ad esempio votazioni pubbliche – che ne comprometterebbero l’autorità in misura estrema: disobbedienza che si esprimerebbe sul piano collettivo con  sacerdoti che abbandonano in massa il ministero ecc... Come mostra già l’esempio di Roboamo nell’Antico Testamento, non è neppure vero che la durezza nel conservare una posizione porti sempre alla vittoria e il «cedimento» sempre alla sconfitta (cfr. 1 Re 11-12). Coloro che appoggiano con decisione le leggi attuali sul celibato avrebbero dovuto impegnarsi, negli ultimi anni, con più coraggio ed  impegno personale, anche facendo uso di argomenti convincenti sul piano pratico, facendo insomma uso di una tattica «offensiva». Invece si è preferito trincerarsi in gran parte dietro la «legge», facendo combattere concretamente al fronte gli esponenti  più spirituali della Chiesa e altri. La situazione viene ora allo scoperto e sprona irresistibilmente a dare una risposta genuina.

IIIQueste riflessioni nel senso di una verifica vanno fatte. Non è vero che la questione sia del tutto chiara o certa e che non si debba fare altro che attenersi alla prassi attuale, confidando in Dio e avendo coraggio. Bisogna francamente ammettere che l’enciclica Sacerdotalis Coelibatus del 24 giugno 1967 tace su molte cose di cui dovrebbe parlare e che per certi aspetti è ferma alla teologia preconciliare (senza considerare il linguaggio con cui tratta la faccenda). In ogni caso, essa è restata assai inefficace, risvegliando nei giovani preti più che altro l’impressione che si voglia difendere qualcosa che è destinato prima o poi a finire, come nel caso di alcune battaglie di retroguardia compiute dalla Chiesa ufficiale (cfr. ad esempio  le diverse fasi della riforma liturgica). Sotto l’aspetto psicologico, sociologico, giuridico, spirituale, morale e teologico e con un occhio ai problemi – troppe volte ignorati – del concreto stato di vita dell’attuale sacerdozio celibatario (fino a toccare le questioni relative ad alcune situazioni, del tutto irregolari, nelle quali avviene la dispensa agli obblighi del celibato), ci sono moltissime cose da meditare con più accuratezza.  

Non si vuole nemmeno affermare che l’intero problema della crisi delle vocazioni sia irrilevante nel contesto di queste riflessioni. Ovviamente, la crisi delle vocazioni non è dovuta soltanto agli obblighi del celibato; ha anche molte altre, più profonde ragioni. Tuttavia, sarebbe sbagliato sostenere che le due cose non abbiano nulla a che fare l’una con l’altra. Se non si riesce ad ottenere un numero sufficiente di nuovi sacerdoti senza cambiare le leggi sul celibato – e questa, anche per il nostro paese, è una questione ancora minacciosamente aperta – allora la Chiesa ha il puro e semplice dovere di realizzare il cambiamento. Essere convinti che Dio, con la Sua grazia, farà comunque in modo che ci sia in ogni tempo un numero sufficiente di sacerdoti celibi è una speranza buona e pia, ma teologicamente indimostrabile, che per riflessioni come queste non può rimanere l’unico e determinante punto di vista. Sono proprio i giovani preti, che hanno ancora davanti a sé gran parte della propria vita sacerdotale e si vedono sempre più impegnati nel servizio alla Chiesa, a chiedersi, di fronte a una crisi delle vocazioni che si fa sempre più acuta, come si possano gestire questi vitali problemi della Chiesa e del proprio ministero tra qualche anno, quando saranno loro a dover assumere maggiori responsabilità. A loro non basta lo sguardo ideale all’indietro, anche restando fedeli allo stato di vita che hanno scelto. 

  È poi urgente mettere in guardia dall’argomentazione secondo cui la quantità di cattolici autentici, in futuro, diverrà presto tanto esigua da rendere sufficiente anche un clero celibe numericamente piccolo. Anche se, per i motivi più diversi, ci fosse possibile prevedere un’evoluzione di tal genere, non possiamo fare di una cosa come questa la ragione di un rassegnato disfattismo o di un’ideologia del «piccolo resto». La Chiesa deve avere forze missionarie destinate all’offensiva, ovunque questa offensiva sia possibile. Le attuali leggi sul celibato, in ogni caso, non possono trasformarsi nell’assoluto centro di gravità di ogni riflessione, al quale debba esclusivamente adeguarsi ogni altra considerazione di ordine ecclesiale e pastorale. Se, pur con tutti i suoi «forti dubbi», persino il Papa, evidentemente, non rifiuta a priori e in modo assolutamente indiscutibile l’idea di ordinare uomini sposati di una certa età (viri probati) – cosa che avviene, in alcuni casi, già adesso –, questo significa anche che si possono sottoporre a verifica le attuali leggi e l’attuale prassi relative al celibato attraverso nuove riflessioni. Dobbiamo poi confessare – se conosciamo abbastanza bene i nostri studenti di teologia – di avere spesso l’impressione che le disposizioni attuali portino tra noi, e in misura non irrilevante, non solo a una diminuzione quantitativa dei candidati al sacerdozio, ma anche a un calo delle loro qualità, e dunque, di fatto, di quanto si può esigere e ci si può aspettare dai preti che in futuro saranno ancora a disposizione; questo vale nonostante la presenza di un’assai esigua quantità di teologi molto dotati, che non di rado giungono a noi dopo aver compiuto altri studi universitari. Chi assicura al proprio vescovo di non avere alcuna difficoltà ad accettare il celibato non dimostra ancora con ciò la propria idoneità all’ordinazione.  

E qui, poi, resta aperta la questione se si facciano dichiarazioni come queste davvero senza alcuna riserva interiore e se i vescovi le possano prendere sul serio. Le esperienze più recenti mostrano quasi ovunque che si tratta di un problema reale. I risultati – quelli già noti o quelli che saranno diffusi – delle votazioni relative al celibato compiute tra i convittori danno a loro volta luogo a serissime riserve. La situazione reale, nella maggior parte dei collegi e seminari, è estremamente allarmante.

IVQuando si considera una questione che non è un dogma in senso stretto, anche il legislatore cristiano ha il dovere di tenere in adeguata considerazione gli effetti della propria legislazione (incluso il fatto di una legislazione). Si deve pensare in primo luogo a quegli effetti che da un lato sono prevedibili e dall’altro producono un danno maggiore (rispetto alla bontà delle loro intenzioni). Tutto ciò è valido anche nel caso in cui questi effetti, «in sé», potrebbero non esserci e in un certo senso rappresentino la reazione – che non dovrebbe esserci – di coloro che sono toccati da una «legge» come questa. Nemmeno un legislatore cristiano può semplicemente dire: la nostra «legge» e le nostre intenzioni sono in sé e per sé buone per contenuto e formalmente legittime, e possono soltanto avere conseguenze positive, nella misura in cui la «legge» viene rispettata (come dovrebbe essere). Ogni legislatore deve inoltre tener conto delle effettive conseguenze delle sue disposizioni. Queste semplici considerazioni, di primo acchito apparentemente astratte, ma per nulla marginali, non sembra siano state compiute ovunque in modo sufficiente. Abbiamo preso in considerazione la questione  in modo oggettivo dal punto di vista del compimento della missione ecclesiale e del ministero (primato del servizio pastorale di salvezza, crisi delle vocazioni, disposizioni qualitative per i preti, ecc.). Su questo problema, però, bisogna riflettere anche a partire dalla realizzabilità della vita celibataria del giovane sacerdote di oggi (cfr. ad esempio la questione della presenza di colf , le cosidette “perpetue”; la crescente solitudine e la perdita di vero spirito comunitario  tra molti preti in molte comunità; l’ambiguità dell’immagine del prete; la debolezza nel prendere decisioni e la labilità psichica di molti giovani nel condurre una «sana» vita celibataria in una società sessualmente esaltata come quella odierna, ecc.). Che la situazione sia  fortemente mutata sotto ogni punto di vista  non è ancora un’argomentazione abbastanza convincente a sfavore della legge sul celibato; tuttavia implica che si esamini la questione con grande serietà da moltissimi punti di vista.

  1. La nuova verifica della questione del celibato dovrebbe innanzitutto avere luogo tra i vescovi tedeschi, al loro interno. Come è ovvio, a tal scopo si dovrebbe ricorrere ad esperti di tutte le discipline che possano contribuire a chiarire il problema. Sarebbe poi ingiustificabile che non si ricorresse anche a rappresentanze imparziali, non manipolate ma reali, dei sacerdoti, soprattutto di quelli più giovani. In caso contrario, l’episcopato darebbe l’impressione di non credere veramente alla forza interiore del consiglio evangelico del celibato «per il Regno dei Cieli», ma solo al potere di un’autorità formale. È necessario fare un punto della situazione come questo, positivo, e riconsiderare il problema anche per il fatto che la faccenda stessa del celibato, così come è percepita oggi nell’opinione pubblica e nella società, va spiegata – nella misura in cui questo è possibile – in modo comprensibile e ragionevole, pur senza affatto ignorare i limiti di questo sforzo. Resterà uno «scandalo», ma ciò non esonera dall’esortare di spiegarlo con le migliori ragioni, nel caso in cui se ne faccia una seria verifica e sia possibile giungere a risultati positivi (cfr. anche sopra, par. I). Anche se sappiamo che il celibato è in primo luogo il frutto di un’esperienza spirituale, da esponenti della scienza teologica abbiamo il dovere di porre l’attenzione su questa funzione positiva, chiarificatrice e imprescindibile di una verifica.

  2. Siamo inoltre convinti che l’episcopato tedesco debba impegnarsi presso Paolo VI in un serio esame delle leggi sul celibato e delle proprie dichiarazioni e disposizioni. I vescovi ne hanno il diritto, e secondo noi, nella situazione attuale, anche il concreto dovere. Una vera «discussione», che già da tempo avrebbe dovuto prendere il posto delle chiacchiere della pubblica opinione, senza alcun pregiudizio verso una soluzione negativa della questione. Una tale verifica non dovrebbe compiersi sulla base del presupposto che la Chiesa e il Papa si trovino semplicemente davanti a un dilemma, quello di «abolire» il celibato oppure mantenere senza sfumature le attuali leggi e l’attuale prassi. Il dilemma, in questa forma, non esiste. Siamo convinti che Roma possa chiarire la questione soltanto collaborando in modo autentico e collegiale con l’episcopato mondiale. Ogni altro passo fatto nello stile di quelli più recenti mette in estremo pericolo l’autorità effettiva del ministero ecclesiale (del Papa e dei vescovi). Preghiamo i vescovi tedeschi, di fronte agli sviluppi più recenti avvenuti in questo contesto, di intervenire al più presto a Roma. Le esperienze fatte finora con l’Humanae vitae e anche con il problema di cui stiamo trattando (in particolare negli ultimi dieci giorni) mostrano che cosa avviene e come quasi tragicamente aumentino le difficoltà quando manca una tale collaborazione. Un’opinione come questa non contesta né limita il primato del Papa. Si tratta soltanto di dare applicazione alla ragionevole massima secondo cui anche il Papa, per prendere le decisioni giuste, deve far uso delle apta media. Nella situazione attuale, una simile collaborazione con l’episcopato mondiale – che non è un mero «combattimento simulato» – sul piano pratico, per quanto riguarda faccende come queste, fa parte di queste apta et – hodie necessaria – media.

Forse la nostra presa di posizione verrà giudicata come discordante o addirittura contraddittoria e come tale contraddetta oppure ignorata. Le reali difficoltà, tuttavia, vanno cercate nella situazione oggettiva, altamente confusa, la quale è il risultato di molti fattori. Abbiamo voluto confrontarci con questa situazione senza ignorare la forza e le esigenze dell’evangelo. Non abbiamo da dare disposizioni ai vescovi tedeschi. Ma abbiamo il diritto e il dovere, in questa situazione straordinaria, di invitare i membri della Conferenza Episcopale Tedesca, in base al nostro ministero di teologi e alla nostra competenza di esperti, nel profondissimo rispetto del loro alto ministero e della grande responsabilità ad esso legata, a prendere nuove iniziative sulla questione del celibato e di non sentirsene esonerati né per via della prassi attuale né delle sole dichiarazioni del Papa.

9 febbraio 1970

firmato:  

Ludwig Berg, Magonza 

Alfons Deissler, Friburgo

Richard Egenter, Monaco

Karl Lehmann, Magonza

Karl Rahner, Münster-Monaco

Joseph Ratzinger, Ratisbona

Rudolf Schnackenburg, Würzburg

Otto Semmelroth, Francoforte

Dal sito di Noi Siamo chiesa



Mercoledì 02 Febbraio,2011 Ore: 11:49
 
 
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