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www.ildialogo.org LA DONNA E IL PRETE: SINTESI O ANTITESI ?,di Perin Nadir Giuseppe

LA DONNA E IL PRETE: SINTESI O ANTITESI ?

di Perin Nadir Giuseppe

Tutti siamo a conoscenza : che i presbiteri impegnati nel ministero vanno sempre più scarseggiando e che per molte parrocchie guidate da sacerdoti anziani e spesso mal fermi in salute, non c’è la possibilità di un ricambio.
Non so se questo si possa dire anche per la Chiesa Orientale, nella quale, per secolare tradizione, il ministero presbiterale viene affidato a “uomini sposati”.
Una tradizione che nella Chiesa di rito latino, ancora, non esiste.
Si danno alcuni casi di “uomini sposati, ma “rimasti vedovi” e con figli ormai adulti, ai quali è stato concesso di ricevere il sacramento dell’Ordine, dopo aver frequentato – per un tempo stabilito - i corsi di formazione teologica.
Mentre, fino ad oggi, nessun prete-sposato è stato ri-ammesso ad esercitare pubblicamente il ministero presbiterale, anche in luoghi diversi da quello in cui aveva esercitato appena ordinato prete.
La legge canonica, nel caso di un prete che si sposa, è uguale sia per la Chiesa cattolica d’Oriente che per la Chiesa cattolica d’Occidente.
Il Diritto Canonico stabilisce che il presbitero per celebrare il sacramento del matrimonio con la donna che ama, deve chiedere e ottenere dal Papa “il Rescritto di dispensa dalla promessa di celibato” e non sarà più autorizzato ad esercitare pubblicamente il ministero presbiterale.
Tuttavia, verso qualche prete-sposato, rimasto vedovo e senza figli, sembra che qualche vescovo si sia dimostrato disponibile a riaccettarlo nel ministero attivo, sempre che sia il “prete-sposato vedovo” a richiederlo.
Se qualcuno ha letto l’intervista fatta al patriarca caldeo Mar Louis Raphaël I Sako, a commento dell’esortazione Apostolica “Amoris Laetitia” di papa Francesco e apparsa su Asia News il 28/04/2016, avrà notato come il patriarca caldeo abbia sottolineato che in Iraq esista un rapporto stretto tra il vescovo, il prete e i fedeli perché “l’autorità” di Coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità della comunità ecclesiale, viene esercitata non per dominare, ma per servire, formare e orientare i fedeli che non sono dei “numeri”, ma delle persone delle quali bisogna sempre “interessarsi”, amarle e aiutarle, essere loro vicino.
Inoltre, sempre in quella intervista, il patriarca caldeo auspicava che per tutta la Chiesa universale ci fosse la possibilità di affidare il ministero presbiterale ad uomini già sposati.
Pertanto, nelle riflessioni del patriarca caldeo Mar Louis Raphaël I Sako non si è parlato affatto di “riaffidare” l’esercizio del ministero presbiterale” ai preti-sposati, cioè a quei presbiteri che si sono sposati dopo la loro ordinazione presbiterale.
E, su tale questione, al momento, c’è “assoluto silenzio”, in tutta la Chiesa Cattolica, sia Orientale che Occidentale, anche se si nota, da parte di qualche vescovo, una certa disponibilità nell’ascoltare i problemi dei “preti sposati”.
Tuttavia, nella esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, anche se l’oggetto dell’esortazione apostolica non sono i “preti-sposati”, papa Francesco, al § 3 ricorda che “ il tempo è superiore allo spazio e che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano”.
Queste “turbolenze” continueranno ad esistere nella Comunità ecclesiale, fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa ( cfr. Gv 16,13) cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo.
In ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più attente alla tradizioni e alle sfide locali, dal momento che “le culture sono molto diverse tra loro ed ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato ed applicato”.
Ma, il primo problema da affrontare e risolvere e che da secoli produce “indicibili sofferenze” è l’obbligo di non sposarsi, imposto per legge canonicaa tutti coloro che, nella Chiesa cattolica occidentale di rito latino, pensano di essere stati chiamati da Dio al ministero presbiterale.
Infatti, non ci può essere processo di maturazione affettiva e sessuale se manca la libertà di scegliere.
E, i seminaristi – della Chiesa Cattolica Occidentale - non si possono considerare liberi di scegliere tra celibato e matrimonio – come lo sono invece, i seminaristi della Chiesa Cattolica Orientale - perché i seminaristi della Chiesa Cattolica Occidentale già sanno, in anticipo, che alla fine del loro percorso formativo, dovranno rinunciare all’amore di una donna e non potranno sposarsi. In caso contrario, dovranno rinunciare al ministero presbiterale.
Molti hanno fatto esperienza come gli anni del Seminario - oltre che per acquisire una conoscenza biblica e teologica - siano serviti soprattutto per sviluppare una corazza attraverso la quale nessun sentimento potesse entrare. Nessuna freccia di Edipo potesse scalfirla”.
Ritiri spirituali, colloqui con preti-psicologi, testi di riferimento erano indirizzati a creare una personalità insensibile di fronte a tutto ciò che aveva a che fare con i sentimenti, le passioni, l’amore, la donna.
Ciò che contava era resistere alle tentazioni.
Tutti noi siamo dei soggetti emozionali.
Anche le esperienze più risibili, infatti, producono in noi delle reazioni emotive.
Tuttavia, anche quando non sappiamo fare pienamente luce sulle nostre emozioni, queste hanno il potere di decidere dei nostri atti : fungono, cioè, da stimolo e da guida alle nostre risposte.
Entro certi limiti, noi esercitiamo un controllo sui nostri sentimenti perchè possiamo scegliere di esprimerli oppure di reprimerli.
Il “come” ci comportiamo in questo “processo”, è altamente indicativo della nostra salute mentale.
In generale noi sopravviviamo alle nostre emozioni, indipendentemente da come esse si sono espresse, ma dobbiamo, comunque, vivere con le conseguenze.
Noi possiamo uscire da una situazione positivamente e con successo, oppure lasciandoci alle spalle un senso di distruzione.
Possiamo mostrarci guardinghi, diplomatici, tenere a freno le nostre emozioni, o invece esternarle senza alcun ritegno.
Intelligenza e sensibilità rimangono peraltro le nostre guide più fidate perché i sentimenti sono un fattore essenziale della vita e la loro espressione appropriata è l’elemento equilibratore che la sostiene1.
C’è nel Diritto canonico, una certa sottigliezza giuridica che sfugge a chi si dedica allo studio del Diritto con superficialità.
Qual è questa sottigliezza ?
I chierici sono vincolati al celibatoperché sono obbligati ad osservare la perfetta e perpetua castità, per il Regno dei cieli” (can 277 § 1 )
Ma, “la perfetta e perpetua castità”, assieme all’”obbedienza” e alla “povertà” costituiscono i tre consigli evangelici caratteristici della “vita religiosa”, della quale si entra a far parte con la professione dei tre voti : di povertà, di castità e di obbedienza.
Però, non tutti i chierici sono necessariamente “religiosi”, né tutti i religiosi sono “chierici”.
E allora perché i “chierici non religiosi” sono obbligati ad osservare ugualmente – come i religiosi - la perfetta e perpetua castità ?
Perché hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, con il quale, essi “con cuore indiviso”, sono stati consacrati a Dio e, in forza del quale - in quanto dispensatori dei misteri di Dio, al servizio del suo popolo - agiscono “in persona Christi” (can 1008) cioè “in persona” di Gesù di Nazareth che è stato per tutta la sua vita perfettamente casto”.
Il motivo, quindi è duplice: sacramentale e ministeriale.
Ancora una volta – in forza di questa unione “ontologica” con Cristo, prodotta dal sacramento dell’Ordine - viene sottolineato il contrasto esistente nella “religione” tra : il sacro e il profano, il divino e l’umano…il rapporto tra l’uomo e la donna
Ma, sembra che questo non fosse il pensiero di San Paolo che ai Galati scriveva : “ Fratelli, tutti voi siete figli di Dio, mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è né giudeo, né greco; non c’è né schiavo, né libero; non c’è né maschio, né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” ( Gal. 3,26-29).
Si sa che, in qualsiasi religione : le sue credenze, le sue norme, le sue pratiche rituali, il suo sistema organizzativo, tutto in definitiva dipende, in ultima istanza, dal Dio nel quale questa religione crede.
La “Buona Notizia”, il Vangelo, che si può definire una “prassi nel mondo” che Gesù ci ha dato a conscere, non a parole, ma con il suo comportamento, consiste nell’averci mostrato “l’umanità di Dio” verso le sue creature.
Gesù ci ha indicato, attraverso il suo modo di vivere e di relazionarsi con tutti coloro che incontrava, che è solo nell’umano e a partire dall’umano che noi possiamo incontrare Dio ed entrare in relazione con Lui.
Ci ha insegnato che la relazione dell’essere umano con Dio non si realizza per mezzo della fede ( il credo religioso) ma per mezzo dell’etica ( il comportamento).
Dio non lo incontriamo in un “TU” trascendente che s’impone a noi a partire da un potere inappellabile, ma solo nella nostra immanenza, in ciò che è profano, umano…laico…civile…, come nell’esperienza simbolica che viviamo nel nostro intimo che può essere l’esperienza del silenzio e della preghiera, come espressione dei nostri desideri più profondi.
E una della sfaccettature essenziali di cui l’umano si compone è anche “la donna”, “la femmina”, l’uomo, “il maschio”.
Anche in questo aspetto umano di “maschio” e di “femmina” noi incontriamo Dio e abbiamo la possibilità di amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la mente, cioè con cuore indiviso, perché l’unica possibilità che abbiamo di incontrare Dio ( entrare in relazione con LUI) e quindi di amarLO, è solo “partendo dall’umano”.
L’esperienza insegna che quando la persona cerca, in tutti i modi, di “graffiare via da sé la pelle della sua umanità, per essere “come gli angeli”, svuotando l’“uomo e la donna”, il “maschio e la femmina” - che Dio ha creato a sua immagine e somiglianza - di ogni dignità e bellezza, alla fine, il suo comportamento diventa peggiore di quello delle bestie.
Se il celibato deve essere la testimonianza vivente che la perfetta comunione di amore con Dio, sorpassa la gioia e l’unità del matrimonio tra un uomo ed una donna, capisco perché molti preti preferiscono trovare un’altra forma di vita più evangelica.
Se lo stesso Dio decise di farsi uomo, non è stato forse per vivere pienamente la nostra umanità?
Si sa che due linee parallele ed opposte non si incontrano mai: come due ascensori di uno stesso edificio che si muovono continuamente su due direzioni contrarie.
Così abbiamo, da una parte, un Dio che scende al piano terra per offrire all’umanità il suo amore incondizionato e dall’ altra l’uomo dell’organizzazione clericale che sale all’ultimo piano, pretendendo così di raggiungere il cielo.
E’ l’immagine sconvolgente di un incontro mancato!” 2 che si ripropone ogni volta che qualcuno vuole fare dell’uomo un Dio, mettendo in secondo piano quella umanità che Dio, invece, facendosi uomo, non ha annullato o rinnegato, ma elevato alla sua stessa pienezza di vita divina, amando l’uomo e la donna con l’amore che il Padre ha nei confronti dei suoi figli.
Se non si riesce a “maturare il rapporto fra “uomo e donna”, tra maschio e femmina, tra il divino e l’umano, tra il sacro ed il profano, si continuerà a ritenere che non è possibile amare Dio “con tutto il cuore, l’anima e la mente” e - nello stesso tempo - amare la propria sposa.
Di conseguenza, nessun cambiamento sarà mai possibile, all’interno della Chiesa, specialmente per quanto riguarda il rapporto tra la donna ed il prete, in un contesto di vita matrimoniale e di amore sponsale.
La donna non é la faccia visibile del “demonio” sulla terra, perché Dio” creò l’uomo simile a sé, lo creò ad immagine di Dio, maschio e femmina li creò” ( Gn 1,27).
Per “umanizzare la vita, è necessario ridare alla donna il suo posto paritario nei confronti dell’uomo e sia l’uomo che la donna devono prendere coscienza di essere “complementari” l’uno all’altra.
Il non riuscire in questo è, forse, la ragione primaria e focale del generarsi di tante altre questioni, inquietudini ed angosce.
Finalmente, ora, si sta passando anche se molto lentamente, dalla persuasione della preminenza assolutista dell’uomo, nata e largamente diffusa e vissuta nel contesto sociologico di una mentalità cosmo-centrica, al riconoscimento della “parità dei diritti” fra l’uomo e la donna, in tutta la sua estensione : dalla sfera giuridica, alla sfera sessuale, cioè quella della “realizzazione di sé nella sua componente affettiva e fisiologica”, che, ancora, si è portati a distinguere per comodità di ricerca e di discorso, ma che si rivelano strettamente interdipendenti tra loro e caratterizzanti insieme la qualità del rapporto.
Tuttavia, anche se tutto questo ha portato ad una “possibilità di liberazione” della donna e ad un “miglioramento del rapporto”, non è detto che questa possibilità tenda sempre a realizzarsi per il suo verso giusto.
Infatti, accade che, talvolta, si realizzi per il verso sbagliato e che porti ad un nuovo modo di effettiva dipendenza della donna, anche se mascherato nelle forme e, perfino, ad un peggioramento del rapporto.
Si parla tanto di “parità di diritti” e si ritiene necessario figurarsi una irreale identità od uguaglianza tra l’uomo e la donna, che da sé ci darebbe la parità.
Si pone l’equazione, in sé irrealistica, “donna = uomo” e si stima di aver aperto, così, la strada alla parità.
Bisognerebbe, invece, pensare a realizzare la parità dei diritti nella “complementarietà” tra i due poli della coppia.
Tuttavia, quando noi parliamo del matrimonio di un prete, la figura della donna - che ha accettato di condividere la sua vita e i suoi ideali con quelli del prete, in un contesto di amore sponsale - riveste un significato che va al di là della “normalità”.
Molto spesso, il matrimonio del prete viene confinato nel quadro di un fenomeno effimero della morbosità sociale o della crisi individuale.
Invece, la donna che sposa il prete che ama, rappresenta una sfida vivente al “maschilismo” esistente nella Chiesa-istituzionale che si è sempre dimostrata restia a riscoprire “l’umanità” del Vangelo e a rendere il Vangelo più attuale per l’umanità.
Il matrimonio del prete non serve ad estendere il potere sacrale alle donne, facendole entrare nell’”arca” ( luogo sacro) ma a rifondare una modalità ed una nuova esperienza di vivere la fede cristiana.
Quando leggiamo che una donna ha sposato un prete, subito pensiamo che la donna ha “invaso il sacro” con la sua persona, “dissacrando, così, la storia”. Ma la donna, accettando l’amore sponsale di un prete, non ha estromesso Dio dalla sua storia personale, né dalla storia del prete, ma ha ricomposto e rilanciato l’umanità del prete stesso.
La donna che ha il coraggio di “dire il suo “SI” sponsale” ad un prete, sfida una cultura intollerante e si avventura in un progetto di coppia che è gravato da intenti che vanno al di là della cultura corrente.
Perché, con “l’imposizione del “celibato per legge canonica”, coloro che nella Comunità Ecclesiale, hanno il compito d’insegnare, di reggere e di santificare, hanno dato, in nome dell’Istituzione, una valenza fondante all’identità di un ministro, “violentemente” separato dai codici del suo sviluppo naturale e personale.
Ma, per essere cristiani -“cercatori di umanità”, è necessario ritornare alla natura e alla persona, altrimenti si diventa degli “uomini” che cercano soltanto la “signoria”, attraverso il mito della cristianità.
Che significato può avere per la Comunità Ecclesiale la coppia formata da un prete e da una donna?
Quello di riversare nella chiesa cattolica un’ondata di umanità ricostituita di natura, di mondo e di storia che, assieme ad altri credenti, può contribuire a riproporre l’ esperienza di fede, in modo più rispondente al messaggio del Vangelo, aiutando le persone a ricercare un punto di riferimento nella propria vita che dia sostanza e gioia di vivere.
L’obiettivo di un prete che si sposa non è quello di inquadrare nella sua decisione di sposarsi il cambiamento di uno statuto o la riforma del codice del Diritto canonico, ma quello di aiutare l’essere umano a ritrovare una più vivibile umanità che diventa tale, sia per l’uomo che per la donna, quando le scelte di vita (come il celibato) hanno il carattere della “libertà” e non il marchio dell’imposizione.
La donna, sposando il prete che ama, dimostra come non sia giustificabile, evangelicamente, un ministero presbiterale, esercitato da un “ministro celibe - per imposizione e non per libera scelta”- perché, in tal caso, il ministero diventa non un “si” gioioso alla chiamata di Dio, ma una proiezione istituzionale per inserire il “potere sacrale della “casta” in una determinata “condizione umana” che, in sé stessa, dovrebbe essere sempre contrassegnata da una libera scelta.
Ed è “la libera scelta” che dà colore all’impatto fra la vita e l’esperienza di fede ed esprime la sua specifica ministerialità, cioè il servizio da realizzare a vantaggio della Comunità di fede e di amore.
Infatti, non è la Chiesa, in quanto istituzione – cioè quella parte che detiene il “potere istituzionale” - che deve raggiungere queste realtà umane per redimerle, ma sono le stesse realtà umane che, attraverso i vari ministeri, devono rientrare nel circuito umanizzante della Chiesa, come comunità di fede e di amore.
“Il prete operaio”, per esempio, non ha senso se viene vissuto come un “soggetto dell’istituzione” inserito nel mondo del lavoro.
Ma dovrebbe essere lo stesso mondo operaio ad esprimere nella Chiesa la sua ministerialità lavorativa, con tutta la “carica” che emerge dalla sua specifica condizione umana.
Il “cattolicesimo perbenista” sarà fecondamente turbato non tanto dal prete che ottiene dalla “Chiesa-Istituzione”, la licenza di potersi sposare, ma quando sarà la comunità cristiana, come ai primi tempi della chiesa, che sceglierà come suoi ministri anche uomini sposati, rivendicando a sé stessa la fonte della ministerialità, in quanto “comunità di credenti, fondata dagli Apostoli e loro successori”.
Ancora una volta, la coppia sposata (donna-prete) sta ad indicare: uno smantellamento dell’ingiustificabile supremazia del maschio che il cattolicesimo integralista ha iniettato in tutte le umane culture; un abbattimento del sessismo e della fobia misogena che venti secoli di distorsioni antropologiche sacralizzate, hanno inserito nel corpo e nell’anima della Chiesa; uno svuotamento psicologico e culturale dell’aureola di sublimazione che, in realtà, un celibato imposto non può avere, ma che ugualmente ha prodotto “il privilegio di casta”, nell’ esercizio dei suoi poteri; infine fa capire che la capacità di amare, essenza del cristianesimo ed orizzonte trascendente dell’umanità, non è affidabile ad una “promessa imposta” e gestita dal sistema di potere, ma dipende sempre ed unicamente dalla decisione di una coscienza libera e responsabile e dal suo impatto con l’evolversi della persona e della realtà.
Il matrimonio tra una donna ed un prete, uniti dall’amore sponsale, rappresenta il rovesciamento della sacralità che ha riportato i cristiani al di fuori dell’umanesimo evangelico; seppellisce, una volta per sempre, l’identità che il “clericus” ha “inciso” sul volto dei cattolici, per ritornare a quella radicalità che Gesù di Nazareth ha contrapposto al potere del tempio ed alle sue alleanze.
Guardare alla donna che sposa il prete che ama, non dovrebbe più suscitare meraviglia o scandalo nel Popolo di Dio, ma dovrebbe servire a riportare l’uomo e la donna – anche attraverso l’esperienza di fede – alla loro dimensione storica, naturale e cosmica.
L’alterità vissuta e sperimentata nella coppia formata da un uomo-prete e da una donna rievoca il concetto dell’alterità di Dio, un nucleo della coscienza su cui : Papi, Vescovi e preti concedono molto alla “predica”, ma assolutamente nulla alla “vita”.
La donna, nel suo rapporto matrimoniale con un ex-funzionario della “Chiesa istituzionale” offre una possibilità di gettare il seme di una riconversione umana, in un magma, reso, dalla pretesa del possesso esclusivo di Dio, incandescente inceneritore della sua esclusiva rappresentanza nel mondo 3.
Rappresenta l’avventura di un uomo e di una donna, verso l’insondabile orizzonte di una “terra” promessa, dopo aver sentito lungamente e con insistenza che bisognava stare quieti, consolandoci con la speranza del “cielo”.
In realtà, “il cielo è qui, su questa terra”, se noi accettassimo di accogliere con gioia, nel nostro spirito, tutta “l’umanità di Dio” che l’uomo di Nazareth (Gesù) è venuto a farci conoscere e che è contenuta nel suo Vangelo.
Perin Nadir Giuseppe

NOTE
1 Leo Buscaglia, Nati per amare, a cura di Daniel Kimber, titolo dell’opera originale “ Born for Love”, traduzione di Riccardo Mainardi, Arnoldo Mondadori Editore, VII edizione, maggio 1993, p. 336.
2 Federico Bollettin, Bianco e nera amanti per la pelle, Gabrielli Editori, Verona, 2008, pp.95-96
3Cfr. Piero Barbaini, Dai confini del tempo, Quaderni Europei di Ricerca Ecclesiologica, Ed. Galeatica, Lodi 2006, pp. 28-29



Lunedì 20 Giugno,2016 Ore: 23:40
 
 
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