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www.ildialogo.org In preparazione al Sinodo sulla Famiglia : l’esperienza di un prete-sposato.,di Perin Nadir Giuseppe

In preparazione al Sinodo sulla Famiglia : l’esperienza di un prete-sposato.

di Perin Nadir Giuseppe

La famiglia in quanto “comunità di persone” che nasce dall’amore, vive di amore, cresce nell’amore, educa all’amore e lo trasmette, è un contenitore che offre numerosi argomenti sui quali dialogare, discutere, approfondire, analizzando la storia della vita dell’uomo nei suoi molteplici aspetti: quello naturale, giuridico, relazionale, sociale ed ecclesiale e sui numerosi problemi da affrontare e risolvere, tenendo conto della dignità e della libertà di ogni persona.
In preparazione al Sinodo sulla “famiglia”, il segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, ha mandato ai Vescovi diocesani, un questionario contenente una serie di domande : 1) sulla diffusione della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa riguardante la famiglia; 2) sul matrimonio secondo la legge naturale; 3) la pastorale della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione; 4) sulla pastorale per far fronte ad alcune situazioni matrimoniali difficili (la convivenza ad experimentum ; i separati e i divorziati); 5) sulle unioni di persone dello stesso sesso; 6) sull’educazione dei figli in seno alle situazioni di matrimoni irregolari; 7) sull’apertura degli sposi alla vita; 8) sul rapporto tra famiglia e persona; 9) altre sfide e proposte....
Leggendo il questionario, la prima sensazione che ho avuto è stata quella di trovarmi, nuovamente, in un’Aula Magna dell’Università, dove, a conclusione del ciclo di studi, il professore incaricato suggerisce agli studenti alcuni argomenti di TESI sui quali riflettere per conseguire il dottorato in Teologia dogmatica e morale, indicando le due fonti alle quali attingere: la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa.
Inoltre, considerando la vastità degli argomenti proposti e la scarsità del tempo a disposizione sia per analizzare i problemi, come per la formulazione delle proposte di soluzione, ho avuto il timore che tutto potesse finire in “una bolla di sapone”.
Infatti per porre le basi di un cambiamento vero ed efficace c’è bisogno di tempo, perchè le riforme ed i cambiamenti non possono avvenire in “breve tempo”. Questo tempo di cui abbiamo bisogno è il tempo del discernimento che non significa “rimandare la decisione”, ma, riflettere, alla presenza del Signore, guardando i segni, osservando le cose che accadono, ascoltando il sentire della gente, specialmente dei poveri ( gli anawim) e degli emarginati ...
Come non rimanere amareggiati dal fatto che buona parte di questi “poveri” ( gli anawin) - di cui fanno parte anche i preti-sposati con le loro famiglie – non abbiano ricevuto - da parte dei Vescovi diocesani che sono i pastori di tutto il Popolo di Dio a loro affidato - il questionario in oggetto. Eppure sono convinto che ogni Vescovo diocesano sappia quanti sono i preti-sposati residenti nella sua diocesi e ne conosca i nomi e gli indirizzi di residenza.
Domandiamoci : perché si continua ad ignorare, da parte dei “pastori”, la voce di questa parte del “gregge” di Dio ?
Forse che questi preti-sposati e le loro famiglie non appartengono al Popolo di Dio ? Non è forse vero che il fondamento della propria identità è quello di appartenere ad un popolo ?
Non è forse vero che il Dio della storia ha salvato un popolo, scegliendolo come il SUO Popolo ? Non è forse vero che nessuno si può salvare se viene isolato dal Popolo cui appartiene, dal momento che Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana ?
Dio è entrato nella storia dell’uomo, perché la storia dell’uomo diventasse la “storia di Dio”.
Il popolo di Dio è il soggetto che forma la Chiesa e non l’oggetto di coloro che sono stati scelti per esserne i pastori.
Il questionario sulla famiglia, non è stato inviato nemmeno a me! Eppure il Vescovo della Diocesi a cui appartengo, in base alla mia residenza anagrafica, poco dopo aver preso possesso canonico della Diocesi – ha accettato l’invito a cena a casa mia, assieme ad altri presbiteri-parroci ai quali sono legato da fraterna amicizia e con i quali collaboro, svolgendo il “ministero di organista liturgico”.
Sono un “prete-sposato”. E, sono passati 46 anni da quando ho celebrato[1] il sacramento del matrimonio con Maria. Il Signore ci ha donato due figlie che si sono, a loro volta, sposate, regalandoci due nipoti. Così, siamo diventati nonni. E tra 4 anni, se Dio vorrà, celebreremo le “nozze d’oro”.
La presente riflessione non ha come obiettivo quello di mettere in risalto la mia persona, né la storia personale della mia famiglia, perchè riflette tante altre storie – vere e sofferte – di presbiteri che dopo matura ed attenta riflessione hanno risposto “SI” alla chiamata di Dio alla vita matrimoniale.
La mia esperienza di famiglia – in quanto prete-sposato- vuole solo mettere in evidenza come - dal punto di vista della testimonianza, cioè “essere nella comunità un segno credibile del Cristo risorto” – la vita del presbitero sposato non sia, per nulla, in contrasto con la vita del presbitero celibe. Questo è quanto viene sottolineato sia dalla Sacra Scrittura, come dal Magistero dei Pastori della Chiesa.
Come sposi : la nostra vita matrimoniale non è stata cosparsa sempre di “rose e fiori”. Ma, abbiamo dovuto affrontare molte difficoltà economiche, problemi di salute, incomprensioni, isolamento....
Tuttavia, con fede e coraggio, siamo riusciti a superare i momenti difficili. Come ? Anzitutto, perché abbiamo sempre considerato il matrimonio, NON come punto di arrivo, ma come punto di partenza, cioè l’inizio di un cammino da fare insieme e, durante il quale, abbiamo imparato a conoscerci meglio: le virtù, i limiti, i difetti.
Abbiamo imparato a costruire insieme - ciascuno da protagonista - la storia della nostra vita, , nel rispetto della personalità e della libertà di ciascuno, mai succubi uno dell’altro.
Abbiamo cercato di coltivare, giorno dopo giorno quel piccolo seme d’amore che Dio aveva messo nel nostro cuore, il giorno in cui – guardandoci negli occhi - abbiamo accettato di “prenderci per mano, accogliendoci nell’amore e promettendoci fedeltà reciproca, sia nella gioia che nel dolore, nella salute e nella malattia e onorandoci a vicenda”.
Abbiamo fatto esperienza che, come tutti i grandi obiettivi, anche l’obiettivo della famiglia di educare all’amore e di trasmetterlo, non è facile da realizzare. Infatti, nell’oggi del nostro tempo, ci viene data solo la possibilità di impegnarci per arrivare alla pienezza di vita e dell’amore, che ci verrà, invece, data in dono da Dio “quando lo vedremo” così come Egli è, in un cielo senza tempo.
Fino a quando la nostra vita avrà il ritmo del tempo, noi saremo sempre in cammino, nel ruolo di viandanti verso l’eterno, dal momento che nell’amore viene messo in gioco tutta la persona : il suo cuore, l’intelligenza e la libertà.
Come genitori, abbiamo imparato a mettere a punto gli strumenti più opportuni, nella convinzione che educare e trasmettere dei valori, corrisponda sostanzialmente allo sforzo di crescere insieme ai propri figli, giorno dopo giorno, soprattutto imparando ad ascoltarli e ad aprire il cuore alla Parola di Dio.
Per tutti, oggi, crescere nella verità dell’amore e della fede è diventato più difficile rispetto al passato, perché la nostra società sembra ridurre l’intelligenza umana a semplice ragione calcolatrice, prigioniera di quel processo di relativizzazione e di sradicamento che corrode i legami più sacri e gli affetti più degni dell’uomo, con il risultato di rendere più fragili le persone e più precarie ed instabili le reciproche relazioni.
Ogni giorno ci rendiamo conto che le nostre relazioni sia nel rapporto di coppia, come nel contesto lavorativo, comunitario-civile e parrocchiale,per essere “positive ed efficaci” abbiano bisogno di avere, costantemente, il punto di riferimento nella Parola di Dio, il Vangelo. Non si tratta di un “ manuale di morale o di un codice di leggi da osservare”, ma di una proposta di vita che Gesù ci fa.: “ amatevi gli uni e gli altri, come IO ho amato voi”.
Anche sotto questo aspetto, non è stato facile realizzare una “metanoia”, cioè quel cambiamento di mentalità che ci permettesse di camminare insieme verso la verità. Infatti, la nostra formazione in quanto coppia, aveva avuto percorsi culturali completamente diversi.
Tuttavia, non sempre ci è stato chiaro, sia a me che a mia moglie, quale fosse il “vero volto di Dio”, il “vero volto di Gesù di Nazareth”.
Abbiamo dovuto cominciare da capo la lettura, lo studio e la meditazione della Parola di Dio, lasciandoci guidare da persone “competenti” che, della Parola di Dio, ne avevano fatto il loro cibo e nutrimento quotidiano.
Gradualmente, abbiamo capito che solo “rimando fedeli alla Parola di Dio, potevamo essere per davvero discepoli del Signore, conoscere la verità che ci avrebbe resi liberi ( Gv 8,32-32) da tutti quei condizionamenti che ci impedivano di cingerci del grembiule per farci servi gli uni agli altri nell’amore ( Gal 5,13).
Questo percorso di conoscenza, di meditazione della Parola di Dio ci ha aiutato a vivere l’amore e la fede come gioia, assaporando quella serenità profonda che nasce dall’incontro con Gesù di Nazareth.
Avevamo iniziato a capire come solo l’amore fosse l’unica e reale forza educatrice, il benefico esplosivo che sarebbe riuscito ad abbattere le barriere della tiepidezza e del dubbio, perchè colui che sa di essere amato, è, a sua volta, sollecitato ad amare”.
Come genitori, crediamo non ci sia altra ricetta – se non quella dell’amore - per educare i propri figli ai veri valori della vita.
Infatti, in una società soffocata dalle parole e sommersa dalle immagini non si può pensare di educare i figli ribadendo l’elenco dei precetti e degli obblighi da osservare per meritarsi l’amore di Dio ed essere a lui graditi.
Gli adolescenti e i giovani sentono dentro di sé il richiamo prepotente dell’amore e noi genitori abbiamo fatto esperienza del grave compito che avevamo e tuttora abbiamo nei loro confronti, cioè quello di aiutarli a comprendere, decodificare e vivere con responsabilità il fuoco che arde nei loro cuori, vivendo insieme con loro la fede che non soffoca l’amore, ma lo rende sano, forte e libero per fare della vita un dono da offrire a chiunque incontriamo.
Vivere e praticare insieme – come famiglia - le beatitudini, non è facile, ma è l’atteggiamento che soddisfa la naturale propensione dei giovani al bene, e che diventa, nello stesso tempo, servizio alla verità sull’uomo e verità su Dio.
Infatti, aprendo il nostro cuore e quello dei nostri figli al gusto della verità, noi abbiamo permesso a loro di realizzare quella sintesi preziosa tra fede e ragione che ci permette di giungere - come famiglia - al mistero in cui siamo immersi e di ritrovare in Dio il senso della nostra esistenza.
Abbiamo maturato nel tempo la convinzione che il nostro compito di genitori fosse quello di offrire ai nostri figli delle testimonianze e delle motivazioni coerenti, rispettando i tempi della loro crescita, non dimenticando che ogni processo educativo si snoda in un profilo di libertà, in cui nessuno ha il diritto di interferire.
La misura di questa libertà è, ancora una volta, l’amore. Per cui, anche di fronte ad un rifiuto della “fede” o di una scelta, distante dall’esperienza cristiana, noi, in quanto genitori, abbiamo cercato ugualmente di amare, sempre e comunque, i nostri figli, continuando ad offrire l’esempio di coerenza alla Parola, di stabilità nei valori e di continuità nel vivere la propria vita.
Questa è la prova di un amore che sa attendere e rispettare anche scelte non condivise, ma che diventa, nello stesso tempo, agli occhi dei figli, la risposta più eloquente di mille discorsi.
Infatti, nessuna parola, se non la forza di un esempio concreto, può far comprendere ai ragazzi che la fede è un cammino di liberazione attraverso l’amore; è gioia di un incontro che racchiude il senso stesso dell’esistenza e della pienezza di vita.
Da quello che ho scritto, come sposo, marito, padre ed ora anche nonno, chi mi legge può capire perché io sia fermamente convinto – in quanto prete-sposato- che - rispondendo “SI” alla chiamata di Dio alla vita matrimoniale - Egli non mi ha mai chiesto di “rinunciare” al mio “essere-presbitero”, ma di vivere il ministero-presbiterale, nella comunità ecclesiale, in modo diverso.
Di conseguenza ho sempre pensato e ritenuto possibile che anche la mia famiglia, presente attivamente nella società civile e nella comunità ecclesiale-parrocchiale - come tante altre famiglie che formano il Popolo di Dio - potesse essere di stimolo a maturare una fede adulta e responsabile, oltre che a dare una testimonianza credibile e profetica sul come fosse possibile vivere in pienezza la “vocazione ministeriale” anche nello stato matrimoniale.
Ed è quanto viene espresso dalla Parola di Dio: “ Il pastore sia irreprensibile, marito di una sola donna; sobrio, prudente, decoroso, ospitale, pacifico e disinteressato; che sappia dirigere bene la sua casa, tenere i suoi figlioli sottomessi con perfetta dignità; perchè se uno non sa dirigere bene la propria famiglia, come potrà avere cura della Chiesa di Dio” ? ( 1Tm 3,2-5).
D’altra parte, tutti sappiamo che, sia il celibato che il matrimonio, sono segni del connubio tra Cristo-sposo e la Chiesa-sposa. Sono “stati di vita” da vivere quale testimonianza dell’amore verso Dio e il prossimo, nella piena disponibilità al servizio divino e alle opere di apostolato e di carità, nella Società e nella Chiesa.
Infatti, tutti i battezzati, nessuno escluso, ai quali deve stare a cuore il bene comune, sono chiamati ad edificare il Corpo Mistico di Cristo, nello stato di vita liberamente scelto, offrendosi reciproco aiuto, amicizia e sostegno fraterno, in un contesto di sincero dialogo e di mutua carità.
La logica delle lettere pastorali – La Lettera a Timoteo e la Lettera a Tito – sottolinea come la famiglia del prete-sposato sia un segno visibile del carattere familiare della comunità ecclesiale.
Infatti, il criterio di discernimento che le prime Comunità cristiane, fondate dagli Apostoli, avevano per scegliere colui o coloro che dovevano guidarle pastoralmente era proprio la sua capacità di essere un buon marito e un buon padre, sia pure nei termini della cultura familiare del I sec. d.C.
Ci siamo mai chiesti: “Che cosa Dio chiede alla coppia unita in matrimonio” ?
La risposta mi sembra ovvia : 1) L’esemplarità della vita coniugale e 2) l’esemplarità dell’amore coniugale.
La castità coniugale che viene vissuta e testimoniata con gioia anche dalla coppia cristiana e di cui si parla nel Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Humanae vitae e nella Familiaris Consortio, non significa che i due sposi debbano “astenersi” dal fare l’amore, quanto piuttosto che i due sposi devono mostrare e testimoniare la “verità dell’amore coniugale” in ogni suo aspetto, compreso il linguaggio fisico, perchè il linguaggio dello scambio corporale è parte vera di questo amore coniugale.
Tale prospettiva riguarda anche la “coppia sacerdotale” ? Certamente si ! Perchè, ambedue, sia il presbitero che la sua sposa, sono chiamati – non soltanto in termini morali, come ogni altra coppia, ma anche in termini deontologici, cioè comportamentali, al compito di amarsi in modo pieno e perfetto, cioè ad essere esemplari anche nell’amore coniugale. Ritenere che il prete-sposato abbia rinnegato l’amore, perché ha formato una sua famiglia, è falso. Anzi, la famiglia del prete sposato sottolinea la continuità, la crescita e la maturazione dell’amore stesso.
Nel passato era difficile dimostrare questo, perché il matrimonio era considerato come un “contratto” tra un uomo ed una donna in ordine alla procreazione e alla educazione della prole.
Oggi, invece, la teologia del matrimonio e della famiglia ci dice, in maniera chiara, come ci sia una continuità tra il sacramento del matrimonio e il sacramento dell’ordine.
La stessa “Familiaris consortio” ci dà un’immagine della famiglia che è in realtà concepita come realizzazione della comunione ecclesiale, cioè della Chiesa definita Koinonia..
Nel rapporto coniugale, quando l’uomo e la donna diventano una unidualità, essi – in forza del sacramento, sono il segno vivente della manifestazione della comunione feconda della Chiesa..La famiglia infatti è chiamata a vivere la stessa missione della Chiesa ed è pienamente inserita nel ministero profetico, sacerdotale e regale di Cristo.
In questa nuova prospettiva la coppia investita della chiamata presbiterale dell’uomo, in realtà, è nella continuità della vocazione coniugale e familiare e ne porta a pienezza il senso ecclesiale.
Nella lettera alle famiglie del 1994, Giovanni Paolo II, commentando la Lettera agli Efesini 5,32 affermava : “ Non si può comprendere la Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, come segno dell’alleanza dell’uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al grande mistero congiunto della creazione dell’uomo maschio e femmina e alla vocazione di entrambi all’amore coniugale, alla paternità e alla maternità. Non esiste il grande mistero che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il grande mistero espresso nell’essere una sola carne, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio e come “chiesa domestica” essa è sposa di Cristo.
La Chiesa universale ed in essa ogni chiesa particolare si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella chiesa domestica e nell’amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni.
L’amore umano è forse pensabile senza lo Sposo e senza l’amore con cui Egli ci amò fino alla fine ? Solo se gli sposi prendono parte a tale amore e a tale grande mistero, possono amare fino alla fine. O di esso diventano partecipi, oppure non conoscono fino in fondo che cosa sia l’amore e quanto radicali siano le esigenze[2].
Anche la coppia sacerdotale è chiamata a diventare con la propria esistenza coniugale e sacerdotale, l’immagine viva dell’unità profonda di questa grande mistero: sia in quanto famiglia-matrimonio sia in quanto comunità-chiesa.
In realtà il prete sposato vive l’unità di questi due misteri in modo più profondo perchè nel presbitero-uxorato non c’è soltanto il rinvio simbolico tra famiglia e comunità ecclesiale, ma c’è la coincidenza perchè la famiglia diventa, in qualche modo, comunità ecclesiale e viceversa. Sono l’unica chiesa che si manifesta in due forme omologhe e concentriche.
L’amore coniugale di colui che è chiamato al presbiterato nell’unidualità della comunione coniugale, è destinato ad essere immagine viva di quell’amore dello sposo Cristo che pone la propria vita per la Chiesa -Sposa
Il clero-uxorato mostra, quindi con la sua esistenza la vocazione ecclesiale piena di ogni matrimonio cristiano e l’unità profonda della manifestazione del grande mistero della chiesa domestica e della chiesa comunità.
Questo perché il matrimonio ed il presbiterato, nella mente di Dio, non sono mai stati in contrapposizione, ma in continuità ed unità tra loro[3].
La vita del cristiano come la vita del prete sposato si fa Vangelo, quando all’interno della comunità ecclesiale, egli diventa con la sua famiglia un annunciatore ed un testimone di liberazione, di comunione e di misericordia.
In tal modo tutti i presupposti che regolano la vita dell’uomo che attualmente sembrano obbedire soltanto all’economia, possono essere ripensati con gli occhi degli esclusi e ritrovare l’alleanza con la natura, superare la logica delle divisioni e guardare insieme al futuro dell’uomo.
Credo proprio che non ci siano ragioni, nè giustificazioni plausibili per continuare ad ignorare - da parte di molti vescovi diocesani - la positiva presenza della famiglia del prete-sposato nella comunità ecclesiale diocesana e parrocchiale; per continuare a chiudere ermeticamente le porte della mente e del cuore ad ogni forma di dialogo e collaborazione con questa porzione del Popolo di Dio, perchè tutti siamo chiamati a “costruire” insieme il “Regno di Dio” nel cuore dell’uomo.
P. Giuseppe dal’Abruzzo (nadirgiuseppe@alice.it)
NOTE
[1] Ricordo che i ministri del sacramento del matrimonio sono gli sposi, non il prete che celebra l’Eucaristia.
[2] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 1994 – Supplemento all’Osservatore Romano.
[3] Cfr. Don Basilio Petrà, Clero uxorato: una ricchezza ecclesiale che si vuole occultata, in Adista 28 ottobre 2006, p. 8-10.



Martedì 01 Aprile,2014 Ore: 15:54
 
 
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