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www.ildialogo.org Il prete-sposato e il suo ruolo di profeta nella comunità ecclesiale,di p. <i>Nadir Giuseppe Perin </i>

Il prete-sposato e il suo ruolo di profeta nella comunità ecclesiale

di p. Nadir Giuseppe Perin

Ringraziamo di vero cuore il nostro carissimo amico p. Nadir Giuseppe Perin, prete-sposato dal 1968, per questo approfondimento che ha scritto per il nostro sito come contributo al dibattito sul tema dei preti sposati. Nell'email di accompagnamento a questo articolo l'amico Giuseppe ci scrive si tratta di «una riflessione sui preti sposati che spero possa aiutare tutti noi "preti-sposati" a vivere la nostra vita di uomini, di cristiani e di preti-sposati con maggiore serenità, fiducia, impegno e testimonianza, assieme a colei - la nostra sposa - che ha accettato di condividere con noi la sua vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... ed io aggiungo non finchè morte ci separerà, ma fino a quando, oltre la morte la nostra vita zampillerà, ancora insieme, nel cuore di Dio, in un cielo senza tempo ed in un tempo senza fine».
p. Nadir Giuseppe Perin è dottore in Teologia dogmatica presso l'Università Pontificia dell'Angelicum in Roma; specializzato in Teologia Morale all'Università Lateranense - Accademia Alfonsiana di teologia Morale; Diplomato in Psychiatric Nursing presso la Mental Health Division di Toronto; specializzato in scienze psicopedagogiche presso l'Università di magistero dell'Aquila. Per contatti: nadirgiuseppe@alice.it )

Parlare o scrivere dei “ preti-sposati”, perché l’argomento è di moda, o per “dare tono” ai nostri incontri da salotto quando si condivide una “tazza di thè” con gli amici, può sembrare  molto facile. Ma parlarne senza suscitare scandalo o meraviglia nelle persone che ascoltano o ti leggono allo scopo di  aiutarle a crescere verso una fede più matura e responsabile, diventa  veramente difficile! Se poi l’oggetto della riflessione è il prete-sposato nel suo “ruolo di profeta” nella comunità ecclesiale, si rischia di confondere ancor più le idee su un tema così delicato ed importante come quello dei preti-sposati, dal momento che pochi conoscono cosa vuol dire “profeta” o “profetismo”.
Non ci sono dubbi che la nostra fede cristiana, a partire dalla sua radice ebraica, sia sostanzialmente profetica. Se la profezia è il modo con cui Dio rivela il suo volere nella quotidianità della storia dell’uomo, il profeta è tale, non perché legge il futuro, ma perché riferisce l’oggi della storia dell’uomo alla volontà salvifica di Dio.
Profeti non si diviene per le qualità del proprio ingegno, ma per lo Spirito di Dio che chiama l’uomo a “fare la Sua volontà”.  La profezia ha come termine di riferimento il volere di Dio e il suo agire nella storia dell’uomo affinchè la storia che risulta da quell’operare di Dio sia riferita alla sua volontà. Allora, il profetismo  è un dischiudersi della storia al senso che viene da Dio”.  
 Detto questo proverò ad illustrare il tema di questa riflessione perché anch’io – da più di quarant’anni - sono un prete sposato ed ho il vantaggio di avere quale fonte di conoscenza dell’argomento la mia esperienza personale
Già nel 2005, considerando la situazione di isolamento e di emarginazione vissuta dai preti-sposati quando “lasciano l’Istituzione Chiesa”, scrissi il libro “uomini senza collare – sacerdoti senza ministero” nel quale chiedevo: ”Che cosa, la comunità ecclesiale, potrebbe fare di più nel Terzo millennio di vita del Cristianesimo, perché la presenza del prete-sposato nelle varie comunità parrocchiali del mondo, da scomoda ed ingombrante per molti, potesse diventare per tutti un dono prezioso di Dio da valorizzare per la “costruzione” del Corpo Mistico di Cristo”, cioè per il bene della stessa comunità ecclesiale” ?
Mi sono accorto però che le risposte a questa domanda potevano rispecchiare la carenza di “qualcosa , più che la carenza di Qualcuno,”.
Perchè un prete sposato, per superare l’isolamento e l’emarginazione in cui è costretto a vivere dalla “Gerarchia della Chiesa” che intorno a lui ha fatto terra bruciata, vorrebbe ritornare a fare il prete? Per “ essere ancora uno che conta nella comunità ecclesiale” ? Per riavere  “quella visibilità personale perduta”?  Per la nostalgia di un pulpito dal quale impartire lezioni di comportamento morale, civile, sociale ? Nostalgia di un altare dietro il quale poter ancora “pontificare” rivestito dei sacri paramenti, circondato dal profumo dell’incenso, della musica, dei canti e delle luci? Per sentirsi ancora una volta “l’uomo del sacro”, dopo “essere stato ridotto a livello dell’uomo del profano” ? Per soddisfare il suo narcisismo di avere ancora, davanti a sé, l’amabile pubblico della “religione” dal quale poter essere coccolato e stimato come padre e maestro ?
Ma, il poter ritornare a fare il prete come prima, avendo ora moglie e figli, permanendo lo stesso contesto ecclesiale “immutabile ed immutato” è sempre stato, fin dall’inizio, “un sogno nel cassetto”, una cosa impossibile da realizzare!…Tanto più che un prete che si sposa usualmente è considerato come una persona che è contro “ l’ istituzione Chiesa; contro il potere costituito di questa; contro suoi certi meccanismi organizzativi; contro certe prassi e teorie diffuse. Anche se tale atteggiamento non qualifica automaticamente la persona come profeta, perché la profezia non è semplicemente anticonformismo, né rifiuto anarchico di qualsiasi istituzione, né tanto meno una forma di autoreferenzialità o il presuntuoso atteggiarsi a salvatore della Chiesa.
Il profeta non è mai la luce, ma viene per rendere testimonianza alla luce ( Gv 1,7).
 
Sono sempre stato convinto che ci fosse un altro modo per poter uscire dall’oscurità e dall’emarginazione, per “creare nella comunità ecclesiale una mentalità ed un atteggiamento diverso nei confronti del prete-sposato”. E, il modo migliore mi è sembrato quello di avere, da parte del prete-sposato, all’interno della comunità ecclesiale, un comportamento da “vero profeta” facendo del proprio stile di vita un annuncio, una testimonianza ed una “sintesi sacramentale” tra matrimonio e presbiterato, in quanto ambedue sono vocazioni dello Spirito.
Qualcuno, forse, si “strapperà le vesti” per queste affermazioni. Ma se la profezia cristiana è riconoscere sempre e comunque, a qualsiasi costo, che Gesù Cristo è da Dio; è mettere alla prova ogni ispirazione e provare che viene da Dio (1Gv 4,1-6); è modellare la propria vita con quanto si annuncia, nonostante i limiti immancabili di ciascuno, credo che quanto affermato corrisponda a verità.
In che senso?  Nel senso che il prete-sposatopuò essere, per l’intera comunità ecclesiale, un esempio ed un testimone credibile – attraverso la sua fedeltà sincera e profonda alla parola di Dio e con una condotta di vita coerente - di quello che a voce è sempre stato affermato,   cioè “ che non c’è alcuna incompatibilità tra il sacramento del matrimonio e il sacramento dell’ordine” per cui gli impegni assunti nei due stati di vita: quello matrimoniale e quello presbiterale possono essere attuati con generosità e dono di sé a servizio dei fratelli, da una stessa persona.
Dall’uomo sposato che si dedica con amore alla conduzione della vita familiare e all’educazione dei figli, assieme alla propria moglie e dallo stesso uomo sposato, ordinato prete che è ugualmente in grado di dedicare la propria vita, in pienezza e con generosità, al servizio del gregge a lui affidato.
Nella Chiesa Cattolica Orientale,d’altra parte, accanto ai preti che liberamente hanno scelto di non sposarsi e quindi sono celibi, vivono ed operano nel ministero - fin dalle origini del cristianesimo - anche i preti-sposati che sono sempre esistiti, a cominciare dagli Apostoli.
Nel can. 375 del CCEO si dice espressamente “ i chierici coniugati offrano un luminoso esempio agli altri fedeli cristiani nel condurre una vita familiare e nell’educazione dei figli”. E, il Concilio Vaticano II “esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato, quando erano nello stato matrimoniale a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita al gregge loro affidato”(cfr. Presbyterorum Ordinis, 16/1297).
 
Avere il dono della profezia, ed “essere profeta”  non significa “essere capaci di predire il futuro”, né è un compito riservato solo a chi fa parte della “chiesa gerarchica” ma è dato a tutti i discepoli del Signore e quindi anche al prete sposato, come viene affermato dagli stessi Padri del Concilio Vaticano II , nella Lumen Gentium (35) : “Cristo, il grande profeta, il quale con la testimonianza della sua vita e con la potenza della sua parola ha proclamato il Regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per mezzo della gerarchia che insegna in nome e per la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici che perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede, della grazia e della parola ( cfr At 2,17-18; Ap 19,10) perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale”.
 
In questo momento della storia della salvezza, in cui emergono tante problematiche che rendono il volto di Cristo così piagato e sanguinante, la Chiesa profetica dei laici chiede da molto tempo, a gran voce e con insistenza - alla gerarchia della chiesa- prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema semper lex esse debet” ( can. 1752) – che
1) venga tolta “l’obbligatorietà del celibato” per tutti coloro che sono chiamati al ministero presbiterale, perché tra un presbitero celibe ed un presbitero sposato non c’è alcun differenza se, nel rispetto del diritto naturale di ogni uomo e di ogni donna di potersi sposare, ciascuno ha potuto scegliere in piena libertà e senza alcuna imposizione canonica, lo stato di vita ritenuto per lui più confacente !
 2) i candidati al presbiterato non vengano tolti dal loro ambiente naturale per metterli in Seminario, fin dalla giovane età, ma lasciati nella  comunità in cui sono nati, per essere educati ad una maturità relazionale, affettiva e sessuale, intellettuale e sociale, partendo dalla famiglia e attraverso la scuola, la parrocchia; i luoghi d’incontro e di socializzazione; l’università dove ci si prepara professionalmente agli impegni della vita;
3) uomini sposati (probi viri) possano essere ordinati preti;
4) gli stessi diaconi sposati possano accedere al presbiterato per il bene della comunità;
5) ai preti-sposati venga data la possibilità di collaborare con i pastori della comunità parrocchiale in modo attivo almeno in tutti quei ministeri ( nessuno escluso) che anche i laici a ciò preparati possono svolgere.
6) infine, ai preti sposati sempre per il bene delle anime venga data la possibilità di esercitare ancora il ministero, pur non facendo più parte dello stato clericale, qualora ci sia la piena disponibilità da parte loro, avvalorata da una testimonianza evangelica di vita e venga richiesto dal vescovo diocesano del luogo in cui il prete-sposato è conosciuto e vive con la sua famiglia.
Questi dovrebbero essere  i primi passi da fare, necessari affinché spunti l’alba di un nuovo giorno per la Chiesa .
Del  giorno in cui il prete, anziché tormentarsi o escogitare situazioni che offendono la bellezza dell’amore e la dignità delle persone che ne sono coinvolte, è capace di dire “SÌ” a Dio che lo chiama a vivere l’amore, il matrimonio, la paternità, non come stato di vita in contraddizione con la vita presbiterale, ma come segno di una maggiore capacità di respiro.
Del giorno in cui il prete ha il coraggio di comunicare al proprio vescovo e alla sua stessa comunità, l’amore verso “questa donna”, non perché la considera come “il rimedio della sua concupiscenza”, ma come la “donna biblica”, creata ad immagine e somiglianza di Dio e che Dio ha messo al suo fianco per condividere con lei il dono della vita e dell’esistenza.
Del giorno in cui, per questa nuova bellezza incontrata, il prete sposato può dire, assieme alla sua comunità, un sincero grazie a Dio perché convinto che la sua vita, in questo modo può essere non solo più serena e gratificante, più piena e più ricca, ma anche evangelicamente più vera.
Del giorno in cui il prete che si sposa, sceglie di farlo senza rimorsi, né rimpianti perché ha maturato in sé la coscienza di avere anche lui il diritto ed il dovere di accogliere  l’amore coniugale e, assieme alla sua sposa, mettere con gioia, generosità e dedizione le loro vite a servizio della comunità.
 
E’ vero che il piccolo seme contenuto in un’idea, affinché possa portare i suoi frutti, deve passare molto tempo, ma per germogliare ha bisogno di trovare nella gerarchia della Chiesa delle “persone profetiche” e coraggiose e nella comunità ecclesiale un terreno fertile ed accogliente.
Sono convinto che la “sporcizia” che si riscontra nella comunità ecclesiale - come gli scandali legati al crimine di pedofilia di cui si sono resi colpevoli alcuni del clero; il comportamento di altri preti che pur restando nel ministero continuano ad avere le amanti segrete; preti che sono diventati                    “padri naturali”, ma non vogliono riconoscere i loro figli, per “non perdere il posto”…. - non vada nascosta, ma lavata e purificata.
Al grido di dolore proveniente da più parti del Popolo di Dio – per la diminuzione del numero di coloro che assecondano la chiamata al servizio presbiterale ; per il continuo e silenzioso “lasciare il ministero” da parte di altri preti – per cui sulla porta di molte chiese parrocchiali bisognerebbe appendere il cartello “ preti cercasi”-   la gerarchia ecclesiastica non dovrebbe fare “le orecchie da mercante”, ma uscire dallo stato di “cofosi” o sordità totale in cui si trova per seguire con coraggio e spirito profetico il nuovo cammino che lo Spirito Santo, vivente nella comunità dei discepoli del Signore, con insistenza, le sta indicando.
Non dimentichiamo quelle comunità nelle quali ci sono preti e donne che con dolore, ansia, trepidazione non hanno ancora il coraggio di prendere quelle decisioni che considerano molto importanti per la loro vita : come quella se continuare a “fare il prete” oppure “smettere”… se continuare ad essere la moglie segreta del prete oppure smettere… perché non sanno poi come affrontare la vita in modo dignitoso ed onesto. Altri preti si sentono  “incatenati” dentro un abito, diventato ormai “troppo stretto”, ma che ugualmente e necessariamente cercano di tenere “pulito”. Altri preti che si ritengono degli “eletti” o dei “prescelti” continuano, invece, pur di salvare la faccia, a “triturare, con ipocrisia e cinismo, il cuore” di molte donne che  passando accanto a loro, sono state illuse di poter condividere con loro tutto quello che di bello e di buono c’è nella  vita, fatta di sogni, progetti e ideali.
 
Ma gli ostacoli che impediscono o rallentano il sorgere dell’alba di un nuovo giorno per la Comunità ecclesiale provengono sia dalle stesse comunità e sia da coloro che sono stati preposti a pastori del gregge.
Dalle stesse comunità :  perché per troppo lungo tempo, il popolo di Dio, è stato escluso e continua ad essere escluso da ogni decisione importante riguardante la sua stessa vita! Per questo si incontrano delle comunità “pigre” nel pensiero e nell’ azione; immobiliste; indifferenti; tradizionaliste; assenteiste da ogni forma di visibilità di testimonianza cristiana; comunità che delegano tutto alla Chiesa, ristretta nel suo significato al “clero”  per cui, molti  “laici” non si sentono più parte della Chiesa.
E’ vero che noi in quanto “umani” abitiamo spazi, tempi, abbiamo relazioni, emozioni, idee, sentimenti, ma spesso non sappiamo come. A volte ci sentiamo pienamente inseriti nel nostro ambiente di vita e sereni, altre volte estranei e paurosi. Ogni relazione è la nostra terra e al tempo stesso il nostro esilio o la terra del nemico.
Durante il soggiorno in questa vita, infatti, diceva S. Agostino, i cuori sono nascosti ai cuori. E poiché i nostri segreti pensieri ci sfuggono, reciprocamente noi ci prestiamo dei sentimenti che non abbiamo”.
I nostri ambienti, le nostre chiese sono diventate luoghi di tante prestazioni, dove si amministrano i sacramenti, ma di poche relazioni serie e mature. Non si può fare comunità nel nome di Cristo “prestandosi” a chiunque, per caso o per guadagno. La crisi dei nostri ambienti è dovuta forse alla carenza di un alto profilo etico. Per questo esse sono diventate dei semplici luoghi di prestazione e spesso anche di vendite, perfino di sacramenti – anziché luoghi di relazioni autentiche tra persone.
 Per conservare questa eticità alle nostre relazioni sia a livello comunitario che personale bisogna avere il coraggio di dire molti “NO”, spesso anche difficili : no al guadagno facile, no alle tante ingiustizie e mafie, no alla vita comoda, no all’invidia, no all’avarizia, no all’abuso di potere, no all’apparire, no al culto della personalità; no al consenso ad ogni costo. Come bisogna anche saper cogliere i relativi “SI” come una sfida a vivere pienamente la vita.  
Solo quando avremo il coraggio di “sposare” le nostre relazioni “pienamente”, orientandole verso un progetto di qualità, esse diventeranno luogo di serenità e di gioia, nonostante le negatività ed i problemi che non mancano mai[1].
 
Ma le difficoltà provengono anche dalla gerarchia ecclesiastica, soprattutto da parte di quella che ama farsi etichettare come “conservatrice, e che, pertanto, resiste a qualsiasi cambiamento, anche se richiesto dal “bene delle anime”.
E’ innegabile che ci siano alcuni ambienti cattolici che sono diventati terribilmente impermeabili, refrattari alla profezia. Sono quegli ambienti che “oscurano” le persone e le singole comunità che cercano di conservare uno stile profetico. Le logiche di questo oscuramento o annientamento della profezia sono quelle tipiche di tutte le istituzioni fortemente in crisi.
Il primo sintomo del loro grave disagio è proprio quello di non accogliere le voci profetiche proprio perché queste puntano il dito su quelle zone d’ombra della vita comunitaria e che tali devono rimanere: come la gestione del potere; i preti sposati; la facoltà di scelta e di nomina dei responsabili, l’amministrazione delle risorse finanziarie; aspetti di vita comunitarie su cui difficilmente le istituzioni sono disponibili a farsi mettere in crisi e a rinnovarsi.
E coloro che hanno il coraggio di presentare delle proposte di rinnovamento dell’istituzione in cui operano, si ritrovano ad affrontare, molto spesso, una serie di calunnie, diffamazioni, sospetti, insinuazioni, oppressione psicologica, menzogne, ricatti [2]
La profezia ed i profeti hanno poco spazio là dove c’è la supremazia dell’istituzione sull’amore (Charitas), del potere sul servizio, degli affari sulla condivisione.
Per molti di questi conservatori quello che conta è la Tradizione per cui, a riguardo del celibato dei preti dicono che non si può interrompere una tradizione così importante nella storia della Chiesa, come quella del celibato! Fingono però di non capire che ciò che viene chiesto a gran voce dalla maggioranza del Popolo di Dio, non è di togliere il celibato, ma di togliere “l’ obbligatorietà del celibato” per i preti.
Ciò che fa parte della Tradizione millenaria della Comunità Ecclesiale, esistente quindi fin dalle origini della Chiesa, è il presbiterato che veniva esercitato sia da chi era sposato, come da chi, liberamente aveva scelto di non sposarsi.
Mons. Romero diceva che “ LA TRADIZIONE”, chiamata da Peguy fedeltà, non deve essere confusa con le sue successive e specifiche realizzazioni che altro non sono che “ le tradizioni”. Rifiutare l’antico è tanto comodo ed ingiusto quanto rifiutare il nuovo solo perché nuovo. C’è chi vorrebbe una rottura chiara con il passato per ripartire da zero, mentre altri si oppongono con resistenza sistematica ad un rinnovamento e adattamento, preferendo di fatto l’immobilismo.
Se la prima posizione è ingiusta e persino infantile, la seconda implica mancanza di fede in Gesù e nella presenza ed azione dello Spirito Santo nella Chiesa, oltre che una forte dose di paura, di egoismo o di comodità.
I conservatori – diceva il card. Suenens- confondono frequentemente LA TRADIZIONE con le tradizioni ed i progressisti, la libertà con l’anarchia. Mentre il Concilio Ecumenico Vaticano II ha operato una sintesi vitale di queste due forze :  la tradizione e la libertà”.
I conservatori di solito sono delle  persone che preferiscono le certezze ai dubbi; che preferiscono la quantità alla qualità; che ritengono di avere raggiunto la preminenza culturale rispetto ad altri; che tendono ad accrescere nella comunità più i loro privilegi, che mettersi a servizio degli altri, a dispetto di quello che ha detto Gesù “ non sono venuto per essere servito, ma per servire”; che preferiscono vivere dentro una istituzione molto gerarchizzata e clericalizzata, per non perdere il loro potere, piuttosto che in un contesto dove le scelte da fare vanno condivise e compartecipate ; che dimostrano disattenzione alla formazione e promozione del laicato, perché hanno paura che i laici possano superarli nella qualità del servizio offerto alla comunità.
Si sa che, per definizione, le quantità si contendono lo spazio con altre quantità, mentre le qualità si completano a vicenda.
Dove ci sono molte quantità è facile imbattersi in pastori e laici che vivono un rapporto di concorrenza, alla stregua di merci, che si contendono lo spazio della comunità per raggiungere più “compratori” possibili o posizioni preminenti. Sono quei contesti comunitari di basso profilo, dove i contenuti scarseggiano, la vita comunitaria è appiattita su uno stile da comitiva ( pizza, cene e viaggi), ma dove i rapporti sono rovinati da invidie, gelosie, rivalità e così via.
In queste comunità, i pastori tendono a non fidarsi dei laici e i laici dei loro pastori. Ognuno va per la sua strada. L’attenzione dei pastori è posta non a far crescere la comunità, ma ad accrescere la propria posizione, il proprio io, i propri interessi con tutte le patologie annesse e connesse, come il clericalismo, il narcisismo,l’autoritarismo, l’incoerenza.
In una comunità che vive secondo un modello quantitativo, si tende a “contare” quanti sono quelli che vanno in chiesa, quanti ricevono i sacramenti…trascurando l’aspetto più importante che è quello della qualità, cioè il modo di vivere la propria fede nel mondo senza essere del mondo.
Questa formazione di scarsa qualità facilmente degenera ed amplifica poi gli stessi processi di quantità. In queste comunità i numeri finiscono per contare più della qualità formativa delle persone, cioè della maturità psicologica e etica che si esprime nel modo di progettarsi ed attuarsi nella quotidianità. Sono comunità dove l’apparire conta più dell’essere … e dove la carenza di qualità si estende anche all’aspetto umano, teologico, spirituale e pastorale a discapito della formazione dei laici.  
La parola di Dio non si può portare in capo al mondo in una valigetta, ma solo in sé e sopra di sé. Purtroppo nelle comunità, sopra descritte, ci sono molti “commessi” della Parola di Dio e molte “valigette” dentro le quali è nascosta “la Buona Notizia” , ma ritoccata, mutilata, attenuata. Con la conseguenza che le risposte che si danno alle varie problematiche che affliggono la comunità ecclesiale, rischiano di essere, a loro volta, mutilate ed attenuate.
Ma non basta essere profeta, bisogna anche essere un vero profeta. Gesù  stesso lo dice:                               “ Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in “veste di pecore”, ma dentro sono “lupi rapaci”! Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,15-16) .  
Nella S. Scrittura, i falsi profeti vengono “dipinti” come persone “avide di guadagno” che non esitano a ricorrere alla menzogna sistematica per ottenerlo ( cfr. Ger 6,13). Quel che li muove non è la passione per la Parola del Signore ( Ger 20,9), ma il languore del loro stomaco; ai falsi profeti non è lo Spirito ad aprire la bocca, ma la loro ingordigia : “ così parla il Signore ai profeti che sviano il mio Popolo e che gridano “Pace”, quando i loro denti hanno qualcosa da mordere, ma dichiarano “guerra santa” contro chi non mette nulla nella loro bocca” ( Mi 3,5).
Come si fa a distinguere un vero profeta da un falso profeta ? 
Il criterio espresso in Matteo è la coerenza di vita con quello che il profeta insegna. “ Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi? Così ogni albero buono fa frutti buoni, ma l’albero marcio fa frutti cattivi” ( Mt 7,16-17).
Chi ha pienezza di vita la comunica; invece, chi è marcio  trasmette solo marciume e nessun incenso riuscirà mai a coprire il tanfo di una vita falsa ( Is 66,3).
Per Gesù chi non comunica vita è già morto e come tale va “tagliato e gettato nel fuoco” ( Mt 7,19). Per questo Gesù si rivolge ai falsi profeti con una formula di rifiuto che esprime l’irreparabile separazione tra il Maestro e i discepoli: “ non vi ho mai conosciuto, allontanatevi da me, costruttori del nulla” ( Mt 7,23).
 
Il prete-sposato, allora, chiamato ad essere un operaio- vero profeta nella vigna del Signore – come tutti gli altri discepoli del Signore - è colui la cui identità e comportamento assomiglia alla identità e al comportamento di Gesù; il cui  agire è la conseguenza dell’adesione a Lui e dell’identificazione con la sua persona; le cui parole possono avere effetto sugli uomini unicamente se pronunciandole  le vive, perché è solo così che  la Parola si fa carne ( Gv 1,14).
 
Concludendo posso dire che il prete-sposato è “vero profeta” nella comunità parrocchiale in cui vive quando con la sua vita, testimonia di essere: una persona profondamente inserita nella storia degli uomini d’oggi; un credente maturo nella fede; capace di vivere la propria vocazione con serietà e competenza, senza arrivismi o disimpegni; una persona che sa coltivare relazioni vere con tutti; capace di rapporti con gli altri; sensibile a conoscere e capire problemi e fenomeni che caratterizzano la cultura – civile e religiosa – di oggi; capace di confronto con ogni situazione, senza rigidità o faciloneria; ricco di virtù civiche che lo fanno, anche agli occhi degli altri, persona che manifesta una viva sensibilità sociale; una persona “Sincera, docile e disponibile; uomo di comunione e non di parte; una persona che non segue i propri progetti personali, ma è attento ai piccoli, ai poveri, agli ultimi; un cristiano adulto nella fede, che ha attinto e continua ad attingere da una solida vita di preghiera, nell’assidua meditazione della Parola e nella partecipazione attiva alla vita della Chiesa, lo stile e la forza per essere un vero testimone del Vangelo, un marito ed un padre esemplare perché la sua stessa vita di matrimonio assunto, a suo tempo, con dedizione ed amore e che ha dimostrato avere “una durata ragionevole a garanzia della sua stessa stabilità", è un segno ed una testimonianza di maturità spirituale, attraverso uno stile di vita sobrio, ispirato a povertà evangelica, capace d’abbandono fiducioso alla Provvidenza. 
 
Lo so per esperienza personale che si tratta di un compito molto impegnativo, ma è l’unica vera testimonianza che noi preti-sposati possiamo dare per essere credibili ed inconfutabili quando scriviamo che tra il sacramento del matrimonio e il sacramento dell’Ordine non c’è alcuna incompatibilità, ma si possono integrare qualitativamente a vicenda, quando queste due vocazioni sono vissute da una stessa persona che si chiama “prete-sposato”.
Bisogna, però avere il coraggio di “cercare la verità” che ciascuno di noi porta dentro di sé, perché solo la verità ci può rendere delle persone libere e responsabili delle proprie scelte.
Questo cammino verso la libertà ci è stato tracciato da Gesù stesso: “Se rimarrete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32) da tutti quei condizionamenti che vi impediscono di “cingervi del grembiule” per farvi servi agli altri nell’amore (Charitas)” ( Gal 5,13).
 
p. Giuseppe dall’Abruzzo.
 


[1] Per saperne di più sul “ perché la Chiesa Cattolica italiana è oggi poco profetica” suggerisco di leggere le riflessioni di Rocco d’Ambrosio affidate al suo libro dal titolo “ Cercasi profeti”, Edizioni la meridiana.
[2] cfr. Rocco D’Ambrosio, Cercasi Profeti, Ed. La Meridiana, p.12-13.
 


Luned́ 24 Maggio,2010 Ore: 14:39
 
 
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