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www.ildialogo.org Un progetto di vita solidale,a cura di Carlo Castellini

Un progetto di vita solidale

a cura di Carlo Castellini

Intervista a Franco Masoli, missionario comboniano e Teresa Langarita, operai e protagonisti della missione in Mozambico, dove ritornano dopo tanti anni come coppia di sposi, ma con un progetto. Ne parliamo con loro


Dopo averlo ascoltato più volte parlare con entusiasmo del suo Mozambico, e di ciò che ha fatto per la sua Africa, e come sul campo della sua missione, abbia incontrato l'anima gemella della sua vita, la sua futura moglie, nella suora spagnola TERESA LANGARITA,mi è venuta voglia di saperne di più sul suo conto, perchè avevo intuito una vita operosa, sofferta e difficile, ricca di soddisfazionni, ma anche di incomprensioni. Ho chiesto quindi a Franco Masoli, di rispondere alle domande della mia intervista, circa la sua vocazione, la sua famiglia, l'esperienza nel seminario di Rovigo, e l'ingresso e la formazione ricevuta nei seminari comboniani. Come sempre non si sottrae alle domande il nostro interlocutore, che ora lavora presso il centro handicappati adulti della Casa di don Giovanni Calabria, dove ha lavorato per tanti anni, in mezzo ai ragazzi handicappati gravi, dai quali è stato accolto, con simpatia e affetto. Ora vive con la sua famiglia a  Verona, e tra alcune settimane si appresta a ritornare con la moglie TERESA, nel suo Mozambico, per seguire più da vicino, gli sviluppi di un progetto solidale che porta avanti con altre famiglie, a favore dei meno abbienti.(CARLO CASTELLINI)
1. Franco, descrivi brevemente la famiglia in cui sei nato. Qual è stato il tuo rapporto con genitori e fratelli?
La mia è una comune famiglia della terra polesana, inserita nel periodo storico attorno alla seconda guerra mondiale. Fiesso Umbertiano è il paese natale dove ho vissuto la mia infanzia con i miei fratelli. Quando avevo 4 anni ed esattamente nel 1945, nel giro di sei mesi, morirono tre sorelle, per malattie contratte nel tempo della guerra. Avevano 10, 13 e 16 anni. Un fratellino morirà appena nato e vivremo per tanti anni in cinque fratelli e una sorella.
Il nostro rapporto con i genitori è quello tipico di quel tempo del pater familias e della mamma che dona la sua vita per crescere i figli, specialmente dopo la morte del marito che avverrà nel giorno della Pasqua del 1960, all’età di 58 anni.
2. Tanti fratelli e sorelle mi pare di capire: sei entrato in Seminario perchè di famiglia numerosa o per vocazione?
Famiglia povera e numerosa, ma certamente non fu questo il motivo della mia entrata nel Seminario diocesano di Rovigo. Ho fatto gli esami di ammissione alle Medie di nascosto da mio padre. Mi sono preparato a far tutti gli esami a settembre con l’aiuto gratuito della maestra Clara Scagnolari. Una volta promosso ho affrontato mio padre al quale avevo promesso di andare al lavoro come aiutante meccanico di biciclette. Lui era senza lavoro ed ha fatto fatica a darmi il permesso, ma non ha fatto grandi storie. Sono entrato sinceramente per una vocazione che secondo me è nata per le mie attività in parrocchia: azione cattolica, chierichetto, amicizie, ma un peso rilevante credo che l’abbia avuto la mia maestra elementare Dirce Natali con i suoi appassionati racconti sulla vita di Gesù e per il suo esempio. Sì, credo che la mia fosse una risposta ad una chiamata, naturalmente con le mie esperienze e capacità di tredicenne.
3. Quali ricordi son rimasti del Seminario di Rovigo? Dei tuoi educatori, direttori e docenti?
Nel Seminario di Rovigo sono rimasto nove anni per le Medie, il Ginnasio ed il Liceo classico, comprendendo una bocciatura in seconda media. Disciplina dura, molto freddo, ma i ricordi sono bellissimi. Grande amicizia tra noi seminaristi e una buona serenità nonostante le difficoltà. Ero piuttosto scapestrato e desideroso di più libertà. Una sera ho trovato una scala da pompieri e ne ho approfittato per metterla sotto la finestra del Rettore. Con berretto e giacca girati al contrario per farmi notare dalla centinaia di seminaristi in ricreazione, ho improvvisato un comizio contro quello che definivo sistema fascista, dove uno comandava e gli altri avevano solo il dovere di una santa obbedienza. Il superiore è apparso alla finestra e più lui mi prometteva castighi e mi diceva di andare via, più io dicevo:”Vedete? Questo è un esempio del sistema fascista”. Quella sera andai a letto senza cena. Non era la prima volta. Contestavo apertamente, e pubblicamente e questo infastidiva i miei educatori, eccetto qualcuno che mi apprezzava. Dai colleghi seminaristi ho sempre avuto manifestazioni di simpatia, così pure da vari docenti, nonostante io non fossi un buon alunno. Comunque, quando penso ai miei tempi di Rovigo, sento una nostalgia incredibile, anche se venata di tristezza.
4. Cosa e chi ha influito sul tuo ingresso nella Congregazione dei comboniani?  
Lasciare il Seminario per diventare missionario era una cosa che il Rettore non permetteva. Ero in corrispondenza con un padre comboniano, ma la posta in partenza ed in arrivo doveva passare aperta attraverso la censura del Rettore. Ho trovato un alleato nel vecchio padre spirituale che mi permetteva di usare la sua buca postale. All’inizio non mi interessava quale congregazione, solo volevo essere missionario. Leggendo, studiando e conoscendo qualche comboniano, ho avuto l’impressione che quello fosse il gruppo più idoneo alle mie caratteristiche.
5. Cosa ricordi della tua ordinazione sacerdotale? Prima di tale data, il celibato ti aveva creato qualche dubbio o problema?
Sono stato ordinato al mio paese nel marzo del 1969, con grande partecipazione dei miei compaesani. Per non pesare sulla mia famiglia ho fatto un pranzo sociale dove non hanno partecipato i giovani con i quali abbiamo fatto una cena qualche giorno dopo, liberi di poter agire senza l’occhio vigile di certe vecchie conoscenze. Di quella sera mi piace ricordare l’incontro con Toni birra, come sempre piuttosto brillo, ma non stupido. Ha alzato il bicchiere e ha detto: “Brindo al grande poeta!” Non voleva dire chi era, ma alle nostre insistenze cedette e indicandomi disse:”E’ lui. Primo perchè è figlio di un poeta e poi solo un poeta può intraprendere la vita che ha scelto lui”. Mi ha commosso. Desideravo veramente che la mia vita fosse un inno alla solidarietà. Prima dell’Ordinazione, ho avuto dei forti dubbi sulla tenuta del mio celibato e nel penultimo anno di teologia, mentre ero a Brescia, ho chiesto di andare a casa per un periodo senza scadenza. Ho pregato, pregato, pregato e sono tornato dopo un mese con la decisione di continuare.
6. Come hai maturato l'idea di partire per la missione? E' stata un'assegnazione d'ufficio da parte dei superiori o una scelta condivisa con essi?    
Qui tocchi un tasto delicato, ma ti rispondo. Prima della mia ordinazione ho espresso il desiderio di essere mandato in Mozambico subito. I superiori hanno deciso altrimenti e mi hanno mandato come educatore nel seminario comboniano di Sulmona. Eravamo in quattro ed abbiamo deciso di rivoluzionare il sistema educativo dei seminaristi. Avevamo aperto il Seminario alla realtà sulmonese e avevamo centinaia di giovani che ci frequentavano attraverso le attività sociali e religiose che noi realizzavamo. Eravamo negli anni ’68-’73. Anni di piombo. Eravamo un focolaio di iniziative. Non sto qui a spiegare cosa facevamo perché ci vorrebbero dei volumi. Il vescovo non era d’accordo con noi e sollecitava Roma per farci mandare via. Ci riuscì. Nel nostro ultimo incontro con il vescovo, noi e il nostro Padre Generale, sono stato espulso da sua eccellenza e questo ha fatto finire la riunione.
All’uscita dell’episcopio, il Padre Generale, dandomi una manata alle spalle, mi disse testualmente: “Va bene, ti sei conquistato il Mozambico”.
7. Come hai affrontato il problema della lingua e del clima?
La lingua ha richiesto un lungo cammino. Non potevo andare in Mozambico senza passare dal Portogallo, per una disposizione governativa portoghese in cui si diceva che non si poteva andare in nessuna terra coloniale senza prima aver appreso a leggere e scrivere correttamente il portoghese. Sono stato circa un anno a Lisbona. Alcuni mesi al Centro Audiovisual de Linguas, dove ho imparato il portoghese. Per metterlo in pratica ho lavorato al porto di Lisbona con la Stella Maris. La stessa organizzazione mi ha mandato come cappellano di bordo della nave Santa Maria che andava a Miami negli USA. Qui ho creato problemi per ottenere il permesso di celebrare nei bar di seconda e terza classe, visto che la cappella c’era solo in prima. Ho creato quattro gruppi di riflessione sul tema ‘Vangelo e Libertà’ e questo mi è costata la espulsione dal Portogallo e da qualsiasi terra portoghese sparsa nel mondo. Perciò, niente Mozambico. Ho deciso di andare in Malawi, quindi sono andato a Londra per studiare l’inglese. Dopo circa un anno, il 25 aprile 1974 il governo di Gaetano cade per opera dell’esercito. Chiedo il permesso di andare in Mozambico e lo stesso governo mi paga il viaggio. Nell’ottobre dello stesso anno arrivo alla missione di Marara dove, con l’aiuto di Padre Claudio Crimi, cerco di imparare la lingua del posto, il cinyungwe. Gli avvenimenti precipitano: il governo mozambicano nazionalizza tutte le missioni con annessi e connessi. Cominciano anche le espulsioni e mi sposto a Boroma dove sono insegnante di francese e portoghese. Andrò poi a Songo dove c’è una comunità di stranieri a causa della grande diga ivi costruita. Vado bene con il portoghese perché quasi tutti vanno a scuola, ma nei villaggi attorno non ci sono scuole e quindi trovo difficoltà con il cinyungwe che non ho avuto il tempo di approfondire. Girerò sempre con un traduttore. Un giovane, un giorno, mi disse: “Franco, ricordati che quello che conta non è sapere la lingua, ma testimoniare la tua amicizia con l’amore e la solidarietà”.
Il clima era il più caldo del Mozambico con poca differenza tra il giorno e la notte. Prendevo le pastiglie, ma ho preso varie volte la malaria. L’anopheles imperava. Ho faticato ad abituarmi.
8. Qual è stato il tuop primo impatto con la missione? Difficoltà? Lingua? Cultura? Politica?
Sono arrivato in Mozambico nell’ottobre del 1974 esattamente un mese dopo gli accordi di Lusaka che sancivano un governo provvisorio, creando un tempo di transizione utile al passaggio dal colonialismo portoghese all’indipendenza mozambicana. Un governo misto di rappresentanti del Portogallo e dei guerriglieri. Il FRELIMO a giugno del ’75 avrebbe preso definitivamente il potere con il nuovo presidente Samora Moisès Machel capo di questa ‘Frente de Libertacao de Mocambique’.
Il nuovo governo ha fatto una scelta politica dichiarandosi partito unico marxista-leninista. Uno dei primi passi è stato quello di dichiarare fuori legge qualsiasi religione, anche se la costituzione dava la libertà religiosa. La prima conseguenza è stata la nazionalizzazione delle missioni con le loro scuole, ospedali, officine: insomma ogni proprietà di qualsiasi ente religioso. Ogni religioso che volesse restare in Mozambico, doveva dimostrare di avere un lavoro, ma non legato a motivi inerenti alla religione. La maggioranza dei preti e delle suore, si sono buttati nelle scuole ed ospedali. Con la mia comunità, io vivevo a Songo in una casa in affitto di proprietà governativa. Tra le missioni di Boroma e Songo ho insegnato per dieci anni nella scuola secondaria. Dall’82 all’85 sono stato preside del liceo mozambicano, nominato dall’allora ministro Graca Simbine, moglie del Presidente Machel, morto in un incidente aereo, ed attuale compagna di Nelson Mandela. In questi tre anni sono anche riuscito a costruire la chiesa di Songo con una comunità clandestina seguita con Teresa, durante il periodo proibizionista. Celebravo in portoghese nella comunità di Songo, ma nelle cappelle sparse usavo il ‘cinyungwe’. Per le prediche mi facevo aiutare da un traduttore, che era sempre uno della comunità in cui celebravo.
Con la gente il rapporto era ottimo, pur con tutte le difficoltà esistenti nell’incontro di diverse culture, storia e visione umana e politica. Le celebrazioni religiose, dopo i primi anni, a Songo erano un avvenimento e uno spazio di libertà e di preghiera.
9. Poi però è scoppiato l'amore, hai incontrato e conosciuto Teresa. Quali ricordi del primo incontro?
Io e Teresa avevamo un’intesa sorprendente, specialmente nel periodo clandestino. Abbiamo lottato insieme. Lei contro le ingiustizie verso i poveri dell’ospedale, mandati a casa a morire anche se ci poteva essere una possibilità di guarigione: non dovevano morire in ospedale, altrimenti per il direttore era un guaio nella stesura delle statistiche. Non dovevano esserci dei morti, perché lui era bravo. Franco contro le vessazioni di rappresentanti politici e militari nella scuola. Abbiamo lottato insieme per riappropriarci del diritto di vivere la nostra religione. Uscivamo insieme per aiutare la gente del ‘mato’ a pregare, a lottare contro la fame e la malattia. La Messa durava anche 4/5 ore e lei, che era infermiera, curava gli ammalati in sagrestia. Abbiamo scoperto di avere una grande sintonia nel giudicare la situazione, nel rapportarci con le persone, nei metodi da usare, nel nostro rapporto interpersonale: un grande feeling! Le idee, le prese di posizione di fronte ad una dura realtà e la nostra affettività, ci hanno fatto avvicinare e capire che eravamo l’uno per l’altro. Abbiamo fatto di tutto per lasciarci, ma la lontananza ci intristiva. Stavamo bene insieme. Lavoravamo meglio insieme. E’ nato l’amore. Per sempre. Non c’è stato un vero primo incontro, ma un continuo lavorare con la gente, ci ha unito, ci ha fatto scoprire che quell’amore a due, aperto verso gli altri, era senza dubbio il nostro cammino di vita.
10. Quali difficoltà sono insorte con i superiori dell'Istituto?
Per i miei superiori è stata una sorpresa e tutto sommato hanno dimostrato grande comprensione. Il Padre Regionale Francesco Antonini mi è stato vicino, così pure i colleghi della provincia di Tete, diocesi mozambicana in cui attuavo. Il superiore generale mi ha fatto una proposta che non ho accettato. Gli ho spiegato che non potevo abbandonare la donna che amavo e che aspettava una figlia mia. Per la dispensa ho aspettato 5 lunghi anni, perché il provinciale d’Italia si era tenuto sul tavolo la mia domanda di secolarizzazione. Questo atteggiamento mi ha addolorato.
11. Ora però siete famiglia solidale: avete aiutato molto gli altri e lo fate ancora. Non è così
La nostra famiglia è piena di difetti caratteristici dei nuclei familiari di questo tempo. Da prete pensavo di avere ottime qualità per fare il genitore, ma la realtà mi ha dimostrato quanto è difficile e mi ha sbattuto in faccia una serie di errori e di sconfitte. A periodi di profonda gioia sono succeduti momenti di sconforto e delusione. E’ più facile fare il moralista ai piedi dell’altare.
Noi genitori frequentiamo in modo attivo la nostra parrocchia, ed anche le figlie. Il figlio non è interessato. Il senso della solidarietà credo che sia comunque il nostro pallino. Tutti abbiamo qualche attività di volontariato, talvolta realizzato insieme. Per questo adesso io e Teresa andiamo in Mozambico insieme. Non possiamo, comunque, presentarci come famiglia modello, perché credo che questa non esista.
12. Che cosa hai dato alla missione? E che cosa ha dato a te la missione?
Quando ero in missione, all’inizio, mi sentivo deluso, perché mi sembrava di fare troppo poco da un punto di vista pastorale. Scacciato dalla missione ad opera del governo, proibizione di culto pubblico, fuga di alcuni missionari, specialmente portoghesi, espulsione o prigione per altri. Il rapporto con le autorità non era proprio idilliaco. In un incontro dei membri politici con la popolazione di Boroma, dove io ero presente, sono stato presentato come il continuatore del sistema coloniale del Portogallo e della chiesa che ‘per secoli hanno succhiato il sangue al popolo mozambicano’. Col tempo mi sono inserito sempre più intensamente nella vita del popolo, specialmente attraverso la scuola e Teresa con l’ospedale. Da lì ai contatti quotidiani, i passi sono stati brevi e sicuri. Alla missione abbiamo dato vita e passione; umiltà e costanza; solidarietà e sorriso. Abbiamo donato le nostre competenze per lo sviluppo umano e spirituale; abbiamo condiviso con amore tutte le difficoltà della guerra, dell’oppressione, della fame.
Abbiamo ricevuto, dopo i primi momenti difficili, comprensione, amicizia, condivisione di ideali che ci univano alla gente in modo incredibile e di tanta ironia che ci aiutava a superare le difficoltà. La lotta del governo contro la chiesa ci ha avvicinato alla gente. C’è stata la solidarietà degli oppressi, noi e loro. Quando hanno impoverito la Chiesa con le nazionalizzazioni, è stato, noi crediamo, il momento storico più importante per il popolo di Dio. Senza strutture da mantenere, da ingrandire, da abbellire, noi siamo diventati ‘popolo’ e come tale meglio accettati dagli eletti di Cristo, secondo il Vangelo.
Abbiamo ricevuto così tanto che ora ritorniamo come a casa nostra, anche se lontani dalla zona dove avevamo operato. Ritorniamo in famiglia.
13. Come si presenta fuori e com'è dentro l'africano mozambicano?  
Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe qualche volume. Non mi riesce essere sintetico e spiegare com’è il popolo mozambicano, anche perché io ho vissuto in una particolare zona. I vari gruppi o tribù si differenziano molto perché hanno avuto un’influenza diversa, arabizzante o portoghese, musulmana o cattolica. Una cultura comune ce l’hanno specialmente gli animisti. L’animismo è tuttora ben presente nella realtà mozambicana. Hanno ancora fiducia nel ‘curandero’ che usa erbe e cerimonie per guarire dalle malattie. Purtroppo, spesso, lui riscontra, attraverso gli spiriti del passato che il male viene da qualche parente che potrebbe essere il padre, la madre o qualche familiare e che quindi bisogna eliminarlo fisicamente. Un catechista ha chiesto a me e a Teresa il permesso di uccidere suo padre, perché secondo il curandero, era lui la causa della malattia della figlia. Ci credeva fermamente, nonostante che lui fosse il responsabile della comunità cattolica del suo villaggio.
Padre Marchesini, sacerdote dehoniano e medico a quel tempo in Songo e collaboratore per un certo tempo col comboniano Padre Ambrosoli in Uganda, mi diceva che il popolo mozambicano si distingueva per il suo senso dell’ironia, per il suo rapporto interpersonale sempre socievole.
Noi abbiamo lavorato direttamente con giovani ed adulti ed abbiamo scoperto grande entusiasmo ed intelligenza nel portare avanti le iniziative. Bisognava insistere nella continuità.
Nelle nostre celebrazioni liturgiche non c’era il problema del tempo. La domenica era il giorno del Signore, ma anche dell’uomo. Celebrare, cantare, danzare ce l’hanno nel sangue. Abbiamo visto ballare bambini che quasi non erano capaci di stare in piedi. La vita è danza, la morte è danza, la festa è danza, la celebrazione è danza. Ci ricordiamo che i giovani dicevano ‘andiamo a fare cultura’, quando andavano a ballare. Tutto al ritmo dei tamburi, che non possono mai mancare.
14. Come ti sei trovato nella città di Verona?
Avrei preferito restare nel mio paese natìo, Fiesso Umbertiano, nella provincia di Rovigo, ma ho trovato lavoro a Verona e qui mi sono inserito con Teresa già da 25 anni. I rapporti sono buoni in una stretta cerchia di amici conosciuti nel lavoro o in parrocchia, ma non sono assolutamente d’accordo su una generale sfiducia che esiste verso gli stranieri o i non veronesi. Qualcuno non sa che Rovigo è una città del Veneto, ma sanno che Teresa è straniera.
15. Ora vi preparate a partire per il Mozambico: ma come coppia di sposi che dentro sono rimasti missionari. E' così? Che cosa vi aspettate? E quale progetto portate con voi?
Andiamo per un progetto agricolo in una zona povera, dove non c’è elettricità, né scuola e neppure ospedale. L’acqua c’è perché noi abbiamo fatto costruire un pozzo, grazie all’iniziativa di due giovani che nel giorno del loro matrimonio non hanno voluto regali, ma un contributo per la costruzione del pozzo, che ora noi andiamo ad inaugurare. Il gruppo si chiama G.A.M.P. (Gruppo Aiuto Molumbo Project). Un nostro volontario tecnico della SAME è rimasto due mesi in Mozambico per trasportare ed insegnare ad usare e a mantenere il trattore. Un tecnico della UNV, che collabora con l’ONU, è rimasto in zona per studiare il terreno e per consigliare quali culture erano necessarie per la gente. La cooperativa è composta da una ventina di famiglie. Io e Teresa andiamo là… Non abbiamo un vero progetto su quello che faremo, perché lo vogliamo capire sul posto. Te lo diremo al nostro ritorno. Il nostro vero progetto di missionari è solo questo: vivere con loro.
16. Cosa vi spinge a ripartire?
Undici anni di Mozambico non si cancellano. Anni duri, anni di guerra, anni di un governo che ha lottato contro la religione e che ha nazionalizzato tutte le missioni. Il governo ci ha fatto un favore rendendoci più poveri e quindi più testimoni dell’amore di Dio in mezzo agli uomini, ma forse l’abbiamo già dimenticato ora che si è più liberi. Nel 2003 sono stato tre settimane a Gurue assieme a don Luciano Cominotti, sacerdote bresciano incardinato in quella diocesi, e che raccoglie ragazzi di strada. Esperienza incredibile, dove ho ricevuto un grande slancio per vivere con questa gente. Ripartiamo perché amiamo questa gente. Ripartiamo esattamente perché siamo coppia. A maggio, in un incontro dei membri del gruppo, dicevo che in natura esiste la vita solo attraverso la relazione. Citando Vito Mancuso, spiegavo che la cellula aploide con 14 cromosomi incontrandosi con un’altra con 14 cromosomi da origine al gamete che è il responsabile della nostra vita, della nostra generazione. Gli sposi che si amano solo loro due e basta, generano un amore bastardo. Devono avere un cuore con una porta aperta per accogliere, ma anche per uscire, per andare verso gli altri. Per questo andiamo in Mozambico e ci andiamo come sposi.
17. Cosa pensate del celibato come regola della Chiesa? E' ancora utile? O siete per una libera scelta?
Sono convinto che la scelta celibataria sia un carisma e come tale lo rispetto. Non capisco, però, l’aut aut che impone la Chiesa cattolica: o prete non sposato, altrimenti non prete. Da quando un’imposizione crea amore? Qual è la logica o la spiegazione teologica? Cristo non si è creato questo problema. Anche il primo Papa era sposato. Chiaro che la scelta dev’essere libera, seguendo ognuno il proprio carisma.
18. La preparazione remota alla missione è stata adeguata oppure troppo lontana dalla realtà?
La preparazione remota alla missione è stata veramente scarsa. Pensa che in due anni del noviziato ho letto il Rodrigues, che aveva una spiritualità disincarnata ed assurda, specialmente per noi che ci preparavamo ad essere missionari. Non ho letto, in quel tempo neanche un libro sul Comboni, nessuno me l’aveva consigliato. Quando ero nel Seminario diocesano di Rovigo, alla fine del liceo, ho espresso la mia volontà di essere missionario e di farmi comboniano, il Rettore ed il Vescovo mi hanno dato del traditore e dell’ingrato (‘Dopo tutto quello che noi abbiamo fatto per te?’).
Spero di essere stato minimamente esauriente, ma ci sentiremo al nostro ritorno. Ciao


Domenica 29 Agosto,2010 Ore: 18:00
 
 
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