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www.ildialogo.org L’INCUBO,di Giovanni Sarubbi

Le storie nel cassetto
L’INCUBO

di Giovanni Sarubbi

Ogni notte era la stessa storia. All’improvviso Michele si svegliava convinto di avere tra le braccia sua suocera. Invece di fianco a lui, nel letto, solo la moglie, che dormiva coperta fino all’inverosimile, sia che facesse freddo sia che si morisse dal caldo.
La cosa andava avanti da alcuni anni, da quando un giorno lui si trovò solo a casa con la suocera. La moglie era fuori, sarebbe ritornata solo a fine settimana. Non ricordava oramai più perché quel giorno si ritrovarono insieme in quella casa e in quella cucina. Ricordava solo che ad un certo punto gli andò vicino, sedendosi affianco a lei sulla stessa sedia e stringendola a se. L’accarezzò e gli diede un bacio sulla bocca. Lei non reagì negativamente.
“Ti prego - disse - non dimenticarti che sono una donna”, e lo disse gemendo di piacere.
Era un invito esplicito che però Michele non comprese. Lei voleva essere portata a letto e li violentata. Lo capì solo dopo. Se così avesse fatto lei non avrebbe reagito ne gridato per chiedere aiuto. Lo avrebbe invece assecondato, soggiogata dalla sua forza bruta a cui lei, come donna, non avrebbe mai potuto dire di no, perché questa era la sua cultura, fatta di soggezione e riverenza nei confronti del maschio. Chiunque altro avrebbe saputo leggere il desiderio sessuale sul volto e nelle parole della donna, che forse da troppo tempo erano represse.
Quel giorno però non successe nulla. Michele non si aspettava quella reazione o forse non capì subito quello che la suocera voleva: un alibi per coprire la sua libidine, scaricare su di lui la responsabilità di quello che era un grave peccato contro Dio e la società. In ogni caso Michele non avrebbe mai potuto assecondarla: anche volendo non sapeva neppure da dove cominciare perché lui rifiutava qualsiasi violenza.
Michele si limitò a dire qualche frase sconnessa, a darle qualche altro bacio sulla bocca a cui lei ancora una volta non si oppose. Poi all’improvviso lei si alzò di scatto e si allontanò dirigendosi verso la porta, lasciandolo li impietrito, senza capire perché. Lei voleva fare solo del sesso, semplice e brutale sesso, senza alcun coinvolgimento di tipo sentimentale. L’inerzia di Michele di fronte al suo desiderio sessuale provocò quella fuga precipitosa che suonava come un insulto nei confronti del maschio incapace di soddisfarla.
Nei giorni successivi Michele cercò di riprendere il discorso, ci furono alcune telefonate, ma alla fine, quando cercò di baciarla di nuovo, fu cacciato brutalmente con un “basta, smettila, non farlo più”. La razionalità sembrava prevalere sulla follia.
Fin da ragazzo Michele aveva avuto problemi sessuali. C’era un incubo ricorrente che lo perseguitava e di cui si rese conto solo verso i 10 anni, quando, all’improvviso, era entrato nella pubertà, ritrovandosi con un pene gigantesco fra le mani, di cui nessuno gli aveva mai detto nulla. A cosa serviva? Perché quando guardava una ragazza questo coso che aveva fra le gambe si ingrossava e perché di notte a volte si svegliava per una eiaculazione improvvisa?
Le prime esperienze sessuali risvegliarono in lui un ricordo di quando era ragazzo. Poteva avere 3 o 4 anni o anche meno. Dormiva in mezzo ai suoi genitori e durante la notte si era ritrovato fra le gambe della madre da cui era stato quasi subito tolto. Forse quell’immagine si riferiva al giorno della sua nascita, ma questo lui non poteva saperlo. Ricordava però che la sensazione era piacevole e che avrebbe voluto riprovarla, ma da quel momento era stato escluso da qualsiasi altro rapporto o contatto fisico con la madre. Madre vissuta da quel momento in poi come un’estranea, qualcuno a cui magari obbedire senza riuscire ad avere in comune alcuna idea o sentimento.
Forse per tale motivo si era innamorato della suocera, che era giovane e con cui parlava spesso. Era la mamma con cui avrebbe voluto avere quel rapporto intimo che gli ritornava spesso in mente, che lo tormentava come una cosa sconcia e che invece appartiene a tutto il genere umano.
Si ritrovava spesso di notte a riflettere sulla sua condizione psicologica, sul suo passato, su quell’amore materno mancato, sul suo sentirsi senza madre e senza padre, sul suo essere lontano da loro sia fisicamente che spiritualmente. Gli capitava così di alzarsi dal letto, di andare in bagno e di masturbarsi come aveva imparato a fare fin da bambino, senza nessuno che gli avesse mai detto nulla di positivo in merito, tranne il classico: “se continui così diventerai cieco”. Era capitato quando un giorno la madre lo scoprì in bagno intento nell’operazione, perché aveva dimenticato di chiudere la porta. La sera il padre lo aveva rimproverato riferendogli la fatidica frase.
Quando si svegliava con il suo solito incubo, ricordava anche un altro episodio che ancora lo riempiva di orrore. Sudava freddo, un senso di nausea e di vomito improvviso lo prendeva alla visione di quel film che non riusciva a cancellare dalla sua cineteca mentale. Era ragazzo, aveva circa 11 anni. Un giorno andò, come faceva spesso, a passeggiare lungo il mare che si trovava vicino alla casa paterna. C’era una spiaggia non molto lunga alla fine della quale vi era una scogliera su cui era possibile salire. Sulla scogliera di solito stazionavano pescatori, ragazzi o coppiette intente a baciarsi. Spesso i ragazzi andavano lì semplicemente per urinare dietro i massi e se ne avvertiva tutto intero l’odore. Spesso giocavano a nascondino fra i massi o lanciavano pietre nel mare, giocando a chi riusciva a mandarle più lontano. Quel giorno non c’era nessuno, tranne un uomo, occhiali scuri, il volto scavato e la barba incolta. Era spuntato quasi dal nulla da dietro un grande blocco di cemento che si trovava a ridosso degli scogli. Era estate e il cielo limpido rendeva tutto più luminoso del solito. L’odore del mare era forte a quell’ora di mattina, ma la puzza di urina non si riusciva a cancellarla, anzi aumentava con il calore man mano crescente. Michele fece in tempo a vedere un altro ragazzo che sgattaiolava via da dietro il masso, ma non capì di che cosa si trattava. Lo vide mettersi in tasca qualcosa che l’uomo gli aveva allungato. Lo sconosciuto si accorse di lui e si fermò a guardarlo. Gli chiese come si chiamasse, lui rispose e cominciarono a parlare. Michele fino a quel momento non aveva mai avuto paura di nulla e parlare con la gente era per lui del tutto normale. Si ritrovò, dopo un poco, anche lui dietro quel masso, con quell’essere rivoltante che gli aveva aperto il pantalone e cominciava a masturbarlo e a baciarlo. L’uomo gli abbassò del tutto i pantaloni e le mutande e Michele si ritrovò con il suo pene fra le gambe, con quest’uomo che continuava ad abbracciarlo e a baciarlo. Scappò via terrorizzato solo quando lui ebbe finito le “sue cose”. Non si fermò neppure quando l’uomo cercò di dare qualcosa anche a lui: erano soldi, mille lire per la precisione, che all’epoca era una cifra enorme persino per una intera famiglia. Andò a casa e si mise sul balcone con una fionda e le pietre: se quell’essere abominevole fosse passato di li lo avrebbe colpito, vendicandosi dell’onta subita, ma così non fu. Da quel giorno non ritornò più su quella scogliera né su qualsiasi altra scogliera. Non raccontò mai ad alcuno quell’episodio. Cominciò così ad odiare gli omosessuali e non riuscì più ad avere un qualsiasi rapporto di amicizia con persone del suo stesso sesso.
Ricordava spesso anche altre esperienze, come di quella volta che i suoi compagni di classe della scuola media, si sfidarono a “chi lo aveva più lungo”, e lui rimase terrorizzato a guardarli mettere il pene sul proprio banco mentre il capoclasse faceva la guardia fuori la porta. Ricordava invece con piacere quando la notte andava a spiare nella stanza della sorella, soprattutto d’estate, quando si dormiva senza coperte e pigiami per il troppo caldo.
Quando aveva quei ricordi pensava, a volte divertito, a volte sconfortato, che lo stesso Freud non sarebbe riuscito a cavare un ragno dal buco con il suo caso. Nessuno poteva fare nulla, solo lui avrebbe potuto guarire se stesso da quelle follie, dalle continue bugie che ogni giorno doveva dire alla moglie dalla quale non aveva avuto figli.
L’ultimo incubo era stato più forte e realistico del solito. Si risvegliò per una polluzione improvvisa, come non gli capitava più da quando era ragazzo. “Ora basta - si disse - devo fare qualcosa”. Si convinse che quel sogno doveva tramutarsi in realtà se voleva guarire. Avrebbe dovuto avere un rapporto con la madre di sua moglie per rimettere tutto a posto nella sua testa, una sorta di shoc psicologico come aveva visto fare in moltissimi film. “L’orrore per quello che farò mi salverà”, pensava convinto di aver trovato la soluzione giusta.
Ricominciò così a corteggiare la suocera e lo fece per telefono. “Pronto - gli diceva - ti voglio vedere perché sono innamorato di te”. Una, due, dieci telefonate al giorno, a volte solo per emettere sospiri o mugolii, altre volte per le cose più strane, pur di sentire la sua voce. La cosa durò per qualche mese. All’inizio la suocera fece la parte di chi non voleva sentirsi dire quelle cose. Pian piano invece la sua voce cambiò, divenne via via più calda. In una delle ultime telefonate la suocera gli aveva chiesto se avesse intenzione di divorziare dalla figlia e Michele gli aveva detto di no: “Vi voglio entrambe, perché non si può?”. Gli ricordò, per convincerla, le molte telenovelas diffuse da tutte le televisioni dove quei tipi di rapporti sembravano del tutto normali.
A volte, durante la pausa mensa, Michele andava a spiarla di nascosto mentre faceva la spesa o accompagnava i nipotini a scuola e ogni volta impazziva dal desiderio. Altre volte le faceva recapitare mazzi di fiori, rose rosse, approfittando dell’assenza del marito rappresentante di commercio.
Avrebbe voluto parlare con qualcuno, raccontare le sue sofferenze e la sua pazzia ma con chi farlo senza finire legato in un manicomio? Aveva bisogno disperato di aiuto, di conforto, di comprensione ma attorno a lui sentiva solo falsità, ostilità o il richiamo al rispetto di regole formali, di cui nessuno mai gli aveva spiegato il senso profondo. Regole che venivano sistematicamente violate nella realtà quotidiana, quasi fossero li solo per essere disattese.
Ricordava, ancora con disgusto, quando da ragazzo un prete aveva cercato di accarezzargli il pene, proprio durante una confessione, facendolo scappare immediatamente. Quel prete era ancora “in servizio”, continuava a distribuire sacramenti, ad insidiare bambini maschi nel disinteresse generale, e a predicare contro l’aborto, l’omosessualità e le ragazze madri.
Poi un giorno, dopo qualche mese, successe l’irreparabile. La suocera lo chiamò al telefono, lo invitò a casa sua con un “Vieni ti aspetto” che non lasciava adito ad equivoci. Michele ci andò e la trovò sola, in vestaglia, più bella che mai, nonostante i suoi 50 anni. Entrando in casa Michele era stato investito dal suo profumo preferito. Proveniva inequivocabilmente da lei che lo aveva accolto con un sorriso e un dietro front repentino, un invito a correrle dietro per conquistarla. La vestaglia trasparente la rendeva ancora più bella e seducente, mettendo in mostra quasi tutto delle sue parti intime, in un gioco di chiaroscuri che era fatto apposta per eccitare la sua sessualità.
Michele la raggiunse, respirò a pieni polmoni il suo profumo e sentì il suo corpo caldo legarsi a lui. Si ritrovarono a letto prima che potessero rendersi conto di quello che stavano facendo e finì in tragedia.
Inaspettatamente giunse il marito della donna, che avrebbe dovuto essere a cento chilometri di distanza. Non lo sentirono entrare e vennero sorpresi mentre si accoppiavano. Il marito tradito non si pose domande psicologiche: di fronte aveva la moglie che si stava accoppiando con il marito della figlia e tanto bastò.
L’urlo dell’uomo li terrorizzò. Gli amanti rimasero paralizzati, incapaci di qualsiasi reazione, quando lo videro piombare nella stanza con un’ascia in pugno.
Provarono a chiedere pietà, a implorare perdono per la loro colpa, ma inutilmente. L’uomo, con l’ascia in mano, urlava dal dolore ma si fermò solo quando vide la testa dei due amanti cadere recisa sul pavimento in mezzo ad altri pezzi di braccia e gambe. Il sangue schizzò dappertutto nella stanza.
L’uomo tradito ansimava. Guardò le sue mani sporche di sangue. Pianse a dirotto con la testa della moglie fra le mani. Poi cadde svenuto sui corpi che aveva fatto a pezzi. Si risvegliò, dieci minuti dopo, in un mare di sangue. Nessuno aveva fatto caso agli urli e alle richieste di perdono; nessuno aveva chiamato la polizia. Lo fece lui quando si rese conto di quello che aveva fatto. “Venite - disse - ho fatto a pezzi mia moglie e il suo amante”. Andò ad aprire la porta, cercò la sua pistola e si sparò un colpo in fronte proprio mentre la polizia arrivava a sirene spiegate.
Lo ritrovarono riverso sui corpi degli amanti che aveva ammazzato. Ci misero un po' di tempo per ricomporre i corpi e capire di che cosa si trattava. Chiamarono la figlia che impazzì dal dolore: aveva perso in un sol colpo il marito, la madre ed il padre.
Lo shoc c’era stato e l’incubo era finito, nel modo peggiore possibile.
Giovanni Sarubbi

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.


Venerdì 18 Aprile,2014 Ore: 09:05
 
 
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