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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org L’amarezza,di Giovanni Sarubbi

I racconti nel cassetto
L’amarezza

di Giovanni Sarubbi

La donna era comparsa all’improvviso, quasi uscita dal nulla. Mi ero accorto di lei solo perché la sua ombra si era proiettata su di me, che ero assorto a leggere il giornale.
“Non togliermi ciò che non puoi darmi”, avrei voluto dirle, ma la sua espressione mi impedì di parlare.
Aveva i capelli lungi e neri, un visino smunto, due occhi grandi e nerissimi, e indossava un giaccone di colore verde, simile a quelli che una volta i giovani usavano durante gli anni settanta, e un paio di jeans che più consumati non potevano essere.
Poteva avere circa 26-27 anni e le sue fattezze femminili erano decisamente carine, anche con quegli abiti di poco conto addosso. Era alta circa un metro e sessanta e aveva in mano una sigaretta spenta.
Mi trovavo nella villa comunale di Napoli. Ero seduto su una panchina davanti al Circolo della Stampa, con la statua di Enrico Pessina che mi guardava da sotto i suoi baffoni imponenti.
“Piazzale Raffaele Caravaglios - Musicista 1864-1941”, c’era scritto su un cartello che era di fronte a me dall’altro lato dell’enorme statua a Gian Battista Vico posta al centro della piazza..
Ero lì da quasi due ore. Ero arrivato verso le nove e stavo aspettando l’apertura degli uffici dell’Ordine Dei Giornalisti della Campania. Dovevo ritirare un certificato di iscrizione all’albo, da usare per assumere la direzione di un periodico locale.
La giornata era splendida e annunciava la primavera imminente. In cielo non c’era una nuvola e l’aria era molto calda, nonostante fossimo alla fine di febbraio. L’aria era così limpida che si poteva distinguere nitidamente l’isola di Capri in lontananza, quasi attaccata alla fine della penisola sorrentina, dominata dal monte Faito, di cui era visibile persino il monte Canino, una protuberanza che richiama alla mente l’omonimo dente.
La villa comunale di Napoli ha sempre avuto per me un fascino speciale, con il suo essere affacciata sul mare da un lato, la corsia preferenziale dei tram dall’altro lato, che le dava un non so ché di antico, le sue aiuole ben fatte e ben conservate e costellate dalle statue dei personaggi che hanno fatto grande la città.
Era uno spasso per me starmene seduto su quella panchina al sole a godermi lo spettacolo di una Napoli che in quel luogo è assolutamente straordinario.
Le coppie di ragazzi usano quei luoghi per scambiarsi le loro effusioni amorose senza alcuna preoccupazione. In quel momento vi erano per lo meno 6 coppie di ragazzi e ragazze intente a scambiarsi lunghi e profondi baci sotto gli occhi preoccupati o divertiti delle mamme che portavano i loro pupi a spasso nei carrozzini. Chi era seduto sulle panchine, chi sotto le statue, chi si era insediato su quella che a me era sempre sembrata una pagoda cinese e che spesso viene usata per rappresentazioni musicali all’aperto.
Più in là un gruppo di ragazzi giocava a pallone con impeto e accanimento e con un codazzo di ragazzine che faceva il tifo per i propri spasimanti.
Prima di sedermi su quella panchina mi ero fatto il giro della villa, come facevo sempre quando venivo da quelle parti. Mi ero affacciato sul mare che non vedevo da molti mesi.
In un’aiuola, sotto la statua di Carducci che guardava il mare, un barbone dormiva avvolto in una coperta e riscaldato dai raggi del sole che non lo disturbavano affatto.
Due ragazzi, incuranti di quella presenza, su una panchina vicina si baciucchiavano a più non posso.
Ero arrivato, a piedi, a Piazza Vittoria, passando davanti a numerosi banchetti di vendita di bibite da cui avevo comprato un pacchetto di pop corn che avevo sgranocchiato con calma.
Avevo comprato poi il giornale e mi ero seduto su quella panchina a leggerlo godendomi il sole tiepido.
- Mi fai accendere? - mi disse la ragazza con un accento che non avevo mai sentito prima.
- Mi dispiace non fumo, ma da dove vieni? - le risposi.
- Sono albanese,- mi disse, - e stamattina non riesco a trovare nessuno che mi faccia accendere questa dannata sigaretta.
- Vuol dire che devi smettere di fumare, ne guadagneresti certamente in salute -, le risposi con un sorriso divertito. - Io sono stato in Albania molti anni fa, quando c’era ancora Hoxa. Come mai ti trovi qui?.
La ragazza mi guardò quasi schifata, come se avessi pronunciato un nome per lei tabù.
- Io no comunista, io libera.
Il passaggio di un tram dal colore arancione e il suo sferragliamento, coprì la sua voce ma non la sua espressione, decisamente contrariata.
- Non ho mica nominato il diavolo,- le dissi. - Raccontami da dove vieni e cosa fai a Napoli.
Prima che potesse rispondermi un gran vociare di bambini attirò la nostra attenzione: due o tre classi di ragazzini delle elementari stavano uscendo, proprio in quel momento, dall’acquario che era lì alla nostra destra, proprio di fronte al mare.
I bambini camminavano in colonna con le insegnanti che li precedevano e seguivano per tenerli a bada.
- Mi raccomando,- diceva una di esse,- datevi la mano e state in colonna che andiamo a prendere il pullman.
La colonna dei bambini passò davanti a noi dirigendosi verso la piazza denominata “Delle Quattro Giornate” che si trova all’altro lato della villa. La ragazza, quasi istintivamente, si scostò per farli passare sedendosi sulla panchina accanto a me. Avrebbe voluto andare via, ma la vista di quei bambini aveva scatenato in lei qualcosa.
- Vi sono piaciuti i pesci dell’acquario? - chiesi ad un bambino.
- Certo, soprattutto le meduse, il polipo e la tartaruga, - mi rispose un bambino con gli occhi vispi ed elegantemente vestito.
Una delle maestre era subito accorsa preoccupata che qualcuno potesse infastidire i propri alunni con domande finalizzate al raggiungimento di altri scopi.
- Non si preoccupi, sono padre di figli anch’io, - le dissi tranquillizzandola.
La ragazza, seduta a fianco a me, lasciò passare tutti quei bambini. Li guardava con l’espressione di chi voglia scacciare un antico ricordo.
- Io in Albania insegnavo in una scuola materna a Tirana, - mi disse quasi a voler rispondere a se stessa prima che alla mia domanda precedente.
- Sono stato a Tirana,- le dissi, - nel 1980, nel mese di agosto. Da quanto tempo sei in Italia?
- Sono arrivata 2 anni fa,- mi rispose,- scappando su un battello insieme a tanti altri ragazzi. Siamo arrivata in Puglia in una zona dove nessuno si è accorto di noi e da 4 anni vivo qui a Napoli nei quartieri spagnoli.
- Quando ci sono stato io, la gente sembrava stare bene; tutti mangiavano, nessuno era vestito da straccione e tutti inneggiavano a Hoxa. Ci sono ancora le scritte con il suo nome fatte con le pietre giganti sulle montagne?.
- E chi le toglie da li quelle pietre! - mi rispose.
- E le casematte di cui era piena tutta la zona costiera?
- Sono ancora li, nessuno le ha distrutte, troppa fatica! - mi disse.
- Non stavi più bene in Albania? Perché sei venuta in Italia?.
- Troppo lavoro e pochi soldi. Qui tutto più facile. Lì troppa politica.
- Ma perlomeno mangiavi e stavi nel tuo paese.- Gli risposi.
Rimanemmo in silenzio per un buon quarto d’ora. I tram continuavano a passare ogni 5 minuti con gran fracasso e ogni volta facendo levare in volo uno stormo di colombi che aveva scelto come pascolo un angolo del piazzale.
Un gruppo di turisti era arrivato vicino alla statua di Vico e si era messo in posa per farsi la foto.
Dovevano essere tedeschi, a giudicare dai loro capelli biondi e dagli zigomi rossi, tipici di chi beve molta birra o alcol.
Una coppia di ragazzi, maschio e femmina, arrivò a bordo di un motorino e si fermò sotto la statua di Vico. Cominciarono a baciarsi, come fanno gli innamorati che si incontrano dopo una lunga separazione, incuranti della nostra presenza e di quella di tante altre persone. I turisti tedeschi li vedono e cominciano a ridere allegramente.
Altri due ragazzi arrivarono tenendosi teneramente per mano. Lui portava a mano il motorino, forse avevano finito il carburante. Andarono a sedersi su una panchina di fronte a noi e cominciarono a parlarsi con dolcezza.
- Almeno questi non passano subito al sodo.- Pensai fra me e me.
Non mi ritengo un bacchettone ma tutti quegli sbaciucchiamenti in pubblico cominciavano a darmi fastidio.
- Mi chiamo Luca,- dissi alla ragazza rompendo il silenzio.
- Io mi chiamo Linda.
- Quanti anni hai?
-Ho 23 anni, - mi disse.
- Sembri più vecchia della tua età. Che lavoro fai?.
Non rispose. La vidi guardare verso l’acquario. Un uomo si dirigeva verso di noi con passo deciso. Era giovane, magrissimo e molto alto, volto scavato, con la classica fisionomia del montanaro. Man mano che si avvicinava a noi potei notare le sue mani che erano state, nel passato, sicuramente impegnate in pesanti lavori manuali.
La ragazza si alzò. L’uomo l’apostrofò violentemente in una lingua che non compresi: doveva essere anche lui albanese. La ragazza le rispose con sottomissione.
- Cosa vuoi da lei? - mi disse l’uomo con durezza e parlando finalmente in Italiano.
- Io, niente,- gli risposi,- lei mi ha chiesto di accendere una sigaretta ma io non fumo.
Confesso che mi preoccupai: l’uomo aveva uno sguardo duro e deciso e non ci voleva molto a capire che “lavoro” facesse lui e quale era quello della ragazza che non aveva assolutamente l’espressione della “donna di vita”.
- Lui non c’entra niente,- si affrettò a dire la ragazza,- mi ero fermata solo per accendere la sigaretta.
- Meglio per tè,- gli rispose,- andiamo via.- E così dicendo, la prese con forza per mano e la portò con sè.
Si allontanarono verso Piazza Vittoria. Li guardai finché potei e li vidi sparire in uno degli chalet dislocati lungo via Caracciolo.
Avrei voluto fermare quell’uomo: forse quella ragazza era venuta in Italia solo perché illusa dai messaggi televisivi della nostra RAI che in Albania, già nel 1980, si vedevano distintamente.
Quella ragazza, che per pochi minuti era stata vicino a me, forse era ricercata dai suoi genitori, che magari la piangevano per morta. Forse voleva un mio aiuto ma io non potevo darglielo.
Continuai a rimanere seduto su quella panchina. Non lessi più il giornale e continuai a guardarmi intorno ma ciò che vedevo non aveva per me più alcun interesse.
Un cartellone pubblicitario con la faccia di Woody Allen annunciava un suo film in un cinema cittadino. Un uomo veniva verso di me con un grosso cane bianco al guinzaglio, probabilmente un incrocio fra un pastore maremmano e uno spinone. Un tram multicolore, quasi un murales ambulante, passò davanti a me e si fermò poco più avanti.
Un gruppo di ragazzi scese da quel tram. Avevano gli zaini a tracolla e venivano dalla parte di Fuorigrotta. Un’altra classe che aveva marinato la scuola. Anche loro, a due a due, si diressero verso le panchine e le statue.
- Per oggi basta,- mi dissi ,- di ragazzi che si baciucchiano ne ho visti anche troppi.
Mi alzai. Erano le undici e la segreteria dell’Ordine apriva proprio a quell’ora. Sbrigai le mie cose, salii in auto e me ne andai.
Passando per via Caracciolo andai piano e quasi mi fermai all’altezza dello chalet dove avevo visto sparire la ragazza. Non mi ero sbagliato: era lì seduta ad un tavolo con un uomo, molto più grande di lei, beveva e rideva come se nulla fosse. Il suo protettore era poco più dietro e faceva l’indifferente.
Mi ero fermato del tutto, ma un vigile mi indicò il divieto di sosta con un atteggiamento perentorio e deciso, invitandomi ad andare via.
Ripartii senza più voltarmi indietro.
Giovanni Sarubbi

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.


Domenica 13 Aprile,2014 Ore: 09:18
 
 
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