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www.ildialogo.org Ho salito il Vodno.,di Basilio Buffoni

Racconto - La mia Santiago
Ho salito il Vodno.

di Basilio Buffoni

Riceviamo dall'amico Basilio Buffoni questo racconto. Ce lo ha inviato stimolato dagli scritti del nostro direttore dal titolo "La mia Santiago" (Vedi sezione editoriali). Ci auguriamo che altri vogliano condividere con noi il loro cammino.

Il Vodno è la montagna che sovrasta Skopje, una grande montagna boscosa, immediatamente a sud della città; i quartieri residenziali salgono per qualche centinaia di metri lungo le sue pendici, poi comincia il bosco. C’è naturalmente una strada che sale fino in vetta, ma a metà dell’ascesa, subito dopo il bivio che porta alla chiesa di Sveti Pantalejmon, la strada è sbarrata, e si può solo salire a piedi.

C’è una mappa dei sentieri che permette di orientarsi, e si capisce subito che sebbene dalla città il Vodno sembri una cima isolata, in realtà è il punto più alto e la propaggine più orientale di una catena che porta a ovest fino al lago Matka, e si può percorrere la cresta fino al lago.

Scelgo il percorso che mi sembra più adatto al mio scarso allenamento e alle mie ginocchia un po’ fragili: salire lungo la strada carreggiabile, che sale verso ovest, arrivare in vetta, e ritornare dal versante orientale per un sentiero, che torna poi al parcheggio. Un circuito, che prendo per il verso meno ripido, circa 500 metri di dislivello, non dovrebbe essere troppo dura.

Inizio a camminare e penso allo scrivere di camminare, ad Angelo che ha raccontato il suo cammino di Santiago, più o meno una pagina la giorno. E mi viene da pensare che scrivere alla fine della giornata (come in realtà faccio anch’io adesso) significa non poter portare sulla pagina i piccoli minuscoli episodi del cammino: le piante, le singole piante che riconosci nel bosco, i voli degli uccelli, gli altri segni di vita in questo paesaggio ancora immobile ed invernale; le persone che salgono, quelli che ti passano avanti quelli che superi tu; le piccole difficoltà, la borsa – non ho uno zaino e so già che questo mi farà male alla fine di questa giornata -, gli scarponi, in cui si sta così bene, il maglione da togliere dopo un po’ perché il sole scalda.

Le pendici del Vodno che danno verso Skopje sono esposte a nord; e il bosco sembra un po’ il versante a nord del promontorio di Portofino; ad ogni curva cambia l’insolamento e cambia un po’ la composizione del bosco. Sono soprattutto querce, credo roverelle, e poi pini; nel sottobosco ginepri e bossi, che sono le piante che più caratterizzano questo bosco. Ogni tanto pioppi, alcuni alti, imbiancati dal gelo, senza traccia di gemme per adesso; in una curva tre grandi tormentati pioppi tremuli. Nel bosco sembra ancora tutto addormentato, solo gli uccelli trillano e volano attraverso la strada: passano merli, tordi, cinciallegre, ad un certo punto un branco di codibugnoli che si rincorrono, in alto veleggia un grande uccello scuro, e per un momento vedi con lui il monte dall’alto le chiome degli alberi, gli uomini che arrancano lentamente in salita, mentre l’aria ti solleva senza sforzo: arrivando sulla cima mi accorgo che il Vodno è territorio dei grandi corvi neri – i raven inglesi, quelli della Torre di Londra; volando lanciano richiami più dolci del gracchiare delle cornacchie, come un chiacchiericcio pacato con i compagni che volano poco distante. E’ una lunga salita; la strada non è ripida, ci sono lunghi tratti piani, alcuni più caldi, altri più freddi, qualche volta chiazze di neve residue.

Salire sul Vodno è un po’ come salire alla Madonna della Guardia. Questa è la prima domenica di primavera, e famiglie, gruppi di amici, coppie, ciclisti con la mountain bike, gente che corre in maglietta Erbalife e calzamaglia nera salgono sul Vodno. I ragazzetti con la musica, le ragazzine un po’ cicciotte che quando sono stanche camminano all’indietro pensando di stancarsi meno. Famiglie con il papà grasso che scherza, mamme con le provviste, e i ragazzini che giocano tra loro ma non camminano. Proprio come quando avevo tredici anni e salivo alla Madonna della Guardia.

In basso ma vicinissima la città di Skopje, i quartieri residenziali, il parco, le fabbriche, il cementificio a est, l’acciaieria a nord oltre il fiume, la stazione nuova, costruita dopo il terremoto in un luogo diverso da quello precedente. L’ultimo tratto di strada è pieno di neve, e diventa un po’ faticoso per questo; fa abbastanza caldo e la neve si sta sciogliendo, sotto uno strato sottile e trasparente di neve vedo due insettini che nuotano con energia.

Quando vedo la cima, e la croce che ci sta sopra, mi sembra di essere arrivato, e invece c’è ancora un bel po’. E’ un effetto che mi sembra sistematico: quando si cammina, vedere la meta non aiuta, anzi al contrario la rende più difficile da raggiungere. Proprio il contrario di quel che si pensa e si dice di solito, che visualizzare l’obiettivo aiuti a conseguirlo. Camminando invece no: per fortuna che il bosco ci ha nascosto la vetta per quasi tutta la salita. Ma quando si comincia a vedere la vetta questa si allontana.

Così cammino ancora, e c’è una ragazza in bicicletta visibilmente infastidita con il suo ragazzo che l’ha lasciata indietro e lei scivola sulla neve con le scarpine da bici. Cammino ancora, ad una curva un cipresso accanto ad una betulla.

Arrivo all’ultima rampa prima della vetta: siamo in tanti perché all’ultima curva è confluito nella strada anche il sentiero che prenderò per scendere e tutta la gente che sale da lì. C’è una base dell’esercito all’ultima curva, protetta da filo spinato nuovissimo, di quello non con le punte, ma con piccole lame trapezoidali affilate. E penso più chiaramente quello che avevo intuito salendo: questo è un posto da controllare a tutti i costi se si deve minacciare, o assediare, Skopje (Sarajevo non è lontana). Da qui si può cannoneggiare la città e colpire dappertutto, il palazzo del governo, le fabbriche, i ponti, le strade di accesso. E qui c’è stata una guerra civile, anche se breve e relativamente poco cruenta; e forse qui si è combattuto, perché le aree a maggioranza albanese sono dall’altra parte della montagna, verso Tetovo – la “capitale albanese” della Macedonia. E infatti dentro la base militare, che è poi un pezzo di bosco sul crinale, cintato e con qualche costruzione bassa, hanno fatto una terrazza per metterci i cannoni, rivolti appunto nella direzione opposta alla città.

L’ultimo tratto, verso l’antenna, verso la grande bandiera macedone, il sole e i raggi gialli, e verso la grande croce costruita sulla vetta. La croce, la Milleniumski krst, costruita nel 2000, per l’appunto: un enorme traliccio, come un palo dell’alta tensione, ma fitto di traversine e rinforzi, sostenuto da grandi pilastri di cemento armato, così grandi da ospitare spazi che potrebbero essere un ristorante, e invece non sono nulla, spazi vuoti, grandi finestre cieche e sporche, porte chiuse e basta.

Nessuno sembra farci caso a questa grande croce torreggiante, che a me dà fastidio e mette a disagio. Oltre che una distruzione della sommità del monte, che è malamente scavato per fare le fondamenta, cosparso di mucchi di sabbia e di cemento, di rottami delle impalcature e del senso di terra di nessuno che le grandi costruzioni creano intorno, è anche una provocazione.

Già era fastidiosa vista dalla città, così magniloquente e trionfale, ma la distanza la rimpiccioliva e l’aria non trasparente la sfumava nella montagna. Ma da qui, inspiegabilmente gigantesca ed incombente, ed insieme radicalmente irrilevante per chi sale fin qui, palesa ancora di più la sua natura di provocazione nazionalistica.

Se vista da Skopje poteva apparire in qualche modo protettiva, da qui ci si accorge che in tutt’altro modo viene vista da chi sta dall’altra parte della montagna.

I motivi si capiscono, anche se è difficile apprezzarli: gli stessi motivi di tante altre croci, per fortuna più piccole, e di altre bandiere, ai crocicchi nei paesi, su altre cime, sui ponti e via e via.

Croci che segnano una divisione di lingua di nazione di religione, dentro un paese; croci offensive, nel senso che vogliono offendere almeno una parte di chi le guarda, rivendicare un essere altri e diversi e al potere.

Per fortuna sotto la croce c’è un grande prato pieno di crochi, appena spuntati, delicati tra il bianco e il viola. E i crochi sono per tutti.

Mi fermo per un po’ sulla cima vicino al rifugio dove vendono soltanto tè caldo, poi ridiscendo per il sentiero. E penso alla croce, all’assedio che non c’è stato, alla guerra che invece c’è stata.

E dietro una curva del sentiero, quasi nascosta sotto un cespuglio di bosso, la lapide di un Boban Hectorovski, morto ventiseienne su questo sentiero su questa montagna; nel 2001, nella guerra civile.

Una bottiglietta di plastica con qualche fiore appassito, la foto di un ragazzone simile a tanti che oggi ho incontrato sulla strada del Vodno.




Lunedì 24 Giugno,2013 Ore: 13:09
 
 
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