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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org CINA<br>L’IMPERO DI MEZZO,di Daniela Zini

CINA
L’IMPERO DI MEZZO

di Daniela Zini

“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.
Dalle origini, l’Impero di Mezzo disprezzò, oppresse, abbandonò le donne, che non avevano un nome. Non erano che le spose di.
Lo stato civile esiste solo di recente in questo immenso Impero, è la ragione per cui molte poesie sono anonime. Fortunatamente, la scrittura ha attraversato, senza danno, le mode e i capricci degli uomini.
L’Amore, l’eterno sentimento, asse primordiale della creazione, l’Amore costituisce il filo conduttore di questa poesia che è, al tempo stesso, un rifugio e una rivolta contro una società ingiusta e crudele.
La piuma e il pennello divennero, così, il gladio e lo scudo di queste donne che appartenevano molto spesso alle classi agiate. Si trovano concubine, prostitute di lusso, danzatrici, musiciste, ma anche mogli colte di mandarini e mercanti.
All’ombra delle parole, la magia della Poesia…
Poesia di addio

A dispetto del mio talento e della mia saggezza,
Fanciulla di un triste destino,
Non trovo il modo di guardarti,
Straccio questo foglio mirabile,
Vi depongo la mia disperazione e il mio sconforto.
Danzano  i salici lungo tutta la strada,
Cresce senza posa la mia malinconia.
Come piangere sulla mia cattiva sorte?
La mia vita è distrutta
Per la mia leggerezza.
Ricordi i nostri giuramenti sotto la luna?
Non era un sogno.
Se, in futuro, tu tornassi,
Non dimenticare di visitare la nostra camera
E di versare una coppa di vino sulla mia tomba.
Sposa di Dai Shiping
(traduzione di Daniela Zini)
1.     Nostro nipote sarà cinese?
“Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà.”
Napoléon Bonaparte
Quando, agli inizi del secolo scorso, Luigi Barzini scriveva per l’emozione dei lettori da retrobottega di un’Italia provinciale e disinformata le cronache tragicomiche della guerra dei Boxer, la nozione che si poteva avere da noi, relativamente alle cose del Celeste Impero, non si allontanava molto dalla relazione di Marco Polo sul favoloso Catai.
Il racconto del grande giornalista italiano, del resto, sembrava fatto appositamente per confortare l’immagine di un “pericolo giallo” che non usciva dai limiti di un certo folklore letterario.
Come dire, oggi, un pericolo marziano o qualcosa di simile.
D’accordo, questi cinesi erano centinaia di milioni ma quanto a organizzazione politica e militare il Governo e l’esercito di Francischiello potevano apparire, al confronto, come un modello prussiano. L’esplorazione xenofoba dei Boxer era armata di cannoni di legno, di scimitarre, di razzi di bambù a testata, per così dire, pirotecnica. I soldati di quell’esercito improvvisato non obbedivano ai dettami di nessuna ideologia se non, forse, quella dell’esaltazione religiosa o una fedeltà di tipo tribale verso questo o quel capo. E bastarono, infatti, pochi corpi di spedizione inviati da tutta l’Europa e dal Giappone per contenere e soffocare la scomposta e incoerente insurrezione che strinse d’assedio per cinquantacinque giorni le legazioni diplomatiche di Pechino.
Non si diceva certo, allora, che “la Cina era vicina”.
I termini di paragone per esprimere dimensioni spaziali sconfinate erano la ferrovia transiberiana che arrivava, appunto, sul mare della Cina, partendo dalla Russia europea o, ancora, la pionieristica avventura del principe Borghese e di Barzini che sulla loro traballante auto avevano compiuto il viaggio da Parigi a Pechino.
Gli umili, arrendevoli, sorridenti cinesi avevano appena iniziato la loro diaspora europea e americana, un cammino della speranza che aveva modestissimi traguardi: un piccolo ristorante per far apprezzare nidi di rondine o germogli di bambù a Parigi, a Londra o a San Francisco, una cassettina appesa al collo con un campionario di collanine di vetro e cravatte di seta per ritirarsi a contare pochi quattrini, la sera, nelle piccole China-towns, i nostri ghetti che i profughi della miseria cinese realizzavano ai margini delle metropoli occidentali.
A Milano, a esempio, intorno alla vecchia via Canonica, si coagulò negli anni tra le due guerre un nucleo di questi cinesi spinti fin là dai loro paradossali destini. Arrivarono a Milano, come i loro padri erano approdati sulla costa americana del Pacifico e i loro nipoti, negli anni 1960, mossi da ben diverse motivazioni, sbarcarono sulla costa adriatica dell’Albania o furono presenti, in una comunità sempre più densa, a Kinshasa, a Nairobi, all’Avana o addirittura a Ginevra, che sarebbe divenuta la centrale europea degli interessi politici cinesi.
Nel 2009, la Cina contava 1.345 milioni di abitanti. Se il numero fosse, davvero, potenza, in termini direttamente proporzionali, basterebbe questa considerazione per farci accettare la prospettiva di un domani con l’ineluttabilità fisica di un’altra marea. Ma i rapporti di forze del mondo moderno – lo sappiamo – non sono più affidati alle cifre dell’etnografia.
Il minuscolo e potentissimo Stato d’Israele è, in questo senso, un esempio definitivo.
Eppure non basta questa considerazione a metterci tranquilli.
La Cina, infatti, ha le condizioni per diventare una realtà industriale senza paragoni: le sue riserve di energia, praticamente vergini, sono sterminate e, in un simile quadro di ricchezza potenziale la sua densità demografica acquista ben altro valore. La Cina può iniziare la “colonizzazione economica” dell’Occidente e scendere sui nostri mercati con inarrestabile slancio, con una penetrazione sempre più insinuante e profonda.
L’Europa e l’America iniziarono, dopo la guerra, a fare i conti con il modello su scala ridotta di ciò che può rappresentare un paese asiatico densamente popolato e ad alto livello industriale. Mi riferisco al Giappone e alla sua incalzante sfida industriale, alla competitività dei suoi costi contro i quali ci si difendeva con fragili muraglie di carta: decreti protezionistici, dogane elevate.
2.   La lunga marcia
“La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia o cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza.”
Mao Tse-tung
Ancora duecento anni fa la Cina non era molto diversa da come l’aveva descritta, sul finire del XIII secolo, il veneziano Marco Polo.
Tutta chiusa nella sua millenaria civiltà, protetta e isolata, al tempo stesso, dalle distese dell’Oceano Pacifico, dalle montagne del Tibet e, a settentrione, dalla Grande Muraglia, la Cina era rimasta praticamente estranea al grande progresso che l’Occidente andava compiendo. I secoli erano passati su questa regione senza mutarne quell’assetto feudale di cui l’Europa si era da tempo liberata.
La proprietà terriera, fonte di ogni ricchezza in un paese che non aveva neppure iniziato una rivoluzione industriale, era tutta concentrata nelle mani di pochi grandi feudatari, tributari della famiglia imperiale dei Manciù. Una ristrettissima minoranza di famiglie, enormemente ricche, si contrapponeva così a una sterminata moltitudine di paria, che, una volta, saziati i feudatari, gli esattori delle tasse e i corrotti funzionari del Governo centrale, lasciava loro appena di che sopravvivere miseramente.
Intorno all’inizio del XIX secolo, questo grande e misterioso paese aveva iniziato ad attrarre l’attenzione e l’interessamento delle grandi potenze imperialiste. Con la corruzione e con l’oppio, ingenti capitali inglesi, americani, giapponesi e francesi si introdussero nel paese, acquistarono concessioni ed esenzioni doganali, si accattivarono il favore di una corte, cui il proprio momentaneo benessere premeva assai più che non l’interesse della Cina. Nel breve volgere di pochi decenni la Cina fu ridotta a una vera e propria colonia; invasa dai prodotti dell’industria straniera – che la compiacente politica dei corrotti Manciù non cessava di favorire in ogni modo – la Cina abbandonò, ben presto, ogni fonte di reddito e ogni lucrosa iniziativa nelle mani di pochi capitalisti stranieri, privi di scrupoli. Molte industrie sorsero, soprattutto, sulle coste del Pacifico – sempre finanziate con capitali stranieri – e le prime ferrovie unirono l’una all’altra le grandi città. Ma, sotto l’apparente progresso, si celava un sempre maggiore asservimento del popolo cinese, che si trovò, ben presto, indifeso e disorganizzato, in balia di una strapotente organizzazione capitalistica straniera; e, nelle fabbriche, uomini, donne e bambini erano costretti a lavorare, anche diciassette ore al giorno, e compensati con salari che, non più in là di cento anni fa, oscillavano dai tre ai sei dollari americani al mese.
La politica delle nazioni imperialiste cointeressate in Cina fu gretta e meschina quante altre mai; senza badare che ai propri interessi e senza curarsi d’altro che di spremere e di sfruttare al massimo le capacità produttive del paese in cui si erano introdotte, finirono con il creare un’insormontabile barriera di odio tra oppressi e oppressori.
Finalmente, accadde ciò che sempre accade allorché i poveri sono troppo poveri e i ricchi troppo ricchi. Nella disperazione il popolo cinese trovò l’unione, nell’unione non tardò a trovare la sua forza; e voci di ribellione iniziarono a minare alle basi l’edificio che l’imperialismo occidentale e la corrotta corte dei Manciù avevano eretto.
Nello spazio di cinquanta anni – dal 1850 a l 1900 – due rivoluzioni scoppiate in territorio cinese avrebbero dovuto dimostrare alle potenze dominanti che l’oppressione aveva raggiunto limiti intollerabili. Sia la rivolta dei Taiping (1850), sia quella dei Boxer (1899) furono soffocate, con relativa facilità, dalle truppe che le nazioni occupanti avevano inviato in Cina per proteggervi i propri interessi; ma la gravità della situazione e, forse, la coscienza di quanto poco potesse la forza contro il diffuso malcontento, spinse il giovane Imperatore Kuang Hsu a iniziare una vasta riforma in senso democratico e modernista, che colpiva proprio quell’organizzazione latifondista in cui risiedevano le maggiori opposizioni a una Cina libera e moderna. Le buone intenzioni di Kuang Hsu nulla poterono, tuttavia, contro il conservatorismo degli ambienti di corte e della vecchia aristocrazia feudale: una congiura di palazzo, capeggiata dall’Imperatrice vedova Tzu Hsi, lo rovesciò dal trono e annullò i decreti appena emanati. Kuang Hsu trascorse in prigionia gli ultimi dieci anni della sua vita e i suoi consiglieri liberali furono barbaramente uccisi mediante squartamento.
Ma nessuna forza e nessuna resistenza reazionaria poteva evitare ciò che ormai gli eventi stessi avevano reso inevitabile.
Nel 1911, guidata dalla società patriottica della Tung Meng Hui, tutta la Cina del Sud insorse contro la dinastia dei Manciù e, nel breve volgere di trenta giorni, l’antico ordine feudale andò in pezzi sotto i colpi degli insorti, dimostrando così quale fosse ormai la sua consistenza.
Iniziò, da quei giorni, il lungo, faticoso cammino della Cina verso il suo assetto attuale.
Alla caduta dei Manciù il popolo proclamò la Repubblica e Sun Yat-sen, l’artefice primo di quella rivolta e del suo successo, ritornò trionfalmente in patria, dopo un lungo esilio di venti anni, per assumere il ruolo di Presidente provvisorio della nuova Repubblica cinese.
Fu un trionfo di breve durata, ai moti del 1911 seguì, dopo pochi mesi, quel movimento di involuzione e di reazione che segue sempre i grandi sconvolgimenti sociali e il potere passò dalle mani di Sun Yat-sen in quelle di Yuan Shih-kai, un generale della corte dei Manciù, che, persuadendo da un lato il sovrano ad abdicare e dall’altro assumendo una posizione comprensiva nei riguardi degli interessi stranieri, era riuscito ad apparire quasi l’arbitro e il mediatore dell’intricata situazione. Ma bastarono le prime riforme del Governo di Yuan Shih-Kai per dimostrare che, ancora una volta, il passo compiuto era stato più piccolo di quanto in un primo tempo si fosse sperato: vennero ammessi al voto solo i proprietari terrieri e la maggior parte delle tasse continuò a gravare sui ceti meno abbienti; né più né meno di quanto era uso durante la dominazione Manciù. Il malcontento crebbe e i rivoluzionari delusi dettero vita al partito del Kuomintang, con lo scopo di rovesciare il ministero costituito da Yuan Shih-kai; il Kuomintang vinse, infatti, le elezioni, ma pochi giorni dopo il suo leader, Sung-Chao-jen, venne assassinato e il potere effettivo rimase nelle mani di Yuan Shih-kai, che pose il suo Governo praticamente al servizio dello straniero e dichiarò fuori legge il Kuomintang.
Seguì un lungo periodo di anarchia. Yuan Shih-kai morì nel 1916, dopo aver meditato addirittura la propria incoronazione e, fino al 1924, i veri padroni della situazione furono i cosiddetti Signori della Guerra, signorotti di vecchio stampo a metà strada tra il capo-brigante e il capitano di ventura, che spadroneggiavano nelle campagne senza troppo curarsi del debole Governo centrale. Il Kuomintang, sotto le cui insegne si erano andate raccogliendo tutte le forze vive e moderne del paese, preparava, frattanto, la nuova ondata rivoluzionaria, ispirandosi agli scritti di Lenin e, all’esempio della Russia, che aveva da poco rovesciato il regime zarista. Accanto a Sun Yat-sen si posero in luce, in quegli anni, Mao Tse-tung, Ciu En-lai, Chiang Kai-scek; a loro si devono gli scioperi grazie ai quali gli operai tentavano la conquista di quelle garanzie sindacali e di quelle riforme che i loro confratelli di altri paesi avevano, già da tempo, ottenuto; a loro si deve la diffusione di quelle idee che tanta parte dovevano avere nella formazione della giovane nazione cinese.  
La lunga opera di preparazione e di organizzazione culminò, nel 1925, con la prima guerra civile; l’esercito rivoluzionario, guidato dai dirigenti del Kuomintang, e sostenuto soprattutto dai contadini e dagli operai, mosse contro l’inetto e asservito Governo centrale, costituì prima a Canton e, poi, a Wuhan un Governo Nazionale Rivoluzionario, proseguì verso il nord, dove il generale cristiano Feng Yu-hsiang si era dichiarato in favore della rivoluzione. Ma, appena il successo dell’iniziativa prese a delinearsi con una certa chiarezza, iniziarono ad affiorare tra i capi rivoluzionari quelle divergenze di vedute che avevano portato al fallimento dei moti rivoluzionari del 1911. Nella lotta tra la corrente moderata facente capo a Chiang Kai-scek, e coloro che – come Mao Tse-tung e Ciu En-lai – avrebbero voluto proseguire sulla via iniziata fino all’istituzione di una Repubblica Popolare, una momentanea vittoria toccò a Chiang Kai-scek, che, nell’aprile del 1927, formò a Nanchino il suo Governo Nazionalista, destinato a scivolare, ben presto, sotto il controllo delle potenze straniere.
Ancora una volta la rivoluzione sembrava aver mantenuto ben poco di ciò che aveva promesse al suo inizio, e dopo la vittoria di Chiang Kai-scek tutti coloro che avevano lottato per un mutamento radicale della situazione si raccolsero attorno al Partito Comunista che Ciu En-lai, Mao Tse-tung e il generale Chu Teh avevano costituito. 
Appena quattro mesi dopo la formazione del Governo Nazionalista di Nanchino, i capi comunisti crearono il primo nucleo di quell’Armata Rossa, che, tanta parte, avrebbe avuto nella storia della Cina.
Dal 1927 al 1949, la guerra non cessò un solo istante di insanguinare l’intero paese.
Nel 1933, i comunisti crearono una capitale rivoluzionaria a Juikin, mentre la maggior parte della Cina rimaneva ancora sotto il controllo di Chiang Kai-scek.
Dal 1937 al 1945, la guerra civile ebbe, per così dire una sosta, perché l’Armata Rossa di Mao Tse-tung e l’esercito nazionalista di Chianh Kai Scek unirono le loro forze contro l’aggressione giapponese. Ma, a guerra mondiale finita, sfociò nella sua fase conclusiva, che durò, fino al 1949, ed ebbe termine con la battaglia di Suchow (dicembre 1949), nella quale l’esercito nazionalista venne definitivamente debellato e Chiang Kai-scek costretto a fuggire a Formosa.
Quasi quaranta anni separavano, dunque, il vecchio Impero dei Manciù dalla giovane Repubblica di Mao Tse-tung. Quaranta anni di lotte incessanti e fratricide, di rivoluzioni, di vittorie e di successi, di atti di valore e di tradimenti, di gesta leggendarie, tra le quali fa spicco quella che fu chiamata la lunga marcia, un episodio che, perfino, nel nome sembra simboleggiare il lungo cammino compiuto dal popolo cinese verso l’indipendenza.
Considerata in sé, la lunga marcia non fu altro che il trasferimento dell’Armata Rossa dalla provincia di Fukien – nell’estremo lembo sud-orientale del paese – fino ai confini con la Mongolia; ma le difficoltà della marcia, le inenarrabili traversie che i soldati dell’armata dovettero attraversare, l’opera di penetrazione ideologica, che svolsero nelle province che attraversarono, tutto contribuì a dare alla lunga marcia un significato morale.
I centomila uomini che ne furono protagonisti, agli ordini di Chu Teh e di Mao Tse-tung, lasciarono la provincia del Fukien, il 15 ottobre 1934, e giunsero ai piedi della Grande Muraglia nell’ottobre dell’anno seguente. In un anno, avevano coperto 12.800 chilometri, spingendosi prima verso occidente e giungendo a ridosso delle montagne del Tibet, poi, piegando verso nord-est attraverso lo Szechuan e le infinite distese delle Terre d’Erba.
La prima parte della marcia fu grandemente ostacolata dalle truppe nazionaliste che Chiang Kai-scek scagliava sull’Armata Rossa, nel tentativo di logorarne la resistenza e – ove appena fosse possibile – di annientarla, il primo dispiegamento di forze regolari fu superato a Shifeng, dopo appena sei giorni di marcia, un secondo sbarramento fu superato, il 3 novembre, una terza barriera difensiva fu infranta poco dopo la linea ferroviaria che univa Canton a Hankow. Pur di evitare almeno le incursioni aeree, l’Armata Rossa prese a spostarsi di notte:
“Marciare di notte è bello”,
scrisse uno dei protagonisti della impresa, il generale Chu-Teh, 
“se vi è il chiaro di luna e se spira la brezza. Quando non eravamo vicini al nemico gli uomini cantavano. Se la notte era buia e il nemico era lontano, fabbricavamo delle torce con i rami di pino e allora era veramente uno spettacolo magnifico. Quando, ai piedi di una montagna, vedevamo la colonna interminabile di torce salire lungo le pendici, sembrava che un serpente di fuoco svolgesse le sue spire intorno alla montagna. Dalla vetta vedevamo un mare di mobili punti di fuoco. Uno splendore rosato segnava la nostra strada.”     
Nel mese di dicembre l’Armata Rossa attraversò il fiume Hsiang penetrando nella ricca provincia dello Kwangsi, dove dovette superare altri tre blocchi predisposti dai locali Signori della Guerra:
“Il nome dell’Armata Rossa”,
dice un ignoto cantore,
“volò allora sopra i quattro mari.”
Ma l’opposizione delle truppe regolari non fu che una delle difficoltà incontrate: sulle prime, l’Armata Rossa dovette fare i conti anche con gli abitanti delle città e delle campagne, cui per lunga esperienza un esercito – di qualunque colore fosse – non prometteva nulla di buono. Ma la lunga marcia, oltre che una manovra militare, fu anche una campagna di penetrazione psicologica; e quei soldati che, invece, di derubare i contadini parlavano loro di una Cina unita e indipendente, e che, invece, di essere uno strumento degli esosi signorotti, come lo erano, da secoli, gli uomini armati locali, incitavano a rovesciarli per instaurare un ordine nuovo, vinsero ben presto ogni diffidenza di tutte le genti con cui vennero a contatto. Assai più temibili delle truppe di Chiang Kai-scek o dei vari Signori della Guerra, furono anche gli ostacoli naturali; dopo poche settimane di marcia, l’Armata Rossa aveva dovuto valicare il Laoshan, o Vecchia Montagna: sulle sue ripide balze, battute dal gelido vento invernale, i soldati si inerpicarono a fatica, aiutando e sostenendo i loro compagni feriti. Chi si sedeva, narrarono i sopravvissuti, era perduto; dormirono sui sentieri, quasi in parete, con il rischio di precipitare a valle. Ancora più terribili furono le Grandi Montagne Nevose, dove spesso uomini si addormentarono la sera e non si svegliarono più, uccisi dal freddo e dalla stanchezza.
Terribili le grandi Terre d’Erba, “che pochi uomini avevano fino allora veduto”: una immensa distesa verdastra di erbe e di acquitrini, su cui non crescevano neppure i cespugli di bacche selvatiche, e che l’Armata Rossa attraversò – narra ancora l’ignoto cantore – “sfidando il freddo e la fame”. Ancora più terribili i molti fiumi che l’esercito dovette guadare: il grande fiume dalle Sabbie d’Oro, lo Hsiang e il più terribile tra tutti: il Ta Tu, del cui ponte sospeso l’esercito di Chiang aveva bruciato l’assito lasciando solamente i cavi di sostegno a unire le due rive e che una pattuglia di valorosi attraversò, sostenendosi ai cavi con le mani, sotto il fuoco incessante delle mitragliatrici nemiche.
Mao Tse Tung ricorderà queste straordinarie fatiche in una poesia che, indipendentemente dal valore artistico, ha fatto il giro del mondo e che, tra l’altro, dice:
“Sto sulla cima più alta delle Sei Montagne, e conto sulle dita una distanza di diecimila “li (1)” … Non siamo uomini, se non raggiungiamo la Grande Muraglia.”
Nell’ottobre del 1935, dopo dodici mesi di marcia, l’Armata Rossa raggiungeva finalmente lo Shensi settentrionale, congiungendosi così all’esercito rivoluzionario del nord. Dei centomila uomini che, un anno prima, avevano lasciato il Fukien e dei molti altri che si erano arruolati strada facendo, solo trentamila portarono a termine la lunga marcia. Ma quel piccolo esercito giungeva al suo traguardo temprato dalle mille fatiche trascorse, dalle mille avversità superate, con quella intatta fede nella propria missione che era stata valido sprone nei momenti più duri. Attorno a quel nucleo si raccoglierà la nuova Armata Rossa, cui spetterà il compito – fianco a fianco con l’esercito nazionalista – di liberare la Cina dall’invasione giapponese; e poi – una volta allontanato il comune pericolo – di riprendere contro Chiang Kai-scek e il Kuomintang la lotta rivoluzionaria, tante volte, iniziata e. fino allora, mai condotta a termine.
Ma con questi avvenimenti si entra in un altro capitolo di storia; un grande capitolo in cui la guerra di liberazione cinese non è che un particolare nel quadro generale del conflitto che insanguinò il mondo intero. La storia della lunga marcia ha termine qui, nello Shensi settentrionale, ai piedi della Grande Muraglia, dove nell’ottobre del 1935 – secondo le parole dell’anonimo cantare epico – “le Armate Rosse del Nord e del Sud si ricongiunsero, facendo fallire la nuova campagna di sterminio e unendo il popolo per salvare la Cina”.
Note:
(1) Li è un'unità di misura di lunghezza, nota anche come miglio cinese, che nel XX secolo è stata portata a circa 500 metri.
Daniela Zini
Copyright © 31 ottobre 2010 ADZ


Lunedì 01 Novembre,2010 Ore: 18:36
 
 
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