- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (310) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org ISTANBUL<br>tre continenti in una città,di Daniela Zini

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO

ISTANBUL
tre continenti in una città

di Daniela Zini

Moschea di Santa Sofia ad Istambul
“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
 
La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia  senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.
 
 
Scelta per la sua straordinaria posizione geografica sul Corno d’Oro, quale capitale di grandi Imperi, di cui, ancora oggi, conserva le vestigia, Istanbul ha visto il succedersi di diverse culture, ognuna delle quali ha lasciato meravigliosi capolavori. Il nostro viaggio è dedicato proprio a questa metropoli, il cui passato straordinario emerge, con forza, tra le maglie della città moderna.
“Je suis né Oriental, la solitude, le désert, la mer, les montagnes, les chevaux, la conversation intérieure avec la nature, une femme à aimer, de longues nonchalances de corps pleines d'inspiration d'esprit, puis de violentes et aventureuses périodes d'action comme celles des Ottomans et des Arabes, c'était là tout mon être, une vie tour à tour poétique, religieux héroïque ou rien.”
Alphonse de Lamartine, Commentaire du Passé
Ritengo che i problemi dell’umanità – e soprattutto quelli più assillanti che tormentano l’ora attuale – non debbano mai essere esaminati senza una venatura di intelligente umorismo. Saper sorridere degli amici, come dei nemici, è una virtù dei popoli forti. E chi diffonde il sorriso è un benemerito dell’umanità. Il sorriso è serenità e la serenità predispone all’equilibrio di giudizio. Equilibrio particolarmente opportuno, quando questo giudizio si riferisce a popoli tanto diversi dal nostro per costume e religione.
Quel sovrano dell’umorismo, che fu Jonathan Swift, diceva che il modo migliore di trascorrere allegramente la vita è di sorbire un buon caffè e, quando non è possibile sorbirlo, mantenersi sereni e ilari come se si fosse sorbito.
Giudichiamo, dunque, la Turchia con sorridente serenità, come se la Turchia non ci avesse mai negato una tazzina del suo aromatico, brillante, gustosissimo caffè.  
1. Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul: tre nomi, una sola città  
Si la Terre n'avait eu qu'un seul État, sa capitale aurait été Istanbul.
Napoléon Bonaparte
Non esiste luogo dove conoscenza e cultura
Trovino migliore accoglienza di Istanbul.
Nessuna città ha assaporato i frutti del giardino dell’arte
Con gusto simile alla città di Istanbul.
Che Dio permetta a Istanbul di fiorire
Perché vi accadono grandi cose…
Così il poeta Yusuf Nabi (1642-1712) elogia Istanbul (1), Città Europea della Cultura 2010.
Immaginare Istanbul come la strozzatura di una grande clessidra, che abbia da un lato l’Europa e dall’altro l’Asia e l’Africa, è indicare il ruolo di questa città nella storia. Il Bosforo, dove sorge, neppure nell’antichità deve aver rappresentato un divisorio invalicabile, se, come dice il nome, poteva essere attraversato a nuoto da un toro; congiunge, piuttosto, due mondi, creando tra loro un flusso agitato, ma inevitabilmente ininterrotto. Porsi al centro di questo canale, obbligato per uno dei mondi, equivale a sorvegliare quel flusso e a dominare o respingere il mondo contrapposto.
Quando, mille anni prima di Cristo, l’oracolo di Delfi consigliò di fondare una città sulla costa orientale della Tracia, esprimeva, in termini oscuri, dati strategici ed economici molto chiari. E Bizante il megarese, figlio del Dio Poseidone e della Ninfa Ceroessa, che, quattro secoli più tardi, obbedì all’oracolo, fondando Bisanzio, li ebbe, forse, presenti.
Gli scambi commerciali tra la Grecia e i porti del Mar Nero erano continui e importanti e la nuova colonia che dominava lo sbocco del Bosforo, al confine tra l’Oriente e l’Occidente, si trovava, geograficamente, in un punto ideale di transito, di carico e di scarico. Le carovane provenienti dall’Arabia, dalla Persia, dall’Egitto si dirigevano verso il Corno d’Oro. Le flotte mercantili delle città mediterranee venivano a scaricare le loro merci e a caricare le sete, i cereali, le spezie, l’avorio, gli oggetti d’arte e i metalli preziosi. Padrona del canale marittimo di comunicazione tra i due mondi, Bisanzio poteva chiuderlo o aprirlo.
Conscia del valore della sua alleanza, capace di farsela pagare, Bisanzio era divenuta, alla fine del II secolo d.C., una delle città più importanti del Medio Oriente, ma subì un terribile colpo quando Settimio Severo la saccheggiò per punirla di essersi schierata con l’antagonista Pescennio. Impoverita, indebolita, non era riuscita a ristabilire il suo potere e neppure a risollevarsi dalla rovina, quando Costantino decise di ricostruirla, abbellirla e ingrandirla, di farne una nuova Roma e darle il suo nome. 
L’11 maggio 330 d.C., con feste che durarono quattro giorni, l’Imperatore romano Costantino trasferì ufficialmente la residenza imperiale da Roma sulle rive del Bosforo e diede all’Impero la nuova capitale, per la quale lavorava da cinque anni. La sua abile politica che aveva compreso tutta la potenza dell’idea cristiana, ne aveva presagito il trionfo e intuiva che solo il Cristianesimo avrebbe potuto assicurare l’unità dell’Impero. Ma gli antichi, maestosi Dei avrebbero ostacolato la cristianizzazione di Roma. Perché un’altra religione fosse il fondamento spirituale di un rinnovato potere occorreva che venisse da una città santa e meravigliosa, una città che superasse in magnificenza la città della Lupa. I due grandi avvenimenti del regno di Costantino – il riconoscimento del Cristianesimo e il trasferimento da Roma a Bisanzio – sono strettamente collegati.
Costantinopoli si sostituiva a Roma, la città di Romolo e Remo.
Affermando di essere ispirato da Dio, l’Imperatore stesso tracciò con la propria lancia il perimetro sacro delle mura, il pomerium, e i contemporanei considerarono con stupore l’immensità di una cinta che, solo un secolo dopo, avrebbe dovuto rivelarsi troppo stretta. Quarantamila soldati goti lavorarono come manovali a questa impresa gigantesca. Costantino non esitò a spogliare Roma, Alessandria, Efeso, Antiochia, Atene, per ornare la città. Prima di morire voleva vedere compiuta, in tutto il suo splendore, la capitale che sognava. Una muraglia che correva dalle rive del Mar di Marmara al Corno d’Oro la difendeva dalle incursioni terrestri. Nell’interno della città, dove vi era e vi fu, sempre, un inestricabile dedalo di viuzze fangose, Cstantino edificò monumenti, i cui resti, come l’acquedotto di Valente (368 d.C.) (1),la grande muraglia e la Basilica di Santa Sofia (537 d.C.) ci stupiscono ancora.
L’Impero Bizantino ebbe inizio nel 395, quando Teodosio il Grande divise tra i suoi due figli, Arcadio e Onorio, gli immensi possedimenti di Roma. Onorio regnò sull’Occidente, Arcadio sull’Oriente. La divisione del potere lasciava intatta – ufficialmente e giuridicamente – l’unità dell’Impero Romano, ma solo in apparenza; di fatto, si fondava l’Impero d’Oriente e un nuovo equilibrio si stabiliva nel mondo. L’Impero possedeva le rive a est, a sud e a ovest del Mar Nero e si estendeva in Europa sulla penisola balcanica, la Grecia e le isole dell’Arcipelago, il Danubio ne segnava il limite settentrionale. In Asia comprendeva l’Asia Minore, la Siria e le province confinanti con il mar Rosso; in Africa, l’Egitto fino alla Grande Sirte: dominava, pertanto, la metà orientale del bacino mediterraneo con il Mar Nero e il Mar Rosso. È sufficiente gettare un colpo d’occhio sulla carta geografica per constatare come tutti questi territori, modellati da corsi d’acqua che li bagnano, li circondano, li uniscono, costituissero una potenza marittima di straordinaria estensione. Ma, a nord, a est e a  sud – su tutte le frontiere terrestri – premeva una folla di popoli potenti, ambiziosi, avventurosi e barbari. Costantino aveva voluto che la città, che portava il suo nome, abbacinasse l’universo, ma, facendola oggetto dell’ammirazione universale incideva fatalmente il rovescio di questa medaglia eccessivamente gloriosa: la meraviglia diveniva cupidigia. Era una preda che doveva suscitare in tutti i popoli, per un  migliaio di anni, un feroce desiderio di conquista.
Tra la morte di Costantino, nel 337, e l’inizio del VI secolo, non meno di venti Imperatori si successero sul trono di Costantinopoli.
Ne VI secolo, ritenuto, a ragione, dagli storici l’Età d’Oro di Costantinopoli, la città contava, già, circa ottocentomila abitanti. È in questa epoca e, principalmente, sotto l’impulso diretto di Giustiniano, che la vasta città si arricchì di numerose meraviglie architettoniche, di cui la Basilica di Santa Sofia è un superbo esempio.
Come base mercantile venne presto contesa tra le Repubbliche Marinare. Pur di avere tutti i privilegi, Venezia intervenne, nal 1081, in aiuto dell'Imperatore Alessio I Comneno contro i normanni. Guglielmo di Puglia, pur celebrando la gloria del suo Signore, Roberto il Guiscardo, registrò lo sgomento suscitato dall'intervento della “città popolosa, ricca di uomini e di mezzi” e della sua “gente esperta nella guerra navale e coraggiosa”, che, in patria, “non può passare di casa in casa se non in barca” e non aveva nessuno che le fosse superiore nel combattere sul mare.
Come potenza spirituale Costantinopoli si erse contro Roma. Lo Scisma d'Oriente fu la prima grande frattura nell'ambito della Cristianità. Non a caso, uno degli scopi della terza crociata fu di ricondurre alla ragione i bizantini. Federico Barbarossa, che comandava i crociati, non riuscì a portare a termine l’impresa e occorse una quarta crociata, nel 1204, ma, più che una conversione, operò un saccheggio totale, che accelerò il declino di Costantinopoli.
Nel 1391, i turchi, in piena spinta espansionistica, la cinsero di assedio, ma, costretti a ritirarsi per respingere i mongoli, si ripresentarono sotto le sue mura, la mattina del 29 maggio 1453. Lo stesso pomeriggio, a cavallo, il Sultano Maometto II, giovanissimo condottiero – aveva appena ventuno anni – fece il suo ingresso trionfale nella città devastata.
“La città e gli edifici sono miei, ma i prigionieri e il bottino, i tesori d'oro e di bellezza li lascio al vostro valore: siate ricchi e siate felici. Molte sono le province del mio Impero: l'intrepido soldato che arriverà per primo sulle mura di Costantinopoli sarà ricompensato con il governo di quella più bella e più ricca, e la mia gratitudine accumulerà i suoi onori e i suoi beni oltre la misura delle sue stesse speranze.”
Maometto II
L’assedio era iniziato il 6 aprile 1453. Molti cronisti ci presentano drammatiche descrizioni della caduta di Bisanzio.
Leggiamo dalle cronache:
“Lungo le strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l’acqua dopo un temporale e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale.”
dal diario del veneziano Niccolò Barbaro, testimone dell’assedio
“Tutti i viali, le strade e i vicoli erano pieni di sangue e umore sanguigno che colava dai cadaveri dei civili sgozzati e fatti a pezzi.”
“Avresti dovuto vedere la più infima soldataglia turca scovare e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose.”
“Nella chiesa che si chiamava di Santa Sofia… buttarono giù e fecero a pezzi tutte le statue, le icone e le altre immagini di Cristo, dei Santi e delle Sante.”
“Abbattute le porte dell’iconostasi, agguantavano tutte le suppellettili sacre e le sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette.”
“Preferisco passare sotto silenzio ciò che hanno fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi.”
“I paramenti intessuti d’oro con le immagini di Cristo e dei Santi li usavano come giacigli per i loro cani e per i loro cavalli.”
dalla lettera del Vescovo Isidoro di Kiev al Cardinale Basilio Bessarione, spedita da Candia il 6 luglio 1453
Oggi, ancora, sono visibili a Rumeli Hissar, a nord della capitale, le imponenti rovine delle fortezze costruite da Maometto II, sulla riva europea del Bosforo, dalle quali i suoi cannoni lanciavano su Costantinopoli le loro palle di pietra. Sulla riva asiatica vi erano fortificazioni analoghe, erette dal Sultano Bajazet, un secolo prima. L’assediante controllava, dunque, il Bosforo e rendeva impossibile qualsiasi vettovagliamento dal nord e dal mar Nero. I preparativi di Maometto II erano stati lunghi e minuziosi: non voleva correre alcun rischio. A tale scopo, aveva dedicato i mesi di febbraio e di marzo al trasporto di un cannone di bronzo, gigantesco per l’epoca, fuso a Adrianopoli da un fonditore di campane ungherese di nome Urban. Questo ordigno, che doveva essere collocato il più vicino possibile alle mura della città, scagliava una pietra del diametro di 81 centimetri – circa 2,5 metri di circonferenza – e del peso di 6 quintali. Si dovette consolidare il terreno e costruire una strada per trasportare questo cannone del peso di 30 tonnellate, che sessanta buoi trascinavano lentamente e duecento uomini sostenevano ai due lati.
Costantino XI fu ucciso e l’armata turca irruppe nella città.
I turchi vincitori non si comportarono più umanamente dei crociati: le suore furono violentate, i tesori saccheggiati e le immagine sacre frantumate e disperse; le biblioteche dei conventi e delle sacrestie furono trasformate in roghi e numerose furono le esecuzioni. La testa di Costantino fu inchiodata in cima alla colonna dell’Augusteon, tutti i dignitari di corte furono decapitati. Interminabili file di greci di tutte le età, uomini, donne, fanciulli, furono mandati incatenati, a Adrianopoli, per essere venduti come schiavi. Le navi lasciarono il porto cariche di bottino. Le mura di Galata furono abbattute, le chiese chiuse.
Maometto II assunse il titolo di Conquistatore e, finalmente, entrò nella città vinta, facendo cessare le stragi e i saccheggi, stringendo accordi con le autorità bizantine sopravvissute e sostituendo turchi musulmani provenienti dall’Anatolia alla vecchia classe dirigente.
“Darti la città non è decisione mia né di alcuno dei suoi abitanti; abbiamo, infatti, deciso di nostra spontanea volontà di combattere e non risparmieremo la vita.”
Costantino XI
Il Sultano si insediò, in seguito, nel Palazzo delle Blacherne: la dimora degli Imperatori diveniva quella dei Sultani, la loro chiesa più venerata una moschea.
L’Impero Bizantino non esisteva più, sorgeva l’Impero Ottomano che trasferiva la capitale da Adrianopoli a Costantinopoli.
Il Senato veneziano recò la notizia al Papa Niccolò V, il 29 giugno.
“Mai avevamo perduto… una città o un luogo paragonabile a Costantinopoli.”
si lasciò sfuggire il Cardinale Enea Silvio Piccolomini, futuro Papa Pio II.
Tutta l’Europa fu scossa dal terrore, ma le rivalità e le lotte che la travagliavano non le permisero di coalizzarsi contro l’infedele: mai il Cristianesimo aveva subito una così totale e spaventosa disfatta.
Scrive Franco Cardini:
“L’Occidente parve scuotersi d’un tratto da un lungo torpore.”
e, forse, dovette avvertire un certo senso di colpa per la morte annunciata dell’Impero d’Oriente. Non aveva fatto altro che comportarsi come le trenta navi veneziane, che, raggiunte le acque della città nei giorni seguenti la sconfitta, alla vista delle bandiere turche avevano voltato le prue, e avevano fatto rotta verso l’Europa.
Costruito artificialmente, l’Impero Bizantino, portava in sé mille principi di dissoluzione.
Da quel momento e  per circa cinquecento anni, Costantinopoli divenne la Dar as-Sadat, la Sede della Felicità, il nucleo di una compagine imperiale che andava dall’Ungheria al Marocco, dal Mar Caspio al Mar Rosso. Rinverdirono i suoi fasti, sostituendosi alle basiliche e ai palazzi bizantini incendiati le moschee e i palazzi turchi, alle mollezze della corte del Basileus quelle della corte del Sultano. Sulle colline che dominavano la città furono costruite superbe moschee, lungo le rive del mare e sulle pendici boscose che si affacciavano sul Corno d’Oro si moltiplicarono i palazzi residenziali e le ville in legno, ai crocicchi sorsero fontane, mercati dal tetto a cupola popolarono le vie e le piazze, arricchite dai capolavori degli architetti turchi.
Nel XIX secolo, “il malato d’Europa” iniziò il suo declino, con le indipendenze – acquisite o di fatto – greca, serba ed egiziana. Da quel momento, l’Impero Ottomano, controllato dalle potenze europee, che si disputavano sull’opportunità di mantenerlo o farlo scomparire, proseguì il suo smembramento. Le riforme, richieste dalle potenze e promesse dal Sultano, per modernizzare il sistema politico e preservare i diritti delle minoranze religiose, dhimmi, furono attese solo in parte e, unicamente, nelle grandi città. I dhimmi erano ripartiti, secondo la loro religione in comunità, millet, e beneficiavano di una relativa autonomia cultuale e culturale. Più di due milioni di armeni vivevano nell’Impero – la cui popolazione era, nel 1877, di circa trentasei milioni – e formavano, con i greci, la principale minoranza cristiana. Queste cifre non rendono conto della popolazione esatta, in primo luogo, perché l’Impero subì, nel corso del secolo, amputazioni territoriali successive e ciascuna di queste indipendenze fu seguita da migrazioni, in secondo luogo, perché i censimenti erano difficili da realizzare, particolarmente nelle regioni lontane, poco accessibili e percorse da tribù nomadi, e in terzo luogo, perché le comunità gonfiavano o riducevano le cifre secondo che avessero interesse o no a farlo. A Costantinopoli, la più cosmopolita delle città d’Europa, turchi e armeni vivevano fianco a fianco, in una relativa armonia, senza che la discriminazione tra credenti e dhimmi fosse rigorosamente attuata. Le ricche famiglie armene – amira – svolgevano un ruolo importante nell’economia e nella vita politica della capitale: controllavano importanti settori dell’economia ottomana. Commercianti e artigiani appartenevano a corporazioni – esnaf – dove armeni e turchi si mescolavano.  Il conflitto tra amira e esnaf era sovente più acuto che tra armeni e turchi della stessa condizione sociale.
L’Impero Ottomano era uno Stato agricolo. I tre quarti degli abitanti vivevano nelle campagne. Il carico delle imposte, il carattere primitivo del macchinario, la mancanza di capitali frenavano lo sviluppo economico. Il miglioramento progressivo delle comunicazioni permise la pratica di culture di esportazione e la crescita di città portuali, che attrassero una popolazione operaia. Nonostante ciò, l’industria non si sviluppò e l’artigianato regredì.
Nelle città, i dhimmi rappresentavano un terzo della popolazione e controllavano il commercio e l’esportazione. Se le solidarietà e le relazioni tra comunità – in particolare tra armeni e turchi – si mantennero, sia nella città sia nella campagna, le barriere familiari non cedettero. Le città furono divise in quartieri dove si raggruppavano le comunità; i villaggi erano, spesso, abitati da una stessa comunità e i matrimoni si facevano sempre all’interno dello stesso gruppo religioso, praticamente mai tra cristiani e musulmani.Per gli orientalisti europei, che si avventuravano in Turchia, la realtà della capitale occultava, sovente, la situazione nelle province e non percepivano affatto le difficoltà delle minoranze dell’Impero Ottomano. Nelle province, molteplici incidenti lacerarono il tessuto sociale e modificarono, a poco a poco, lo sguardo che i musulmani portavano sui cristiani: passarono dallo stato di dhimmi a quello di stranieri. È così che, stanchi di domandare alla Sublime Porta il rispetto dei propri impegni, i rappresentanti della comunità armena – organizzata dalla promulgazione di una costituzione armena, nel 1863, in un’assemblea nazionale con i suoi delegati eletti dalla comunità – si rivolsero, nel 1878, alle potenze europee, riunite a Berlino, per negoziare la pace al termine della guerra russo-ottomana. La Sublime Porta fu, allora, obbligata dall’articolo 61 del Trattato di Berlino a proteggere gli armeni delle province orientali dalle persecuzioni delle tribù curde e degli immigrati circassi.
Divenne, dunque, urgente per la Sublime Porta riorganizzare e pacificare l’est.
Abdul Hamid armò i curdi, organizzando, a partire dal febbraio del 1891, i famosi reggimenti di cavalleria, che portavano il suo nome, gli hamidié, e massacrò la popolazione armena, nel 1894, nel 1895 e nel 1896.
La questione armena era nata e diveniva una delle componenti della cosiddetta Questione d’Oriente.
I massacri ebbero per effetto di sviluppare un movimento nazionale armeno. Nelle province orientali dell’Anatolia, si formarono bande di armeni irregolari – i fedai –, che proteggevano i villaggi dalle esazoni dei turchi e dei curdi.
Tagliato dalla realtà nel suo palazzo di Yildiz-Kiosk, Abdul Hamid sottovalutò il malcontento di una opposizione certamente bandita e poco numerosa ma che cresceva, particolarmente, tra i militari di tutti i gradi. Gli esiliati turchi si riunirono all’estero in movimenti di opposizione al Sultano e si allearono con i partiti armeni, in particolare con la Federazione Rivoluzionaria Armena – il Dashnak. A Parigi, nel dicembre del 1907, i partiti di opposizione si dettero diciotto mesi per essere a Costantinopoli. Furono sufficienti sette mesi, anche se ne servirono ancora nove per giungere all’abdicazione del Sultano.
Le elezioni, l’istituzione di un Parlamento lasciarono, per un breve momento, nascere la speranza di una ottomanizzazione dell’Impero, di una fusione in un insieme omogeneo delle identità nazionali dei suoi componenti. Ma, dall’inizio, i diversi gruppi nazionali e religiosi ottomani ebbero opinioni diverse sulle varie questioni fondamentali, quali la natura dello Stato e l’identità ottomana. I massacri perpetrati in Cilicia, nel 1909, fecero vacillare la fiducia che gli armeni avevano posto nel Comitato di Unione e Progresso. La discriminazione e la corruzione, sempre più dilaganti nelle province orientali dell’Anatolia e una politica governamentale sempre più nazionalista, contribuirono a degradare ancora di più le relazioni tra turchi e armeni fino allo scoppio della guerra mondiale, nell’agosto del 1914.
L’Impero Ottomano si schierò al fianco delle potenze centrali, in novembre.
Nel febbraio del 1915, il Comitato di Unione e Progresso prese la decisione di sopprimere la popolazione armena dell’Impero, al fine di regolare definitivamente una questione politica divenuta insolubile e aprire all’espansione turca la via della Transcaucasia verso l’Azerbaijan e i popoli turchi della Russia.
Questo annientamento fu freddamente pianificato.
Contrariamente a ciò che la Turchia pretese, in seguito, e che, ancora oggi, afferma, non fu una guerra civile  né la replica a una rivolta, ma una impresa di pulizia etnica di una popolazione indifesa. Questa decimazione degli armeni ottomani fece circa un milione e duecentomila vittime. Fu, prima che la parola fosse coniata, il primo genocidio della storia moderna, un crimine tale che è definito dalla Convenzione, adottata a New York, il 9 dicembre 1948, una infrazione imprescrittibile del diritto internazionale.
Al termine della prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano fu destinato allo smembramento con il Trattato di Sèvres dell’agosto del 1920. Ma, un movimento nazionalista turco si era sviluppato in Anatolia, sotto l’impulso di Mustafa Kemal, che aveva ripreso in parte l’eredità dei Giovani Turchi del Comitato di Unione e Progresso. I nazionalisti avevano per priorità di soffocare il focolaio armeno, che era rinato in Cilicia, sotto il controllo della Francia, e sopprimera la Repubblica armena, che si era costituita in Transcaucasia, nel maggio del 1918. I bolscevichi recuperarono questo territorio armeno e l’incorporarono, più tardi, nell’URSS.
Nel settembre del 1922, i kemalisti condussero una guerra vittoriosa contro i greci e occuparono Smirne, distrussero, allora, l’ultima comunità armena dell’Anatolia, che era sfuggita, nel 1915, al massacro.
Restavano a Istanbul circa settantamila armeni, ultimo reliquato di una vasta comunità che aveva, per secoli, vissuto con i turchi in seno all’Impero Ottomano.   
I negoziati di pace dopo l’Armistizio di Mudanya (11 ottobre 1922) ebbero la loro conclusione con il Tattato di Losanna (24 luglio 1923).
La nuova Turchia era creata, ma occorreva darle altre strutture: i nazionalisti turchi non avrebbero saputo concepire un ritorno all’Impero; così, il 29 ottobre 1923, la Repubblica turca fu proclamata e Mustafa Kemal fu eletto Presidente.
Per meglio rompere con l’Ancien Régime, la capitale fu fissata ad Ankara.
Ultima tappa della Rivoluzione turca: il 3 marzo 1924, il Califfato era abolito e l’ultimo Califfo ottomano prendeva la via dell’esilio.
Così si chiudevano cinque secoli di storia ottomana, e iniziava la storia della Turchia.
Come Pietro il Grande in Russia o Mutsu-Hito in Giappone, Mustafa Kemal intendeva vedere il suo paese raccogliere le sfide della modernità e porsi a modello per i paesi musulmani desiderosi di occidentalizzarsi.
2. Mustafa Kemal
“Kemal est de taille ordinaire mais avec une élégance extrême, plutôt petit que grand, bien fait, blond, le teint coloré, les mains très petites, des yeux bleus fort pénétrants. Il ne porte point d’age. Aucun de ses portraits ne lui ressemble. Vus de près, son front, ses tempes, ses joues sont creusés de rides profonde set parallèles, comme on en voit aux masques de samouraïs; à deux pas, c’est le visage d’un jeune homme aux lèvres minces, au dur menton, aux orbites creuses, l’air du Bonaparte vendémiaire.
Henri Béraud, Dictateurs d’aujourd’hui
Capo del Partito Repubblicano del Popolo, Presidente della Repubblica, capo degli eserciti, Presidente del Parlamento, Mustafa Kemal concentrava nella sua persona la totalità dei poteri e, attraverso la via autoritaria, intendeva costruire uno Stato unitario e laico, in grado di attuare i profondi cambiamenti necessari alla realizzazione di un grande progetto nazionale. Questo Stato unitario non poteva tollerare l’esistenza di minoranze potenzialmente dissidenti: la resistenza curda era stata spezzata al prezzo di feroci massacri; gli armeni, già terribilmente provati dalle carneficine del 1894-96 e del 1915, avevano visto crollare il sogno effimero di una Grande Armenia e avevano dovuto   contentarsi di uno Stato-croupion, integrato alla nuova URSS; un milione e trecentomila greci insediati in Asia Minore erano stati brutalmente espulsi e scambiati con cinquecentomila turchi che vivevano in Grecia. L’eliminazione delle minoranze e lo scambio delle popolazioni garantivano l’unità nazionale del nuovo Stato, ma questo doveva egualmente impegnare contro l’Islam la battaglia della laicizzazione.
Il nuovo Stato organizzò l’struzione pubblica, sostituì il calendario musulmano tradizionale con quello gregoriano (1926), introdusse l’alfabeto latino in luogo dell’alfabeto arabo (1928), adottò il sistema metrico (1931).
Il 17 febbraio 1926, un codice civile, ispirato alle legislazioni europee e destinato a sostituire la legge coranica, fu adottato dai deputati. L’eguaglianza dei diritti fu riconosciuta a tutti i cittadini turchi, uomini e donne, le quali furono invitate a svelarsi e beneficiarono del diritto di voto e del diritto all’elegibilità, venti anni prima delle italiane. Nella sua tenace volontà di occidentalizzare la Turchia, Mustafa Kemal – come aveva preteso Pietro il Grande dai boiardi di tagliarsi la barba e vestire all’europea – impose ai turchi di rinunciare al fez, copricapo tradizionale. La poligamia fu soppressa, parimenti il ripudio della moglie da parte del marito. Nuovi codici furono adottati in materia penale e commerciale, ispirati ai modelli italiano, svizzero e tedesco. Dal 1934, la radio trasmise solo ritmi occidentali, la musica orientale fu accusata “di esaurire ogni fonte di energia e di fermare ogni slancio verso il progresso”.
Quando Edouard Herriot, una delle grandi figure della vita politica francese tra le due guerre, si recò in Turchia, nel 1933 – su invito del Presidente della giovane Repubblica turca, Mustafa Kemal – era già guadagnato alla causa della modernizzazione kemalista. Pubblicato, nel 1934, il suo racconto di viaggio, Oriente, è un panegirico entusiastico dell’opera compiuta, in una decina di anni, dal Governo di Ankara:
“Ce que ces réformes du Ghazi ont fait disparaître de la vieille Turquie, c’est surtout son aspect Mamamouchi. Plus de fez; les femmes ne portent plus le voile de mousseline, le yachmak. Plus de monastères musulmans, de tekkés; on a relégué au musée d’Ankara les instruments dont se torturaient les derviches: fanatisme et comédie.
On les a relégués à côté de cette tiare persane qui ressemble étrangement à la tiare papale.
Il est facile, au reste, de définir les différentes réformes qui ont transformé le vieil Empire ottoman en une jeune et active République. D’abord, suppression de toute religion officielle, des écoles coraniques attachées aux mosquées (médressés), du Chéri et de l’Evkaf. La République turque sera laïque. Plus de tribunaux religieux fondant leurs décisions sur la loi islamique et, par leurs procédures exceptionnelles, justifiant en quelque sorte les Capitulations. Le statut matrimonial dépendra désormais du seul Code Civil. Sur tous les biens religieux, gérés naguère par l’Evkaf, l’Etat met la main. Fini le régime qui confondait cet Etat avec l’Eglise musulmane.”
Va detto che l’ammirazione testimoniata dall’ex-Presidente del Consiglio francese nei confronti della Repubblica kemalista non ha nulla di eccezionale. Praticamente tutti gli osservatori occidentali che, in quegli anni, giudicarono utile far conoscere il loro punto di vista sulla nuova Turchia, espressero, in termini molto simili, lo stesso apprezzamento. Certo, alcuni autori notavano, al volo, il carattere autoritario del regime, ma in quegli anni, questo non turbava. Anche Herriot, sovente severo nei riguardi degli altri regimi autoritari dell’epoca, giudicava con molta simpatia il lavoro del Partito Repubblicano del Popolo, dimenticando di segnalare che fosse l’unico partito.
Nel 1932, la Turchia entrò nella Società delle Nazioni e, nel 1934, stipulò, con la Grecia, la Yugoslavia e la Romania, un patto balcanico, che mirava a superare i passati antagonismi.
Nel luglio del 1936, la convenzione di Montreux ristabilì la piena sovranità turca sugli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli e, nel 1939, l’accordo con la Francia permise il recupero di Alessandretta e del Mussa Dagh.
La nazione turca non guardava più ai Balcani o al Medio Oriente arabo, ma a est. Nel luglio del 1937, concludeva con l’Afghanistan e l’Iran il Patto di Sadabad, tappa preliminare alla realizzazione di un grande progetto panturanico, come quello vagheggiato da Enver Pasha, destinato a riunire i popoli delle steppe dell’Asia centrale. Era alla sua vera identità, alla sua missione storica che Mustafa Kemal intendeva riportare il popolo turco:
“Il mondo vedrà un giorno con stupore svegliarsi e mettersi in marcia questo Impero invisibile che giace, ancora addormentato, nei fianchi dell’Asia.”
Quando Kemal denunciò il Trattato di Pace di Sèvres, dimostrando in tal modo la propria determinazione a non tenerne conto e a voler, quindi, riprendersi le zone della Turchia occupate dalle truppe straniere, i greci marciarono contro Ankara, partendo da Smirne dove avevano base. Approfittando del fatto che le truppe turche di Kemal Mustafa erano, in parte, impegnate a rioccupare il Kurdistan e a espugnare Erzerum, tenuta dagli armeni, i greci compirono, nel 1921, una brillante avanzata che li portò fino sulle rive del Fiume Sakarya, a novanta chilometri da Ankara. A questo punto, lo Stato Maggiore greco commise una mossa falsa, che fu fatale per l’esercito greco, anziché assalire risolutamente le truppe turche, schierate di fronte ad Ankara, e decidere, così, le sorti della guerra, preferì attendere rinforzi per non compromettere la vittoria. In effetti, la situazione di Kemal appariva disperata. Con i greci vittoriosi e accampati a breve distanza dal suo rifugio di Ankara e i sovietici che avevano invaso l’Armenia turca, prendendo, così, Kemal alle spalle, quest’ultimo sembrava avere la sorte segnata. Ma fu proprio in questo frangente che si rivelò l’uomo. Trattò rapidamente un accordo con i sovietici, cedendo una parte dell’Armenia e ottenendo la pace. Potè, così, altrettanto rapidamente, ritirare dal fronte russo le truppe e, ormai, sicuro alle spalle, concentrarle sul fronte del Fiume Sakarya davanti ad Ankara, contro i greci. Giocando, ancora una volta, sulla rapidità di concezione e di attuazione, ordinò di prevenire l’offensiva dei greci su Ankara, scatenando, a sua volta, la controffensiva. Kemal seppe anche scegliere il comandante adatto per condurre questa controffensiva: l’esperimentato generale Mustafa Ismet Inönü. La controffensiva turca sorprese i greci nel momento più delicato per un esercito: la preparazione di una offensiva. Colti in contropiede nella fase in cui si apprestavano ad attaccare, i greci esitarono. Le due battaglie di Bursa e Dumlypinar, non lontano dalla linea del Fiume Sakarya, iniziate dai greci come battaglie offensive, si volsero in battaglie difensive. La lotta sul fronte del Sakarya si protrasse duramente, nel 1921. Ma il cedimento delle ali dello schieramento greco chiuse il nucleo centrale dell’esercito greco in una gigantesca sacca, mentre la cavalleria turca, che aveva sfondato, appunto, sulle ali, iniziava ad avanzare verso Smirne. I greci tentarono in tutti i modi di chiudere la strada di Smirne ai turchi per non rimanere isolati e ottenere rinforzi dalla Tracia, ma i rinforzi greci vennero fermati in Tracia dai turchi e la lotta si trasformò in una battaglia di annientamento dell’esercito greco. Mustafa Kemal marciò, quindi, su Smirne e la occupò.
La guerra era, di fatto, finita.
L’armistizio di Mudanya, nell’ottobre del 1922, riconobbe alla Turchia il possesso di tutta la regione di Smirne. Circa un milione e trecentomila greci dovettero evacuare la regione e trasferirsi in Grecia. Al loro posto giunsero dalla Grecia circa mezzo milione di turchi.
Gli inglesi sgomberarono la zona del Bosforo e i francesi la Cilicia. Gli italiani si ritirarono nell’arcipelago del Dodecanneso. Gli armeni, cacciati dai sovietici e dai turchi, fuggirono in Europa, disperdendosi per tutto il mondo. La penisola dell’Asia Minore rimase interamente ai turchi.
Chi si recasse, oggi, ad Ankara, non riconoscerebbe certo, il povero villaggio che fungeva, nel 1921, da quartiere generale militare di Mustafa Kemal, dove, tuttavia, trasferì la capitale, nel 1923. Voleva una capitale nuova e nazionale. Ottantasette anni fa, Ankara esisteva solo allo stato di cantiere edilizio che i diplomatici accreditati presso il Governo turco contemplavano tristemente, accampati – per mancanza di alloggi – nei vagoni letto fermi alla stazione cittadina. Come diplomatici dovevano risiedere nella capitale dello Stato presso il quale erano accreditati.
Oggi, Ankara appare a chi arriva una città modernissima, nel cui piano regolatore sono evidenti i segni di due tra i maggiori architetti del secolo scorso, il berlinese Hermann Jansen e il viennese Robert Oerley. Ankara rimane l’esempio più evidente della volontà di Mustafa Kemal di farla finita con il passato dei Sultani di Istanbul e di rivolgersi, invece, al moderno repubblicanesimo della giovane Ankara.
L’esperienza kemalista ebbe numerosi echi nel mondo musulmano. Esiste una abbondante letteratura sull’influenza che il kemalismo ha esercitato nel mondo musulmano.
Nel 1928, nel quadro di un lungo periplo nel Medio Oriente e in Europa, il Re afghano Amanullah Khan, in visita ad Ankara, poté osservare con i propri occhi le riforme che stavano trasformando il volto della giovane Repubblica turca. Il suo entusiasmo era senza riserve:
“Voi siete i fratelli maggiori degli afghani e dovete sempre considerarci come vostri fratelli minori.”
Quando Amanullah si recò in Turchia, il proprio paese era già impegnato da una decina di anni in riforme radicali, ma il pellegrinaggio di Ankara costituì, nondimeno, un tournant. Su esempio della Turchia, il Re si lanciò in imprese più radicali, quali l’abolizione del velo e della poligamia. Anche se Amanullah dovette poco dopo, lasciare il potere, la dinamica sembrò agli osservatori dell’epoca irreversibile.
“Non vi è dubbio… che le classi illuminate dell’Afghanistan abbiano sempre i loro occhi verso Ankara e aspirino con voluttà i raggi luminosi che arrivano loro da questa città, bagliore del mondo musulmano, nel senso spirituale del termine.”
leggiamo, nel 1937, dalla penna di uno dei turiferari eminenti del kemalismo.
Non vi è dubbio che le relazioni tra Mustafa Kemal e Reza Shah abbiano suscitato numerose analisi. Come Amanullah Khan, Reza Shah fece anche lui, nel 1934, il pellegrinaggio ad Ankara e fu, per alcune settimane, ospite del fondatore della Repubblica turca. Senza attendere la fine del viaggio, ingiunse per telegramma al suo Primo Ministro Mohammad Ali Foruqi, di accelerare le misure di occidentalizzazione. Come il Presidente turco, il sovrano iraniano iniziò con l’attaccare i simboli: il copricapo degli uomini, il chador femminile. Altre misure non tardarono a seguire: il divieto della poligamia, l’abolizione dei titoli nobiliari, la declerizzazione dello Stato. Il regime di Ankara costituì una fonte di ispirazione talmente evidente che lo Shah non esitò a fare appello a consiglieri turchi.
In Iraq, infine, il colpo di Stato che, nel 1936, doveva portare Hikmet Süleyman al potere, per poco tempo è vero, presentava delle connotazioni nettamente kemaliste.
Sorprendenti convergenze tra il modello e i diversi progetti di riforma si colgono in molti altri paesi. Dal Pakistan al Marocco, passando per l’Iraq, l’Egitto o l’Algeria, la lista è lunga dei leaders che hanno sentito, in qualche punto del loro percorso politico, di fare l’elogio del fondatore della Repubblica turca e della sua opera. Mohammad Ali Jinnah in Pakistan, Habib Bourguiba in Tunisia, Chadli ben Djedid in Algeria, e molti altri.
Se non vi è alcun dubbio che il modello kemalista abbia affascinato il mondo musulmano quanto l’Occidente, nondimeno, ha incontrato in terre arabe e musulmane numerose reazioni di rigetto. In Egitto come in Siria, in India come nel Maghreb, la laicità kemalista e molte riforme fondamentali del nuovo regime, in particolare tutto quello che riguardava l’emancipazione femminile, contarono numerosi detrattori. A eccezione di qualche spirito originale, il mondo arabo e musulmano non poteva che disapprovare le innovazioni nell’organizzazione della vita familiare e l’adozione di un codice civile che non doveva più nulla alla shari’a, come il modo insolente con il quale i kemalisti avevano barattato, nel 1928, la scrittura del Corano, l’arabo, contro i caratteri latini. Il rovesciamento del Sultanato e ancora di più l’abolizione del Califfato, nel 1924, rappresentavano,  similmente, agli occhi di una buona parte dell’opinione musulmana qualcosa di scandaloso. Decisa sulla stessa scia, la soppressione delle madrase, dei conventi e dei tribunali religiosi contribuì largamente a scavare il fossato tra la Turchia kemalista e il mondo dell’Islam.
Nondimeno, vi sono aspetti del kemalismo che i nazionalisti arabi, che siano del Mashreq o del Maghreb, non potevano meditare che con diletto. Mustafa Kemal e i suoi avevano saputo tenere testa alle potenze occidentali, erano riusciti a gettare le basi di una Nazione indipendente, sulle ceneri di un Impero che, da più di un secolo, negoziava con l’Europa le condizioni della sua capitolazione e del suo mantellamento,e avevano costruito uno Stato forte, rispettato, geloso delle sue prerogative e della sua sovranità.
La testimonianza di Messali Hadj, uno dei pionieri del nazionalismo algerino di fronte alla colonizzazione francese è, a tale riguardo, particolarmente eloquente:
 “Les premières prouesses militaires de Mustapha Kemal Pacha eurent sur le monde islamique une grande résonance, un profond réconfort et un immense encouragement. Pour mes amis et moi, c’était la joie et des réjouissances. Du coup, je réunissais mon groupe dans une chambre de sousofficier, nous prenions du café et nous dégustions des macarons aux amandes. J’avais aussi acheté des journaux. Dans cette presse, on pouvait avoir les dernières nouvelles et certaines déclarations de Mustapha Kemal. Dans les journaux illustrés, nous admirions les soldats turcs en tenue de campagne et les photos de Mustapha Kemal. Nous découpions avec un vif plaisir ces photos et nous les portions sur nous comme des talismans.” 
Il sontuoso mausoleo in onore di Kemal Mustafa, ad Ankara, è grandioso come il ricordo che di lui rimane nell’anima dei turchi. È come se non fosse morto. Il suo ritratto si trova in ogni casa, in ogni ufficio. È come se dall’alto di questo mausoleo, dirigesse lo slancio nazionale turco dopo le battaglie, ormai lontane, del fiume Sakarya.
3. Topkapi: la gabbia d’oro dei sultani
“Un voyageur est une espèce d'historien; son devoir est de raconter fidèlement ce qu'il a vu ou ce qu'il a entendu dire; il ne doit rien inventer, mais aussi il ne doit rien omettre.”
François-René de Chateaubriand
Gli assedi, le guerre, il sangue che era corso ai tempi della dominazione bizantina, appartenevano alla storia. Capitale di un immenso Impero i cui confini andavano dal Danubio alle rive africane dell’Atlantico, e dalle coste del Nord Africa all’Oceano Indiano, Costantinopoli conobbe, finalmente, la pace, e, pochi anni dopo la conquista ottomana, ebbe anche un nuovo palazzo reale. Fu Maometto II che ne decise la costruzione, su un promontorio che si apre sul Bosforo, il Mar di Marmara e il Corno d’Oro. Secondo il progetto originale, la residenza del Sultano avrebbe dovuto essere una cittadella fortificata, con un doppio muro di cinta e sette torri a difenderla e, al suo interno i padiglioni per ospitare Maometto II e la sua corte. I lavori ebbero inizio, nel 1462, e proseguirono per lunghi anni. Il Nuovo Serraglio divenne, fin dai primi tempi, la residenza ufficiale del Sultano, e alla morte di Maometto II, avvenuta nel 1481, continuò a esserlo anche per i suoi successori. Ma molti dei sovrani turchi che salirono sul trono ottomano continuarono a far costruire, all’interno della doppia cinta di mura, edifici e padiglioni, secondo il proprio gusto. Il palazzo divenne, in tal modo, un vero e proprio agglomerato di costruzioni, diverse l’una dall’altra nello stile e nelle funzioni. Ebbe anche un nuovo nome Topkapi Sarayi o Palazzo della Porta del Cannone. La denominazione, che è giunta fino ai nostri giorni, deriva  da una delle porte, fiancheggiata da cannoni e facente parte di un edificio aggiunto nel secolo XVIII e scomparso poco dopo, proprio negli stessi anni in cui un incendio distrusse parzialmente la costruzione che sovrastava la Porta Imperiale, il cui grande arco di marmo costituisce ancora oggi l’entrata principale dell’antico palazzo reale, che tra parchi e chiostri si articola su quattro cortili.
Oltrepassata la Porta Imperiale si entra, dunque, nel primo cortile, la parte più esterna del Topkapi Sarayi, che non appartiene agli appartamenti reali, ma ne costituisce una specie di anticamera. Qui sorge l’antica Zecca, davanti a un largo spiazzo un tempo ombreggiato di platani e conosciuto come Cortile dei Giannizzeri, perché questo celebre corpo di fanteria vi si accampava e riceveva il soldo trimestrale. I giannizzeri – dal turco yeniçeri, nuove truppe – erano cristiani, fatti schiavi dall’infanzia e allevati secondo le regole dell’Islam, poi, addestrati all’uso delle armi bianche e dell’arco, e al culto del coraggio. Sul capo portavano un berretto bianco di feltro, ornato di argento e con una striscia di tessuto che dalla nuca scendeva oltre le spalle. Armati di scimitarre, questi soldati avevano fama di combattenti temerari in guerra, ma di truppa riottosa e turbolenta in tempo di pace. Spesso, al momento di prendere i pasti, nel cortile che porta il loro nome, i giannizzeri rumoreggiavano e rovesciavano a terra il cibo e i bricchi delle bevande, manifestazione preoccupante che, a volte, culminava in vere e proprie rivolte, concluse con l’uccisione del Sultano regnante e con l’imposizione sul trono di un sovrano più gradito ai soldati. Dal primo cortile inizia anche il parco Gülhane, che si stende lungo tutte le mura, e che circonda il Chiosco delle Ceramiche, ÇiniliKösk, un padiglione estivo eretto da Maometto II, tutto tappezzato di maioliche verdi e azzurre. L’ingresso ai quartieri della corte avviene attraverso Orta Kapi o Porta Mediana, eretta nel 1524, per volere di Solimano il Magnifico, superata la quale soltanto i Sultani avevano il diritto di proseguire a cavallo. La porta è fiancheggiata da due torri ottagonali, entro cui venivano imprigionati i cortigiani caduti in disgrazia. Anche le esecuzioni capitali di questi infelici avvenivano qui accanto. Le teste dei condannati erano spiccate dal busto sulla Pietra dell’Ammonimento e, a esecuzione terminata, il boia era solito lavare il sangue che macchiava la lama della sua arma nella vicina Fontana del Boia. Chiunque entrasse nel Topkapi era costretto a passare accanto alla pietra e alla fontana, perché gli fosse di monito quale terribile sorte toccasse a chi fosse inviso al Sultano.
Nel secondo cortile una costruzione dall’alto tetto a cupola domina gli altri edifici. È il Divanhane, dove si svolgevano le riunioni del Divano, il Consiglio di Stato presieduto dal Gran Visir, il Primo Ministro ottomano. Il Sultano non prendeva parte diretta alle riunioni del Divano, ma, vi poteva assistere rimanendo dietro una grata, che si affacciava sulla grande sala e che era nascosta da una tenda. E nessuno sapeva che assistesse al dibattito se non quando, decidendo di intervenire, il Signore della Sublime Porta scostava la tenda per esprimere la sua opinione, più spesso i suoi ordini. Presso il fabbricato del Divanhane vi era anche la residenza del Gran Visir e di fronte a questa, sull’opposto lato del cortile, le gigantesche cucine del sarayi, sormontate da camini simili nell’aspetto a piccole ciminiere. Sui fuohi di legna, tra il riverbero delle fiamme, si cuocevano i cibi necessari alle centinaia di persone, che facevano parte dei ranghi inferiori della corte. Ma nei giorni di festa, durante i sontuosi ricevimenti offerti dai sultani, le cucine fornivano il cibo necessario a un numero eccezionale di invitati, che, a volte, potevano essere dieci o quindicimila, mentre altri, meno numerosi, venivano serviti dalle cucine private del Sultano, durante il banchetto d’onore. 
Dal secondo cortile, passando la Porta della Felicità, si raggiunge il terzo. Qui, accanto alla porta, è la pietra in cui veniva infitto lo stendardo del Profeta, ogni volta che era dichiarata una guerra santa contro gli infedeli cristiani. La Porta della Felicità è nota anche come Porta degli Eunuchi Bianchi, dal colore delle uniformi del corpo di guardia che controllava chiunque volesse accedere al cortile, riservato agli edifici privati del Sultano con l’eccezione della Sala delle Udienze o del Trono. Questa, che i turchi chiamavano Arz Odasi, fu costruita durante il regno di Ahmed II, nel XVII secolo, per servire la sala di rappresentanza quando si trattava di ammettere alla presenza del Sultano i rappresentanti diplomatici dei paesi stranieri. La Sala del Trono ospitava cerimonie fastose, che prevedevano una complicata etichetta osservata rigidamente per non infrangere mai le regole stabilite dalla corte ottomana. Accompagnati dal loro seguito, dopo aver incontrato il Gran Visir nella sala del Divano e aver scambiato con lui notizie sulla rispettiva salute, gli ambasciatori venivano profumati di incensi e acqua di rose, poi, dovevano indossare gli abiti da cerimonia, di lana di cammello bianco o di angora per le persone del seguito, di zibellino e oro o anche di broccati di argento e oro per gli ambasciatori.  Il numero degli abiti aumentava a seconda dell’importanza che era attribuita dal Sultano al paese di provenienza dell’ospite. Vi fu un tempo, proprio nel XVII secolo, che all’ambasciatore francese sarebbe toccato indossare ventiquattro vesti sovrapposte, se non fosse riuscito a evitare quella tortura con una cocciuta resistenza. Terminata la vestizione gli ospiti venivano accompagnati nella Sala del Trono, dove aveva inizio la cerimonia della presentazione ufficiale, mentre gli uomini di grado più alto della corte (il Kislar Agha o capo degli Eunuchi Neri, il capo del guardaroba, il portatore di spade del Sultano, il capo dei quartieri privati ecc.) li attendevano schierati con le braccia incrociate, fermi come statue. La lunga processione dei diplomatici era aperta, all’entrata nella sala, dal capo dei giannizzeri, poi, seguivano i giudici militari, i ministri e il capo della flotta turca. Toccava poi all’ambasciatore, che in segno di onore e di protezione era accolto con le armi sguainate dalle guardie accanto alla porta di ingresso. Dopo essersi inchinato tre volte, in tre diversi punti della sala, l’ambasciatore doveva baciare l’orlo della veste del Sultano e, poi, retrocedere fino alla parete di fondo. Poi, consegnava le sue credenziali al capo delle guardie, che le passava al capo della flotta, che le passava al Gran Visir, che le deponeva alla sinistra del trono su cui sedeva il Sultano. A questo punto faceva il suo ingresso nella sala un’altra parte della corte ottomana e ciascuno dei nuovi arrivati, a seconda del grado che ricopriva, aveva il proprio posto stabilito, lungo le pareti. Finalmente, a nome del Sultano, il Gran Visir dava il benvenuto all’ospite straniero, che avanzava accompagnato dal suo seguito e baciava ancora una volta la veste del Sultano. Infine, sempre il Gran Visir accordava a tutti il permesso di ritirarsi e tutti uscivano, rinculando fuori della sala, essendo inammissibile che si potesse volgere le spalle al sovrano. A queste formalità, negli anni, furono sottoposti decine e decine di ambasciatori europei e asiatici, tutti i rappresentanti dei paesi che avevano rapporti politici e commerciali con l’Impero Ottomano. La cerimonia, salvo minime varianti, era sempre la stessa. Sempre nel terzo cortile, dietro la Sala del Trono, vi è la biblioteca di Ahmed III, che raccoglieva manoscritti arabi e greci di inestimabile valore. A fianco, un portico di sette colonne immette nella residenza dei Seferli, un gruppo di paggi, scelti per la loro bellezza tra i ragazzi cristiani fatti schiavi e che contendevano alle concubine i favori del Sultano. Al lato opposto del cortile, dietro la piccola moschea di Agalar, vi è l’harem, gli appartamenti delle concubine, preceduti dai quartieri degli Eunuchi Neri, che montavano la guardia. L’harem non è stato costruito secondo geometria, è un insieme sorprendente di sale, corridoi, terrazze, stanze, che formano numerosi piccoli appartamenti, raggruppati intorno alle grandi camere, costruite per i sultani Solimano il Magnifico e Murad III. Splendidi tappeti, tappezzerie di seta, maioliche e legni preziosi rivestono le stanze dei grandi sovrani turchi, che regnarono nel XVI secolo. Ai quartieri privati dei sultani, che rimangono, infatti, a documentare il lusso in cui vissero i discendenti di Maometto, attraversando i  corridoi indicati come via aurea, la favorita della notte, scelta dal sovrano tra decine di concubine, raggiungeva gli appartamenti del quarto e ultimo cortile, su cui si affacciano piccoli ed eleganti padiglioni estivi, moschee, fontane, chiostri, sparsi a diversi livelli in un grande giardino fiorito. Qui, dove ancora si stende il parco Gülhane, il Sünnet Odasi (padiglione in cui venivano circoncisi i giovanissimi figli del Sultano e di alcuni altissimi dignitari) sta di fronte al Bagdad Köskü, il Chiosco di Baghdad, rivestito di maiolica di Iznik e edificato per celebrare la vittoria sui persiani di Murad IV, che, nel 1638, aveva conquistato la capitale nemica dopo una aspra battaglia. Tra i due padiglioni, pavimentata di marmi policromi, una terrazza si affaccia sulla città e sul mare, offrendo una splendida panoramica di Istanbul e del Corno d’Oro, che si stendono al di sotto. Accanto vi è un edificio a due piani, chiuso entro duplici mura di cinta e noto come Gabbia d’Oro perché vi furono confinati i consanguinei maschi dei sultani. La Gabbia (Kafes)rappresentò un tentativo di portare la pace all’interno della famiglia reale, agli inizi del XVII secolo. Prima, ogni Sultano che saliva al trono faceva strangolare con un laccio di seta tutti i possibili rivali uomini o bambini che fossero, purché suoi consanguinei e, quindi, in grado di avanzare pretese più o meno legittime alla successione. E se il confino nella Gabbia servì a impedire il rinnovarsi periodico di bagni di sangue che facevano stragi di innocenti, tolse anche ai probabili eredi ogni possibilità di prepararsi in modo adeguato alla successione, privandoli di ogni contatto che non fosse quello dell’ambito strettamente familiare. L’insieme delle costruzioni che costituiscono il Topkapi Sarayi, distribuite irregolarmente tra gli alberi e i fiori dei molti giardini, perse la sua funzione di abitazione dei Sultani ottomani già nel XIX, quando la dinastia dei discendenti di Maometto era salda e stabile sul trono. Nella prima metà del XIX secolo Mahmud II già dichiarava di provare ostilità per il Sarayi. Troppi suoi familiari vi erano stati uccisi nelle faide della successione. L’omicidio di Selim III, suo cugino e predecessore, lo aveva profondamente turbato. Mahmud fece costruire nuovi edifici in un’altra zona di Costantinopoli, trasferendovisi e onorando il Topkapi della sua presenza soltanto in rare occasioni. L’antico Palazzo della Porta del Cannone si trasformò allora in Palazzo delle Lacrime, dove erano tenuti segregati le mogli, le concubine, gli schiavi che erano venuti in uggia al Sultano e non avevano più il permesso di presentarsi alla sua corte. Nel 1853, infine il Sultano Abdul Megid fece costruire, nella zona più nuova di Costantinopoli, un altro palazzo reale, quello di Dolmabahce, che imitava quelli dei sovrani europei e che divenne la residenza ufficiale dell’Imperatore turco. Per il Topkapi seguirono, invece, anni di oblio, caratterizzati da distruzioni frequenti, perché numerosi edifici rimasero danneggiati o andarono perduti in modo casuale, per incendi, terremoti, trascurateza. Con la caduta della dinastia ottomana e l’avvento della Repubblica, Mustafa Kemal, il padre della moderna Turchia, trasformò definitivamente l’antica residenza dei Califfi dell’Islam in museo. Era il 1924. Nell’intricato labirinto dell’antico palazzo reale, cimeli e tesori secolari sono tornati alla luce, anche se non tutto il Topkapi è aperto ai visitatori. Nelle costruzioni che, un tempo, ospitavano le cucine, affacciate sul Cortile dei Giannizzeri, ora vi è il Museo delle Ceramiche: centinaia, migliaia di servizi preziosi, in porcellana o in cristallo, dono ai Sultani delle delegazioni straniere o di fedeli vassalli della Sublime Porta. Nel terzo cortile, la biblioteca di Ahmed III, in marmo bianco, cui abbiamo accennato per i preziosi manoscritti che conserva e che è stata arricchita da numerose altre contribuzioni. Gli antichi appartamenti di Maometto II e di Solimano il Magnifico sono adibiti all’esposizione del Tesoro Privato o Imperiale. E sono tutti quegli oggetti preziosi, monete comprese, che facevano parte della dotazione personale dei Sultani. Armature cesellate, specchi dalla cornice d’oro massiccio, candelabri e cofani di grande pregio, insieme al trono di ebano che, nel XVII secolo, Murad IV si portò dietro nella vittoria campagna di Persia. E, poi, coppe, caraffe, bricchi, vasellame in oro e in argento, ornati di brillanti e smeraldi, incrostati di pietre e gemme rare, opere di artisti e orafi persiani e turchi che vissero dal XVI al XIX secolo. Nella quarta sala che espone il Tesoro Imperiale, una vetrina racchiude il diamante Kasikci, di 86 carati, incastonato insieme ad altre quarantanove gemme e su due file di brillanti in un unico gioiello. In altre vetrine gruppi di smeraldi, grezzi e lavorati, divisi in gruppi a seconda del peso, da 3.260 a 1.310 e a 590 grammi. In questa stessa sala, insieme a sciabole dalla lama di purissimo acciaio e dalla guaina finemente decorata è esposto il pugnale Topkapi, che negli Anni Sessanta fu al centro di un omonimo spettacolare film d’azione. Ha la guaina in oro, l’impugnatura è arricchita da tre smeraldi il cui diametro è superiore a quello di una nostra moneta da due euro. Ma gli oggetti preziosi, le memorie degli antichi tempi, in cui l’Impero Ottomano governava su tutto il Medio Oriente e su buona parte d’Europa, le vesti, i troni, le armi dei Sultani sono disseminati per tutti gli edifici degli appartamenti imperiali.
Nel quarto cortile, nel padiglione che entro le sue mura di pietra e di mattoni conservava il tesoro di Stato, vi è ora una esposizione di armi e armature, suddivise in tre grandi gruppi. Nel primo sono comprese armi di fabbricazione turca che vanno dal XV al XIX secolo e armi di fabbricazione straniera, trofei di guerra o dono ai Sultani da paesi lontani. Notevoli sono qui alcuni giganteschi fucili, il calcio ricco di incrostazioni in corallo e in turchesi, che trovavano impiego negli assalti alle fortezze nemiche, sparando da grande distanza con le loro lunghe canne. Le armi bianche costituiscono il nucleo principale del secondo gruppo. Sono spade, sciabole, scimitarre, pugnali appartenuti ai Califfi Omayyadi, Sultani, Mamelucchi d’Egitto, esposti insieme a elmi, caschi, pettorali, scudi, armature. Nel terzo gruppo, infine, sono raccolte armi da guerra e da getto che vanno sempre dal XV al XIX secolo, decine e decine di armi di tutti i tipi, tra cui l’arco fabbricato dal Sultano Bayezid II, che regnò, dal 1481 al 1512, sull’Islam e godeva fama di eccellente costruttore di armi.  
Accanto ai musei profani, il Topkapi ha anche un museo sacro, il padiglione Hirka-l Saadet Dairesi o Appartamento del Mantello Benedetto. L’edificio, che posa su arcate sormontate da quattro cupole, prende il nome del mantello appartenuto al Profeta Maometto, da secoli oggetto di culto per i fedeli islamici. Il manto, in lana nera, dalle grandi larghe maniche, è conservato in un cofano prezioso fatto costruire dal Sultano Murad III. Non è l’unica reliquia oggetto di venerazione: del Profeta sono esposti altri oggetti, a esempio, un flacone che servì per le abluzioni funerarie di Maometto, un pelo della sua barba, le sue sciabole di battaglia, una lettera autografa.
Oggi che Istanbul non rappresenta più la capitale della Turchia, perché, nel 1923, Mustafa Kemal trasferì ad Ankara la sede del Governo, il Topkapi Sarayi costituisce una delle più importanti mete turistiche della città, che è ancora un grande centro marittimo e commerciale perché da sempre è il punto di passaggio obbligato, via mare, tra l’Oriente e l’Occidente. Ma se gli appartamenti dei Sultani ottomani, con le vestigia di un glorioso passato, conservano ancora un’atmosfera misteriosa, da Mille e una notte, non hanno, invece, nulla della pompa opprimente che caratterizza altre celebri dimore di sovrani.
Come ha scritto Alphonse de Lamartine, il poeta francese che visitò il Sarayi nell’Ottocento:
“La principale caratteristica di questa mirabile dimora non è rappresentata dalla grandezza, né dalla magnificenza, ma dalle sue grate di legno dorato, traforate come ricami.
Le caratteristiche di questo palazzo sono simili a quelle del popolo turco: l’intelligenza e l’amore per la natura. Questo popolo ha messo il palazzo dei suoi Signori, la capitale dei suoi Imperatori, sul pendio della più bella collina che vi fosse nell’immenso territorio che dominavano, forse, il luogo più bello del mondo intero.”   
È passato più di un secolo e mezzo da quando Lamartine scrisse del Topkapi e, da allora, i turchi hanno vissuto mille avventure, l’Impero Ottomano è caduto, vi sono state guerre, rivoluzioni, un faticoso recupero da uno Stato semimedioevale a quello contemporaneo.
"Si vous ne lisez pas les journaux, vous n'êtes pas informés; si vous lisez les journaux, vous êtes mal informés" Mark Twain
"Si vous ne lisez pas les journaux, vous n'êtes pas informés; si vous lisez les journaux, vous êtes mal informés" Mark Twain
"Si vous ne lisez pas les journaux, vous n'êtes pas informés; si vous lisez les journaux, vous êtes mal informés" Mark Twain
Daniela Zini
Copyright © 26 settembre 2010 ADZ
Note:
(1) Istanbul divenne il nome ufficiale  solo nel 1930.
(2) Bozdogan Kemeri,  (Acquedotto del falco grigio)


Domenica 26 Settembre,2010 Ore: 17:12
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Poesia

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info