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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org LA SERENISSIMA,di Daniela Zini

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
LA SERENISSIMA

di Daniela Zini

“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.” 
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.
 
“Conserve ces quelques lettres où je réussis parfois à mettre un peu de mon âme…”
Isabelle Eberhardt
  1. L’oriente dopo l’amore: sulle tracce di Marco Polo
“Je ne suis qu’une originale, une rêveuse qui veut vivre loin du monde, vivre de la vie libre et nomade, pour essayer ensuite de dire ce qu’elle a vu et peut-être communiquer à quelques-uns le frisson mélancolique et charmé qu’elle ressent en face des splendeurs tristes du Sahara.”
Isabelle Eberhardt
Avevo avuto una di quelle crisi che lasciano l’animo abbattuto, come ripiegato su se stesso, a lungo incapace di percepire le impressioni gradevoli, sensibile solo al dolore.
Appena salita sul treno per Venezia, provai una strana sensazione di quiete improvvisa.
L’animo era calmo e aperto a tutte le gradevoli sensazioni dell’arrivo in un nuovo paese. 
Andavo laggiù senza conoscere nessuno, senza scopo e senza fretta e, soprattutto, senza un itinerario stabilito per fuggire le macerie di un lungo passato di tre anni.
E, stranamente, da ciò che ho constatato, oggi, e da ciò che mi ha procurato una sconfinata tristezza, nasce un sentimento assolutamente nuovo per…
L’amicizia è divenuta più forte.
Non rimpiango e non desidero più niente…
Aspetto.
E l’eterna, la misteriosa, l’angosciosa domanda, ritorna ancora: dove sarò, su quale terra e sotto quale cielo, a questa ora, tra un anno?
Dove?
Mesi e mesi di peregrinazioni, compiute in condizioni insolite attraverso regioni in gran parte inesplorate, servendomi del Milione come guida,  non si possono raccontare in poche pagine. Un autentico diario di viaggio richiederebbe interi volumi. Contrariamente a Marco Polo, io non ho navigato su galere, attraversato deserti o superato il Pamir a piedi, sofferto la fame o la sete.
Non è nella natura umana vivere soli, di ricordi…
Ho vissuto con la matita in mano, annotando quel che vedevo, pensavo e provavo, instancabilmente, certo con una predisposizione innata, ma con un’abilità conquistata grazie alla mia ostinazione e al mio rigore etico e letterario, al mio amore per la scrittura.
Ho intrecciato lo scrivere alla vita, facendone un punto fermo, a giustificazione di quest’ultima.
Continuerò a scrivere senza posa, con un amore che aumenta ogni giorno, perché proprio di amore si tratta: apprenderò a conoscere e a raccontare la terra asiatica, gli uomini, il deserto che ho sognato fin dalla mia infanzia a Roma.
Nomade ero, quando da piccola sognavo guardando le strade, nomade resterò, per sempre innamorata di mutevoli orizzonti, di paesaggi ancora inesplorati…
Ogni sofferenza mi tocca profondamente, soffro… a veder soffrire.
La mia mente si forma, la mia coscienza si modella, la mia sensibilità si acuisce insieme all’amore per la libertà, che mio padre mi ha insegnato, e al rifiuto di ogni tipo di autorità.
Che sollievo quasi voluttuoso, quando il sole si abbassa, quando le ombre delle palme e dei muri si allungano e avanzano, spegnendo sulla terra gli ultimi bagliori!
La cupa indifferenza che si impadronisce di me, nelle ore di malessere, si dissolve e, di nuovo, con occhio avido e affascinato, guardo il quotidiano splendore di uno scenario ormai familiare.
La bellezza spoglia di questa terra dalle linee sobrie si adorna di colori, al tempo stesso, caldi e limpidi, vibrazioni gloriose salgono dal suolo sterile e abbelliscono la monotonia dei primi piani, mentre vapori trasparenti sfumano l’orizzonte. Tutte le creature accasciate si rialzano allora più grandi e più belle: ogni sera è una dolce e consolante rinascita dell’anima. Nei giardini, l’ultima ora calda del giorno trascorre dolcemente per me in contemplazioni tranquille, in pigri colloqui, interrotti da lunghi silenzi. Essere sani di corpo, purificati da ogni lordura, con grandi bagni di acqua fresca, essere semplici e credere, non avere mai dubitato, non avere mai lottato con se stessi, aspettare senza timore e senza impazienza l’ora inevitabile dell’eternità.
È questa la pace, la felicità musulmana e, chissà, forse, è questa la saggezza…
Qui le ore scorrono monotone, con la dolcezza e la calma di un fiume in pianura, dove niente si riflette se non nuvole di colori che passano oggi e torneranno domani, sempre sorprendenti. A poco a poco, ho sentito dentro di me svanire rimpianti e desideri. Ho lasciato che la mente vagasse e la volontà si assopisse. Pericoloso e delizioso torpore, che porta insensibilmente, ma sicuramente, alle soglie del nulla.
Questi giorni, queste settimane, questi mesi, in cui non è successo nulla, in cui non ho fatto nulla, in cui non ho neppure tentato di fare uno sforzo, in cui non ho sofferto e ho pensato poco, bisogna cancellarli dall’esistenza e deplorarne il vuoto?
Dopo l’inevitabile risveglio, non dovrò, invece, rimpiangerli, come i migliori, forse, di tutta la mia vita?
Non lo so più.
Io, che di recente ancora sognavo di viaggi sempre più lontani, che avevo la smania di agire, sono giunta al punto di desiderare, senza confessarmelo francamente, che l’ebbrezza dell’ora e la sonnolenza presente, possano durare, se non sempre, almeno per molto tempo ancora. Eppure so che la febbre di viaggiare mi riassalirà, che me ne andrò; sì, so di essere ancora molto lontana dalla saggezza  degli anacoreti musulmani. Ma non è la voce della saggezza che parla in me, che mi rende inquieta e domani mi spingerà ancora sulle strade della vita; è la mia irrequietezza, che trova la terra stretta e non ha saputo trovare in se stessa il proprio universo.
Ciò che tanti sognatori hanno cercato, l’hanno trovato nelle anime semplici.
Al di là della scienza e del progresso dei secoli, sotto il sipario sollevato dell’avvenire, vedo passare l’uomo futuro… e comprendo come si possa finire nella pace e nel silenzio, finire in estasi, senza rimpianti e senza desideri, davanti a splendidi orizzonti.
  
2. Marco Polo sulla Via della Seta
“Nous en savons moins sur les routes et le but d'une vie d'homme que sur ses migrations l'oiseau.”
Marguerite Yourcenar
Era l’anno 1298 quando Genova sconfiggeva la squadra navale della Repubblica Veneta nella battaglia navale di Curzola, facendo, tra l’altro, un numero elevato di prigionieri. Tra loro vi era un mercante, di nome Marco Emilio Polo, il quale, messo in carcere insieme con un letterato, Rustichello da Pisa, iniziò ben presto a strabiliare il suo compagno di pena con racconti che, a prima vista, sembravano incredibili. Il veneziano, infatti, con quel suo parlare cantalinante e fiorito, faceva rivivere tra le ristrette mura grigie della prigione, viaggi in paesi lontani, visite a signori dalla pelle gialla e dagli occhi a mandorla, avventure con uomini di cui, in occidente, non si era mai sentito parlare se non nelle fiabe… abitanti di terre che neppure i temerari mercanti veneti o genovesi avevano mai fino allora raggiunto. Affascinato dalle sue parole, Rustichello pensò di mettere per iscritto quanto il suo compagno di cella gli raccontava. Fu così che, tra le oscure mura di un carcere, vide la luce uno dei libri più straordinari di ogni tempo, uno dei più importanti libri di viaggio che siano mai stati scritti. Un’opera cui fu dato il titolo francese di Livre des merveilles du monde, mutato, successivamente, in Milione, dal secondo nome di colui che ne era l’effettivo autore: Marco Emilio Polo.
Le avventure del mercante veneziano, un poco alterate dalla fantasia, ma fondamentalmente esatte, da principio non furono credute; i suoi contemporanei non potevano neppure supporre o immaginare che, in paesi tanto lontani dall’Europa, potesse fiorire una civiltà così avanzata come quella descritta, appunto, da Marco Polo. Solo più tardi, quando il veneziano era, ormai, passato nel mondo dei più, si poté accertare che le sue avventure non erano affatto frutto solo di fantasia. Le aveva realmente vissute, nel lontanissimo oriente e solo, di quando in quando, – nei dettagli del racconto – la sua fantasia aveva avuto il sopravvento sulla meravigliosa realtà.
Ancora prima che la necessità spingesse i popoli d’occidente a cercare nuovi sbocchi commerciali verso est, lo spirito cristiano aveva già spinto coraggiosi missionari verso terre terribilmente lontane. L’esempio di Giovanni da Pian del Carpine era stato seguito, oltre che preceduto, da altri tentativi  di portare la parola di Cristo in Asia. Tanto che quando i due mercanti veneziani, i fratelli Niccolò e Matteo Polo, partiti per la prima volta da Venezia, nel 1261, diretti in estremo oriente, giunsero attraverso la Russia alla corte del Gran Khan Kublai, sovrano dei mongoli e dei cinesi, successore pacifico di Gengis Khan, incontrarono nel sovrano stesso una grande curiosità di approfondire meglio la religione cristiana, di cui aveva, già, sentito parlare da alcuni audaci esponenti arrivati, in precedenza, alla sua corte.
Da questo primo viaggio, i due fratelli erano tornati in patria con l’incarico, da parte di Kublai, di chiedere al Papa uomini saggi che potessero con la loro sapienza istruire il popolo mongolo sulla falsità degli idoli. Inoltre, dovevano, al loro ritorno in Cina, portare al Gran Khan l’olio della lampada che ardeva davanti al Santo Sepolcro di Gerusalemme.     
Dopo tre lunghi anni di viaggio, Niccolò e Matteo rimisero piede finalmente nella loro Venezia, nell’anno 1269, ma qui trovarono ad attenderli soltanto il figlio di Niccolò. Sicché, quando, nel 1271, Matteo e Niccolò, terminati i preparativi e sistemati gli affari, decisero di ripartire, il diciassettenne Marco si unì a loro.
Da quel giorno, per ventiquattro lunghissimi anni, nessun occidentale ebbe più notizie dei tre veneziani.
Il viaggio di andata durò tre anni e mezzo e si svolse lungo un itinerario nuovo per tutti e tre. Ebbe inizio in Terra Santa. Di là i Polo passarono nelle due Armenie e, poi, in Turcomannia (odierna Turchia) e in Georgia, terra già sottomessa al potere del Gran Khan, tanto che gli abitanti portavano marcata sulla spalla una grande aquila, come segno di riconoscimento e di soggezione al sovrano mongolo. Da quelle terre – racconta Marco nel suo libro – zampilla un olio meraviglioso che serve per alimentare il fuoco e come unguento medicinale. Raggiunsero, poi, il Mar Caspio, attraversando il reame di Mosul, famoso per le sue stoffe, e arrivarono nella favolosa Baghdad, governata dal califfo che – annota sempre Marco – aveva posseduto il più grande tesoro della terra in oro argento e gioielli fino a quando il fratello non glielo aveva tolto, con una cruenta guerra. Il viaggio dei veneziani proseguì attraverso la Persia, terra quanto mai ricca, grande e fertile, fino al golfo infuocato di Ormuz, sul Golfo Persico, circondato da favolosi giardini e azzurre piscine nelle cui acque gli abitanti cercavano ristoro alla terribile calura. Fu, poi, la volta del deserto. I Polo lo attraversarono in otto giorni, soffrendo fame e sete, fino a quando scorsero la città di Tonocan, ai confini della Persia. Una sosta doverosa per riposare e per rievocare lo scontro decisivo tra le armate di Dario e di Alessandro Magno, e, poi, via ancora per deserti infuocati e città splendide e di ori e di ricchezze e terre fertili come giardini e pascoli verdeggianti e colline ricche di sorgenti e di selvaggina mai vista. Kashmir, Pamir,deserto del Gobi, Samarcanda…
Esperienze contrastanti si avvicendavano nel giro di poche settimane, portando i tre mercanti da deserti infuocati a montagne coperte di ghiacci, da piccoli villaggi di pastori a favolose città di straordinaria bellezza.
Tre anni di esperienze al confine con il credibile, fino a quando all’orizzonte apparve Giandu, la residenza del Gran Khan. Kublai  in persona accolse i veneziani tributando loro onori di ogni genere. Marco fu presentato all’Imperatore che, subito, lo prese in simpatia, oltre che per la giovane età, per l’intelligenza e la capacità.
Passata la stagione estiva, i Polo si trasferirono con la corte imperiale a Pechino, nel meraviglioso palazzo del Gran Khan. E là, a contatto diretto con il cervello pulsante dell’impero, con l’organizzazione amministrativa, l’ordinamento finanziario postale, Marco Polo poté finalmente apprezzare a pieno il livello avanzato di civiltà cui era giunto quel popolo fino allora a lui sconosciuto.
L’impero era pressoché sterminato; eppure bastavano pochi giorni perché gli editti emanati dal sovrano fossero conosciuti da tutti i sudditi, anche quelli che risiedevano nelle regioni più sperdute e inaccessibili. I commerci erano fiorentissimi, all’interno e con l’estero; e la carta moneta, ancora sconosciuta in occidente, facilitava ogni cosa.
Kublai apprezzò le qualità eccezionali del giovane Marco e volle anche sfruttarle a vantaggio del suo popolo. Affidò al veneziano missioni delicate all’interno del paese, che furono sempre portate a compimento nel migliore dei modi, con piena soddisfazione reciproca.
Gli anni, intanto, scorrevano veloci…
Marco apprendeva sempre cose nuove, vedeva e annotava… dagli usi e costumi delle popolazioni con le quali veniva in contatto, agli esiti delle guerre, anche, in occidente, si conobbe il nome di un’isola favolosa e misteriosa, abitata da uomini guerrieri e intelligenti, tanto abili da riuscire, perfino, a sconfiggere i soldati del Gran Khan. Un’isola che Marco Polo chiama Zipangu e che noi, oggi, conosciamo con il nome di Giappone.
Ma la nostalgia di Venezia, delle sue case raccolte, dei suoi canali silenziosi rodeva ormai da tempo l’animo dei funzionari bianchi di Kublai. E, quando Marco seppe che una principessa di sangue reale doveva partire da Pechino per andare sposa dal re di Persia, chiese di poterla scortare fino alla sua nuova residenza. Partì con il padre e lo zio, questa volta via mare, perché bisognava fare presto e la bella principessa non doveva stancarsi troppo nel viaggio.
Lasciarono la Cina con quattordici navi e settecento uomini di equipaggio; costeggiarono l’Indonesia, Giava, Sumatra dove fecero sosta. Poi, raggiunsero Ceylon, il Malabar, Madagascar dove un mondo nuovo, meraviglioso, si aprì ai loro occhi. Passarono, quindi, alle coste orientali dell’Africa, toccando Zanzibar popolata da giganteschi uomini neri, da leoni, elefanti e altri animali sconosciuti. Risalirono la costa africana e raggiunsero l’altopiano arabo; a questo punto, del loro equipaggio non era rimasto in vita che un centinaio di uomini, tanto era stato duro e periglioso il cammino. Ma, ormai, Venezia era vicina: nulla al mondo avrebbe potuto fermare i tre Polo. Dopo aver consegnato la principessa al suo sposo, arrivarono a Costantinopoli, dove furono colpiti da una dura notizia: il Gran Khan Kublai, il loro grande amico, era morto!
Approdarono a Venezia, pochi mesi dopo.
Era l’anno 1295.
Dapprima i veneziani non riconobbero, nei tre uomini, agghindati con vesti dalle strane fogge, i Polo che, circa venti anni prima, avevano lasciato la loro casa per un viaggio in terre lontane. Ma, poi, si convinsero che erano veramente loro e iniziarono ad ascoltare estasiati la storia di quel viaggio in fantastiche regioni orientali, dove tre oscuri mercanti di Venezia avevano preparato il cammino alle future esplorazioni degli uomini dell’occidente.
3. Venezia una fortezza sull’acqua
“… quale Città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita: Città ricca d'oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura.”
Francesco Petrarca 
 “Se volete sapere come è stata costruita la città di Venezia, posso dirvi che il suo pavimento è il mare, il cielo il suo tetto, i canali le sue pareti.”,
così  Boncompagno da Signa, maestro di retorica del XIII secolo, rispondeva alle domande dei suoi allievi.
Vi è nella frase l’arguzia tipica del maestro toscano e insieme il sentimento di stupore di chi arriva a Venezia per via d’acqua e la vede come sospesa tra cielo e mare, solcata da innumerevoli canali.
Chi, oggi, visita Venezia e ammira lo splendore di piazza San Marco e dei palazzi sul Canal Grande non si rende conto di quale fosse l’ambiente naturale che i primi veneziani si trovarono di fronte quattordici secoli fa. Ma non gli sarà difficile farsene un’idea. Potrà andare alle foci dei fiumi che sboccano nella laguna o scendere al delta del Po, nel labirinto dei canali, tra i canneti ondeggianti che si stendono a perdita d’occhio, sulle strisce di terra livida, tormentata dall’alterna vicenda delle maree e delle piene del fiume.
Sulla pianura, piatta non si scorge presenza umana. Qualche barca nera di pece abbandonata tra i canneti dei canali, un branco di anatre pigre che va e viene. Più in là, la laguna immensa e torbida, percorsa da squame di terra bruciata dalla salsedine che sembrano andare alla deriva come relitti di un naufragio. Ma, se quattordici secoli fa l’atmosfera non doveva essere più allegra, più accogliente era il paesaggio. Certamente le terre emerse erano in numero superiore rispetto a oggi, tra acque e canneti si levavano macchie di bosco e pascoli e terre arative con mille canali incrociantisi; in fondo, sulla riva del mare, le ricche pinete che oggi sopravvivono in rari punti della costa adriatica.
Quindi, una regione più viva dell’attuale, ma selvaggia e in completa balia degli elementi. La crisi dell’impero romano e le invasioni dei barbari avevano provocato il completo abbandono delle opere idrauliche costruite nella laguna. Le acque si muovevano senza controllo, uragani violentissimi modificavano il paesaggio. Nel 589, una grande pioggia, durata più giorni, impaludò ampie distese di terra.
Nonostante lo sfacelo delle opere di regolazione idraulica dei romani, la vita non venne mai a mancare nella laguna. Vi era da tempo immemorabile, come testimoniano Strabone ed Erodoto. Nei primi secoli della nostra era, la laguna aveva una sua vita, seppure limitata. Le città del Veneto vi avevano i loro porti; e proprio la laguna era la più sicura e rapida via di comunicazione tra Ravenna e Aquileia: una specie di park-way attraverso le isole, con numerose stazioni di posta.
La descrizione che ne fa Cassiodoro, intorno al 537, è particolarmente suggestiva.
“Colà”,
scrive in una lettera ai Tribuni della Venezia marittima,
“sono le case vostre, quasi come acquatici uccelli, ora terrestri, ora insulari; e quando vedi mutato l’aspetto dei luoghi per le alte maree, subitamente somigliano alle isole Cicladi quelle abitazioni ampiamente sparse e non prodotte dalla natura, ma fondate dalla industria degli uomini… gli abitatori poi hanno abbondanza solo di pesci, poveri e ricchi convivono in eguaglianza, un solo cibo nutre tutti, abitazione pressoché uniforme accoglie tutti…”
Gli insediamenti dovevano essere complessivamente scarsi e raggruppati in punti riparati, ma di facile approdo, specialmente alle stazioni del traffico tra Ravenna e Grado. Il tenore di vita era estremamente basso; l’alimentazione basata sulla pesca e sulla caccia; l’economia fondata sul traffico locale e sullo sfruttamento delle saline. Un’immagine della vita di quelle antiche popolazioni si ha ancora oggi attorno a Pellestrina, Porto Secco, San Pietro in Volta. Gli abitanti si dedicano alla pesca lagunare, alle coltivazioni orticole o, in piccoli cantieri, accudiscono al naviglio lagunare. È un’esistenza faticosa e modestissima.
Le abitazioni non dovevano essere molto diverse dai cosiddetti “casoni” che si incontravano ancora nella campagna padovana e nei luoghi più depressi della laguna. Sono case molto embrionali, fatte di argilla e di strame, coperte di canne palustri, prive di camino e di finestre. Il nucleo abitato si raggruppava di solito intorno alla chiesa, formando una piccola comunità con opere di difesa, barche e beni in comune. Le capanne si disponevano in prossimità di un canale, in file parallele o ortogonali e unite tra loro da sentieri o da corti. È questo – come vedremo – il primo embrione urbano di Venezia.
Il grande esodo dalla terraferma alla laguna avviene con l’invasione longobarda. Presagi miracolosi lo accompagnano. Ad Altino – riferisce la Cronaca Altinate – gli abitanti si riuniscono terrorizzati intorno al loro vescovo e invocano con pianti e preghiere l’aiuto del cielo. Ed ecco i colombi spiccare il volo e lasciare il nido portando i loro piccoli tra il becco. È il segno di Dio a lasciare la città. Gli abitanti si dividono in tre gruppi: due si dirigono verso l’Istria  e verso Ravenna. Rimane il terzo, incerto del suo destino. Per tre giorni i superstiti digiunano e pregano; la sera del terzo giorno si ode una voce dal cielo:
“Salite alla torre e guardate gli astri.”
Salgono sulla torre e vedono nelle stelle disegnarsi i contorni delle isole e vedono sfilare nel cielo barche e navigli. Seguendo il segno celeste gli abitanti, preceduti dal vescovo e dal clero con i vasi sacri e le sacre reliquie, si rifugiano nelle isole della laguna. Anche senza attendere i segni del cielo, migliaia di abitanti lasciarono la campagna veneta e si trasferirono nella laguna. Sapevano già dai loro padri, fuggiti davanti agli unni e ai goti, che vi avrebbero trovato un rifugio sicuro.
L’emigrazione dell’epoca longobarda segna un mutamento radicale nella vita della laguna. È un mutamento non solo quantitativo, ma soprattutto qualitativo. L’emigrazione da temporanea e indifferenziata, quale era stata in passato, diventa stabile e organica. Se prima gli insediamenti avvenivano probabilmente in modo casuale ed erano costituiti da individui isolati che, per ragioni di sicurezza si raggruppavano in piccoli nuclei, ora sono intere comunità che si trasferiscono in blocco dalla terraferma portando con sé tradizioni, istituti, gerarchie civili e militari.
A questo tipo di insediamento qualificato e organizzato corrisponde una colonizzazione più razionale. Ogni palmo di terra viene conteso alla laguna, si elevano le barene, si scavano canali, si rettificano e approfondiscono quelli esistenti, si creano grandi opere di difesa. È un lavoro titanico, compiuto a forza di braccia con mezzi limitatissimi. Doveva essere gente non del tutto impreparata a questo tipo di costruzioni. La tecnica palafitticola era conosciuta nel Veneto fin dai tempi antichissimi. Altino e la stessa Ravenna poggiavano su palafitte. Ma mai, prima di allora, gli uomini avevano dovuto affrontare problemi di regolazione e di difesa idrauliche di tale dimensione e in condizioni così difficili.
Il legno non abbondava nella laguna e mancavano le pietre per dare consistenza agli argini. Questi erano costruiti con più ordini di pali profondamente confitti nella sabbia e rafforzati da graticci di canne fortemente stipate. Dietro si elevavano cumuli di terra. Già alla fine del secolo VI l’insediamento aveva raggiunto una notevole consistenza. L’Imperatore Longino, visitando la laguna nel 584, rimase meravigliato dell’operosità e del benessere degli abitanti e riconobbe che i veneziani si erano creati una patria sicura da ogni invasione nemica.
Ma la fisionomia di una vera e propria città, della Venezia che oggi conosciamo, inizia a delinearsi solo agli inizi del secolo IX, quando si decide il trasferimento di Malamocco a Rialto. È l’anno 809. Una grave minaccia si addensa sulle popolazioni della laguna. Pipino, re d’Italia, si accinge a conquistare con una grande armata questo ultimo lembo dell’impero bizantino.
I veneziani riempiono le chiese e implorano la misericordia di Dio; chiedono aiuti  a Costantinopoli; chiudono i canali con palafitte, pietre, vascelli affondati. Per confondere le idee agli invasori, tolgono i segni che indicano la profondità dei canali. Intanto Pipino si avvicina alla laguna, con una grande flotta; conquista Caorle, Eraclea e Jesolo; poi, con una manovra a tenaglia investe Cavarzere, Loreo, Brondolo, Chioggia e Pellestrina e giunge in vista di Malamocco.
Il Doge, Angelo Partecipazio, riunisce gli uomini a consiglio e propone di trasferire la sede del governo “nel luogo di Rivolto”. Rialto era allora un’isola poco abitata e di scarsa importanza. Ma, con le isole intorno, costituiva in quel tempo il luogo più sicuro della laguna. Accanto a Rialto vi era, coperta di macchie di bosco, Scopulo, che significa scoglio, e che doveva essere solida ed elevata. È l’attuale Dorsoduro. Uno spazio di terra paludoso era chiamato Canalecto o Canaledo – l’attuale Cannaregio – perché coperto di canneti. All’estrema punta era una delle isole più grandi, chiamata Olivolo, forse, perché ricca di olivi, l’attuale quartiere di Castello. Un largo canale, detto Vigano, divideva dalle altre l’isola di Spinalonga, divenuta, poi, Giudecca.
La scelta di Rialto come sede del governo fu determinata soprattutto da ragioni di sicurezza. Ci si rende conto di quanto fosse complessa la struttura lagunare intorno a Rialto e come fosse praticamente impossibile a una grossa flotta nemica orientarsi nel dedalo dei canali, delle paludi, dei boschi e dei canneti.
Il primo nucleo importante di abitanti a Rialto deve risalire al secolo VI, quando il generale bizantino Narsete, fosse per premiare la fedeltà dei realtini, fece erigere le chiese di San Teodoro e San Geminiano nel “brolo” del convento di San Zaccaria, vale a dire l’attuale piazza San Marco. Agli inizi del secolo IX le isole realtine ospitavano circa 10.000 abitanti e una dozzina di parrocchie. Ogni parrocchia costituiva un nucleo a sé. Le case si schieravano ai lati della chiesa e formavano una comunità autonoma e autosufficiente, con piazza, scali, sagrato e cimitero in comune. L’economia era di tipo familiare, comune nel Medioevo, basata sulla pesca e sull’agricoltura.
I nuovi insediamenti si sviluppano su due direttrici fondamentali: verso la riva di Rialto sul Canal Grande, vale a dire sul Rio dei Santi Apostoli (direttrice di Murano e Torcello)  e sul Rio di Palazzo della Guerra, della Fava e del Fontego  dei Tedeschi (direttrice del Lido e Malamocco).
I nuovi arrivati  rispettarono i nuclei già esistenti e vi si costituirono accanto, secondo lo stesso schema.
Di piccole comunità intorno alla chiesa. La crescita di Venezia nei primi secoli è, quindi, una giustapposizione di comunità autonome. L’espansione della città si può misurare dall’aumento del numero delle parrocchie che da sedici, nel secolo IX, salirono a cinquantanove, nell’XI.
Rialto diveniva la capitale di uno Stato che, seppure con legami più federali che unitari, si estendeva da Grado a Cavarzere, aveva domini sulla sponda dalmata e già si era affermato per le virtù militari e l’abilità commerciale. Si dovevano creare tutte le strutture della capitale, il palazzo del Doge e della sua corte, gli edifici per le magistrature, i funzionari, i comandi militari e, inoltre, arsenali, magazzini, cantieri.
Non sono rimasti documenti sulla fisionomia di Venezia tra il secolo IX e il X. Da quello che sappiamo, doveva avere l’aspetto di una città di pionieri e di soldati. Le esigenze della difesa furono predominanti. Piazza San Marco era protetta da una cinta di alte mura merlate. Era molto diversa da quella che conosciamo. Un ampio terreno sabbioso, diviso a metà da un corso d’acqua, il Rio Batario, la occupava interamente. Il “brolo”, così era chiamato il terreno, apparteneva al monastero di San Zaccaria.
Di fronte al monastero, dove ora sorge il Palazzo Ducale, vi era la residenza del Doge con accanto la Chiesa di San Marco, allora una semplice cappella aggiunta al palazzo. Più in là, la Chiesa di San Teodoro, fatta erigere da Narsete. Di quel primo palazzo ducale non ci è giunta traccia. Doveva essere in tutto simile ai castelli medievali con le mura merlate, le torri ai quattro angoli e intorno i fossati di difesa con i ponti levatoi. Il campanile di San Marco, come molti campanili allora, aveva la funzione di torre di vedetta. Un altro castello fortificato esisteva a Olivolo; un terzo doveva sorgere ai Santi Apostoli, punto di vitale importanza strategica per il convergere delle vie d’acqua lagunari da Murano e Torcello, dal Lido e dalla terraferma. Grosse catene sbarravano, in caso di necessità, il Rio Businiacus – l’attuale Canal Grande – e gli altri canali. Anche i nuclei abitati, raccolti intorno alle chiese, dovevano essere protetti da alte mura e da fortificazioni.
La crescita della città avvenne piuttosto tumultuosamente. Si cercò, se non di pianificarla, di “dirigerla”. Angelo Partecipazio creò fin dai primi anni dell’800 un vero e proprio ufficio urbanistico per regolare gli insediamenti e le lottizzazioni e per impedire la speculazione.
La libera iniziativa ebbe, come è naturale, un ruolo predominante. Erano – lo abbiamo visto – intere comunità con tradizioni e istituti propri che si organizzavano intorno alla chiesa del Santo Patrono. La novità della recente immigrazione è la presenza della casa gentilizia, la sede delle famiglie dei tribuni provenienti dalle altre isole della laguna. Il palazzo signorile diventa il “polo di sviluppo” della comunità: intorno a esso si addensano le case dei dipendenti e le attività artigiane. Si forma così la cellula del tessuto urbano di Venezia: un “campo” quadrangolare che ha da un lato la chiesa, da un altro il palazzo gentilizio con le abitazioni dei dipendenti, sul terzo lato le case degli artigiani e dei contadini, che si sviluppano su più linee o per calli e sul quarto lato, infine, l’approdo comune, le botteghe artigiane, gli “squeri”, vale a dire i ricoveri delle barche.
Il campo – erede della corte gentilizia – è la ribalta dove agisce la comunità; è insieme sagrato, mercato, approdo comune, sede delle feste e dei giochi. Nasce così la civiltà del campo o del “campielo”.
Nel secolo X gli abitanti erano circa 40.000. possiamo immaginarceli: migliaia di uomini e donne, intenti a trasportare a spalla tonnellate di sabbia, ad aprire e chiudere canali, a strappare ogni lembo di terra alla laguna. Le case erano quasi tutte di legno, coperte di tavole e di paglia. Lo stesso palazzo ducale aveva il tetto di canne palustri. I fondamenti si facevano su pali o su zatteroni di salice.  
Ben presto, però, anche per ragioni di sicurezza, gli edifici principali furono costruiti in muratura. Ebbe inizio una forma di edilizia “di rapina” di cui si trovano ancora le tracce. Le pietre venivano strappate alle città morte del continente. A farne le spese fu specialmente Altino. Il problema delle costruzioni fu, poi, risolto con l’impostazione della pietra d’Istria, e specie con la presa di Tiro, nel 1124, che diede a Venezia il predominio commerciale sui mari di Oriente.
Agli inizi del 1100, Venezia ha avuto uno sviluppo prodigioso. La sua configurazione planimetrica è molto simile a quella odierna. Restano da bonificare la parte orientale della Giudecca e ampie zone acquitrinose a Castello, a Cannaregio e Sant’Alvise. Dall’alto, la città si rivela un miscuglio di povertà e di raffinatezza, di lusso cittadino e di modestia campagnola.
Il cuore della città è piazza San Marco, ancora cinta da mura merlate, ancora parzialmente coltivata a ortaggi, ancora divisa in due dal Rio Batario. Ma il palazzo  del Doge  ha perduto la severità del castello medioevale, la Chiesa di San Marco si è ampliata, a spese di quella di San Teodoro, demolita nel 1070, e si fa ogni giorno più bella. Per ordine del Doge Domenico Selvo, tutte le navi provenienti dall’oriente devono contribuire allo splendore della chiesa, portando pietre, colonne, capitelli, bassorilievi, sottratti alle chiese in rovina o ai templi pagani.
Ma il centro della vita commerciale era già Rialto, dove confluivano navi e mercanti da ogni parte del mondo. Un’intensa vita commerciale ferveva tra le botteghe e i fondaci. Il governo si preoccupò che Rialto  apparisse ai forestieri più accogliente possibile. Nel 1097, fu deciso di migliorare edifici e attrezzature. La città si arricchiva, intanto, di splendidi palazzi sotto l’influenza dell’architettura bizantina. Ma le abitazioni private erano ancora in grande maggioranza di legno. Spaventosi incendi distruggevano interi quartieri, nonostante le misure di sicurezza. Molti campanili, come quello di San Marcuola, ospitavano “le guardie del fogo” , che dovevano segnalare ogni inizio di incendio. Le case più importanti si allineavano lungo i canali. La comodità più ricercata era di avere “la porta sul canal”, per ragioni di sicurezza e per facilitare le operazioni di carico e scarico delle merci. Le comunicazioni avvenivano esclusivamente per via d’acqua.
I canali di Venezia sono quasi tutti artificiali. Venivano scavati con il doppio scopo di ricavarne terra per elevare il suolo e per aprire vie di comunicazione tra le varie isole. Ebbero fin dall’inizio le caratteristiche di una rete viaria cittadina, con spazi appositi per gli incroci, i sorpassi, i parcheggi; con frequenti cavane, che sono le rimesse per le barche; con fondali diversi secondo il tipo di natante che doveva passarvi. I canali costituivano, quindi, il tessuto della vita sociale. Lo stesso passeggio si faceva sui canali a bordo di gondole o “peate”. La viabilità pedonale era ridotta agli spostamenti nell’ambito dei nuclei comunitari.
Mancavano i ponti per il semplice fatto che non vi erano strade sulle rive. Le prime fondamenta di legno si iniziarono a costruire nel secolo XII. I pochi ponti esistenti erano di legno, come se ne incontrano ancora, a esempio tra Mazzorbo e Burano, apribili nel mezzo per consentire il transito delle barche. Le strade pubbliche erano pochissime, forse, solo quelle che univano Rialto al Palazzo Ducale: le altre appartenevano a privati ed erano spesso interrotte da stanghe, nonostante i divieti. Ci vollero liti, processi e intimazioni perché venissero aperte al passaggio pubblico.
Più che strade, erano angusti sentieri pieni di fango e di rifiuti. Nei primi secoli non si dette alcuna cura alle vie cittadine, né vi dovette essere una benché minima regolazione del traffico. Vi passavano cavalli al gran galoppo con grande pericolo per i pedoni. I più indisciplinati erano i funzionari che si recavano in ufficio al suono di una campana, detta Trottera. Probabilmente erano sempre in ritardo, perché attraversavano le Mercerie a tutta velocità, minacciando di calpestare gli incauti pedoni. A passeggiare per Venezia si avevano continue sorprese. Si poteva passare da un bosco, a un campo arato, a un prato dove pascolavano i buoi.
Il pericolo maggiore era di cadere in acqua a ogni passo. Allora non vi erano solo la laguna e i canali, ma in molti punti della città si aprivano autentici laghi e piscine. I laghi erano prodotti dalle escavazioni fatte per elevare gli argini o per innalzare le fondamenta degli edifici. Le piscine erano, invece, tratti d’acqua più piccoli e venivano usate sia per conservarvi il pesce, sia per farvi il bagno. Uomini e donne non disdegnavano di bagnarsi insieme in quelle pozze d’acqua. Le piscine, come i laghi, furono interrati per eliminare la malaria e anche per costruirvi sopra. Numerose erano le saline, spesso lastricate di mattoni o di marmo.
Caratteristica peculiare dell’abitazione veneziana furono le altane, specie di ballatoi o poggioli di legno o di pietra. Le altane erano il luogo di raccolta della famiglia o della servitù nelle ore serali, e tra altana e altana si intrecciavano relazioni amorose o di amicizia, si scambiavano opinioni, si formava il carattere del veneziano. Erano il regno della “ciacola”, dell’allegria e della lepidezza.
Nel giro di tre secoli, dunque, la città era compiuta. Per valutare in pieno l’opera dei costruttori bisogna tener conto che la crescita avvenne mentre Venezia espandeva i suoi commerci e la sua influenza nel Mediterraneo orientale; rintuzzava le minacce degli slavi, degli ungari e dei normanni; teneva a bada le pretese degli imperatori di occidente e di oriente; si assicurava il dominio dei mari. E bisogna ricordare ancora le difficoltà naturali contro le quali dovettero combattere gli abitanti.
I contemporanei non celarono l’ammirazione per la tenacia, la forza di volontà, l’eroismo dei veneziani. Di Venezia, Papa Gregorio VII disse che “faceva rivivere in tutto il suo vigore il vero spirito dell’antica Roma”.
Se esaminiamo la struttura urbanistica della Venezia del secolo XII, ci appare come un tessuto di settantadue cellule – tante erano le parrocchie –, raccolto intorno al Palazzo Ducale e alla chiesa del patrono cittadino. Manca ancora a Venezia una rete viaria per i pedoni che unisca le settantadue cellule tra loro e che faccia della città un tutto unico. Questo avverrà nel Rinascimento.
La seconda metà del secolo XII segna una svolta storica nella struttura urbana di Venezia. È l’anno 1177. Federico Barbarossa, sconfitto a Legnano dalla Lega dei Comuni italiani, ha chiesto la mediazione di Venezia. Nella Chiesa di San Marco convengono i potenti della Cristianità; il Papa Alessandro II con i legati pontifici, l’Imperatore, gli ambasciatori del normanno Guglielmo II, i rettori delle città confederate, baroni, capitani, prelati, feudatari. Il Doge Sebastiano Ziani promuove la riconciliazione tra impero, papato e comuni. È la consacrazione della grandezza dell’indipendenza, del prestigio di Venezia, davanti a tutto il mondo.
All’ingresso ufficiale della Repubblica tra le grandi potenze medioevali, corrisponde un mutamento nel volto di Venezia. Da città “chiusa” nelle alte mura merlate e nelle fortificazioni, si trasforma in città “aperta”, come le consente la protezione della potentissima flotta e come esige la sua vocazione mercantile. Sebastiano Ziani fa abbattere le mura che circondano piazza San Marco, acquista il “brolo” del convento di San Zaccaria, interra il Rio Batario, ricostruisce più bello il Palazzo Ducale, fa innalzare un grandioso edificio con logge a guisa di gallerie di stile romanico destinato a ospitare i procuratori di San Marco. Piazza San Marco inizia ad assumere l’aspetto che conosciamo.
Venezia si avvia alla piena maturità. Sarà il Rinascimento a sviluppare la viabilità pedonale, a costruire fondamenta, ponti  e lastricare le calli. È sarà ancora il Rinascimento a darle molti degli splendidi palazzi che ancora oggi ammiriamo. Di essi scrive il Sansovino che “non potrebbe l’huomo satiar gli occhi con la diversità di fabbriche così belle e tanto meno possa ciò far bastevolmente con la scrittura”.
Daniela Zini
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Mercoledì 21 Luglio,2010 Ore: 16:41
 
 
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