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www.ildialogo.org MISSIVA A GIOVANNI SARUBBI,di Sebastiano Saglimbeni

MISSIVA A GIOVANNI SARUBBI

di Sebastiano Saglimbeni

Mi è rimasta, amico Giovanni Sarubbi, scrittore sagace, combattivo, della terra di Orazio, la testa che ancora non fa acqua da tutte le parti. Perché i mali, mentre invadono e sbaragliano l’essere fisico, lasciano qualcosa di resistente, di funzionante. Che si può trasmutare in grandezza di volontà, che vale come poesia. Così trovo motivo per esprimermi con la scrittura ed esternare, ad esempio, lo sconcerto tormentoso che provo da parecchio nei confronti di un potere, quello dell’abietto governo nostro ostinato a sostenere gli istituti di credito, banche e poste, sanguisughe dei poveri e afflitti risparmiatori. E questo genera più insopportazione di una maligna neoplasia, quella che scontano tanti ai quali è stata sottratta l’abitazione o altro bene conquistati con lacrime e sangue. Ma leggiamo sulla stampa che il governo presto soccorrerà i poveri. E così continua ad illudere, a vivere, ad impinguare con i suoi uomini. Il potere, amico, il potere, di cui abbiamo letto alte pagine scritte dal filosofo Bertrand Russell.
Si vive intanto come sferzati da una sorta di peste. Che mi evoca quella descritta ne La pelle da Curzio Malaparte nella Napoli del 1943. Con il sostantivo peste, lo scrittore toscano voleva significare il male che generano i potenti, i vincitori nella sua ricca prosa, gli angloamericani liberatori. Furono loro belli, eleganti, nutriti, cn la moneta a generare a Napoli quel male, la vergognosissima prostituzione delle donne, vecchie e giovani.
Fra mille e mille pensieri sui mali fisici, mi si è come impresso in mente un male descritto da una poetessa di valore del nostro tempo, Patrizia Valduga, vivente a Milano, dove era arrivata da Castelfranco Veneto, la comunità che diede i natali al mitico Giorgione. In una sua recente silloge poetica, dal titolo Seconda centuria (Einaudi, 2011) un suo testo, di 4 endecasillabi rimati, recita:
 
“E come sono radi i miei capelli!
Come sono smagrita e inflaccidita!
E i denti!… Non parliamone di quelli…
E’ a brandelli la veste della vita.”
 
Un altro suo testo, sempre di quattro versi endecasillabi, come il resto della silloge, recita:
 
“Ho le emorroidi: sangue anche di lì…
rotta in culo… per dirla in stile aulico…
perdo da tutti i buchi… tutti… sí:
ci sarebbe bisogno di un idraulico.”
 
Se la poetessa esprimeva i suoi mali con un crudo realismo, un poeta della nostra letteratura religiosa del 1200, inizio 1300, si augurava diversi brutti mali del suo tempo. Era Jacopone da Todi, accanito avversario del papa Bonifacio VIII. Pagò con la prigione i suoi ardenti j’accuse. In questo poeta singolare, definito il “giullare di Dio”, una profonda meditazione nei confronti della morte e della miseria umana, il rigetto del corpo, che avrebbe voluto distrutto dai mali. Come autopunizione. Si senta in questi 8 versi seguenti, l’incipit di un lungo testo che un tempo si leggeva e si studiava a scuola.
 
“O Signor, per cortesia
manname la malsania!
A me la febbre quartana
la contina e la terzana,
la doppia cotidiana
co la grande etropesìa.
A me venga mal de denti,
mal de capo e mal di ventre…”
 
Allora, da questa piccola semina di mali, mi consolo ad essere come una canna spaccata in procinto di andare. E tu, Giovanni, avresti ragione, in risposta, appormi il detto popolare: “Non paliamo di corda in casa di impiccati!”. Ma non mi consiglieresti certamente - credo di conoscere la tua pura fede - di compiere un viaggio a Medjugorje….
Comunque quello che ho perduto, strada facendo, l’ho ritrovato in una mia foto che ti accludo. Fa parte degli anni della mia rinascita, dopo la fanciullezza offuscata dalla spaventosa guerra.

 



Sabato 09 Settembre,2017 Ore: 19:37
 
 
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