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www.ildialogo.org OMBRE AL PAESE,di Sebastiano Saglimbeni

OMBRE AL PAESE

di Sebastiano Saglimbeni

a Miche A. Nigro

Conta 87 anni una delle mie quattro sorelle. Che va ripetendo da tempo di essere già arrivata dinanzi al grande cancello del cimitero paesano. Vuole significare, così esprimendosi, che è alla fine, che è un’ombra. Conserva, tuttavia, una tersa memoria e racconta, racconta, scioglie detti, canti popolari di finezza creativa dai quali ricava una sua morale. L’ho sentita declamare, ad esempio, il seguente canto popolare:
C’è cu’ iàvi li scappi e li cappeddi,
cu’ vistiti e cammisi raccamati.
Ogghiu ‘n-birrittu cu li ciancianeddi,
chiddi ca iànnu li ricchi sfunnati.
Mi la facissi ‘nta Chiànu e vaneddi,
sempri ridennu e facennu cantati.
No’ cc’è furtuna pi li paureddi:
su pèggiu di li spichi scappisati.
(C’ è chi possiede scarpe e cappelli,
chi vestiti e camicie ricamati.
Voglio un berretto con i sonaglini,
quello che hanno i ricchi sfondati.
Mi esibirei in piazza e nei vicoli,
sempre ridendo e sempre cantando.
Non v’è fortuna per i poveretti:
vivono come spighe calpestate).
In questa ottava, una sottile ironia, espressa nei confronti di colui che vive bene e può vestirsi lussuosamente. Come risposta, il nullatenente vuole un berretto con i sonaglini, uguale a quello dei ricchi sfondati, per potersi esibire in piazza e per i vicoli cantando, ridendo, per castigare, ma non senza l’amara consapevolezza che per i poveretti, simili alle spighe calpestate, non si profila alcuna fortuna. Due delle mie sorelle se ne sono andate per sempre, con alla visione quell’età della fanciullezza un po’ trascorsa nelle campagne con rovi, ginestre fiorite fragranti, gelsi, peri, mandorli, noci, ciliegi, castagni, spighe di grano e di orzo, pagliai, contadini mietitori ed aie. Vivono la sorella loquace e quella più giovane. Si considerano ombre laddove sono nate, in un paese collinare di cui non si conoscono bene le origini e la provenienza delle prime genti che vi hanno abitato.
Ho potuto riempirmi ancora di una diecina di giorni al paese con la vecchia sorella. Il greve tempo addosso l’ha spodestata da quell’agilità di lavoratrice contadina e operaia. E si rivede ombra, ora lungo le strade a zig zag di campagne con sulla testa un fascio di legna stagionata, ora in quella fabbrica fredda di canapa della Lombardia, dove vi è stata per alcuni anni, ora emigrata con l’apprendimento ordinario ed obbligato di quattro parole tedesche, in quella Germania degli anni Settanta.
Nei giorni agostani del 2015, ombre vaganti al paese. Che sono quelle di compagni e parenti che se ne sono andati e che erano stati con me nelle stagioni delle noci e delle nocciole in tasca, giocate nelle strade in quegli autunni caldi e in quegli inverni plumbei e nevosi mentre rovinava sul pianeta terra la bestia della guerra. Erano stati pure dopo con me mentre si proseguivano, dopo le Elementari, gli studi e si tralasciava, come una espressione meschina, la lingua dialettale dei genitori con poca scuola ed era un obbligo che si apprendesse quella italiana, per progredire. Le abbiamo evocate e passate in rassegna queste ombre perché illusoriamente fossero con alcuni di noi superstiti seduti ora in uno ora in un altro dei tre piccoli caffè.
Sono calate le ombre al paese. Lungo la stupenda orogenesi, osservate da San Filippo, a monte del paese, si vedono le luci delle case: e Savoca, Casalvecchio, Raffadali, Fadarechi, Mitta e Antillo, da una parte del torrente d’Agrò secco, a destra, venendo dalla riviera ionica.
Con Angelo Alfio dalla piazza rientriamo: la sua casa, piuttosto grande, è più giù rispetto a quella piccola di mia sorella vecchia che mi ospita. Appena il tempo per bagnarci la bocca e, come se ombre sinistre di avi ci afferrassero e ci lacerassero, di nuovo, in piazza. Vi indugiamo oltre la mezzanotte nella brezza di fine agosto, che pare ci alleggerisca la nostra compiutezza corporale. Ed ombre, ci ripetiamo se la brezza e gli sfondi del paesaggio aperto e la volta del cielo eguale potranno godersi ancora la prossima estate.
Ultima sera al paese, verso le ore 22. Un suono, non di strumenti, quali quelli di una banda musicale o di un’orchestra, ma di un organetto, rigenera emozioni antiche. E mille e mille ombre, quelle dei paesani di tanto tempo fa, che hanno conosciuto la dura fatica campagnola e la guerra. Che quando era finita, orgogliosi di un dono, quello della voce, hanno potuto eseguire innamorati canzoni paesane d’amore nelle vie del paese sotto le case delle donne da sposare. Ѐ in una stradina dalle case, un tempo basse, elevate alla buona, colui che suona l’organetto con un gruppo di paesani, uomini e donne. Una donna canta un’ottava al suono dell’organetto, un’altra le risponde. Accoratamente, le due donne cantano:
E lu passatu, amici, si nni ìu:
tempu passatu e cchiu no’ mi lu trovu;
e quannu mi ricordu, mi siddiu,
quasi cunfunnu lu vecchiu e lu novu,
chiddu c’amava, è veru, lu pirdiu:
no’ vali cchiu la pena mi lu provu;
quannu cci pensu, pari ca lu viu,
pari lu toccu, ogni quannu mi mou.
 
(E il passato, amici, se n’è andato:
tempo passato, più non me lo trovo;
e quando mi ricordo, mi rattristo,
quasi confondo il vecchio e il nuovo;
quello che amavo, è vero, l’ho perduto:
non vale più la pena per provarlo;
quando ci penso, sembra che lo veda,
pare che io lo tocchi, se mi muovo).
Cantano, invece degli uomini, altre ottave, le due donne attempate, come trafitte da un ricordo di amore perduto. L’ottava, come altre della cultura popolare, ha viaggiato nel tempo anonima e, appresa e cantata, ha avuto un suo significato. L’hanno trovato le donne, una volta, la sera, rinchiuse dentro i muri della casa.



Lunedì 16 Novembre,2015 Ore: 22:09
 
 
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