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www.ildialogo.org POMPEI, POETA A ROMA,di Sebastiano Saglimbeni

POMPEI, POETA A ROMA

di Sebastiano Saglimbeni

Il lungo soggiorno a Roma del “pensatore” inquieto Paolo Pompei registra, oltre ai vari scritti, su riviste e giornali, come “Nuovi argomenti” e “Paese sera”, occasioni poetiche singolari, che con questa nota si vuole contribuire a ricordare. Le contempla una plaquette dal titolo Così com’è color lillà che una piccola editrice, Il Ventaglio, le aveva editate nel 1985. Rilette, a distanza di circa un trentennio, inducono a delle riflessioni, così come sono state concepite, sine titulo, provocanti, moraleggianti, non prive, tuttavia, di sentimenti nei confronti di presenze care. Centonove testi brevi, distribuiti sul mezzo della carta, prevalentemente, in numero di tre, da dove ci deriva, se ben letti e meditati, con la passione del poiein, una lunga e sofferta conoscenza di questo nostro tempo, fatta di storia, filosofia, letteratura e psicologica, discipline nella pratica dell’autore. Pompei è un lettore delle nuove e nuovissime tendenze della scrittura poetica, da quella dell’ermetismo a quella della beat generation e a quella lineare, più leggibile. La sua scrittura, sia pure lievemente, risente di queste tendenze. Le pagine introduttive, sotto forma epistolare, che l’editore Franco Bello ha rivolto a Pompei, orientano il lettore, laddove alcuni tratti pregevoli indicano la poetica dell’autore invero dalla “vocazione libertaria” e dalla emotività. Si senta dal primo testo il senso caustico di Pompei poeta. Egli scrive: “La massa minutaglia/ si è convertita al politeismo/ ed ora sta soffrendo/ per eccesso di idoli ingombranti.// Chi adorerò oggi/ e a chi domani sarà dovuta/ la mia obbedienza totale?”

Qui, in sette accapo, certo dileggio ai facili mutamenti umani di fede, e il malessere di quanto è eccessivo, vacuo; e nei tre versi seguenti, un’ interrogativa, dall’acuta ironia, e il disorientamento dell’autore che totalmente non sarà capace di ubbidienza. Il testo che segue, nella stessa pagina, come quasi tutti gli altri, di una concezione che rievoca il trobar clus contemporaneo, esprime la leggera e inconsistente semina verbale di oggi da parte di tutti, ma che non riscuote alcuna consistenza del nuovo e del creativo.

Nel terzo testo un fendente all’intellettuale di cui il mondo abbonda. L’intellettuale dalle deiezioni d’oro, un “caccadoro”, nel linguaggio dell’autore, un proveniente dall’abietta borghesia, un’ombra, un vano, non un uomo, non uno studioso.

Poiché il trobar clus in queste tre prime composizioni della silloge è costante e pure in quanto segue, occorre, da parte chi legge una poesia del genere, certa dote interpretativa. Qui, nell’azione creativa di Pompei nessun cedimento alla lettura assai agile e di diletto.

E, avanti, nel quarto testo di cinque righi un’osservazione all’uomo della preghiera. Vivo il ricorso alla metafora, che è in quella “spuma fertile”, per dire del latte seminale versato nel giusto alveo muliebre, la fonte della vita animale.

Spigolando dentro la semina verbale di Pompei, che continua a non prediligere i metri- un obbligo dell’esercizio poetico un tempo, ma pure oggi -, si legge, a volte, la sua durezza che satireggia questa temperie storica con la sua larva verticale, falso mito distruttore di tutti i suoi simili, larve verticali. Si legge in questi testi ricordati pure un poeta ripiegato su se stesso con discorsi riguardanti la sua solitudine e quella degli altri indeboliti dal loro stesso potere, soli, che finiscono assieme alla loro boria e che, consapevoli di ciò, si ripuliscono in tempo e si ricoverano sotto le ali del perdono di Dio. Sorprende, difatti, dopo l’esplosione di segni marcati, spesso rabbiosi, brucianti, il ricorso a Dio. Come nel testo che recita: “Solitudine è beatitudine: nulla di più/ cocciutamente creduto/ con cieca fede crescente.// Dio piegandosi appoggiò/ la sua guancia alla mia/ ed eccoci insieme/ coppia roteante nel delirio”. Questo alito divino riappare nei quattro versi che recitano: “Morte presunta di Dio/ che invece vive/ segretamente emigrato/ nel miagolio del gatto”. Ed ancora nel testo dall’incipit “Dio dove sta” e in qualche altro.

Una poesia nei centonove testi che inconsapevolmente pure indugia nella fertilissima e mai esaurita stagione della cultura del Decadentismo, alla maniera francese e inglese, per un aspetto riguardante il contrasto spirito e materia e per un altro aspetto, se si vuole, quello del simbolo, che si evince dal titolo della silloge Così com’è color lillà.

A parte questa considerazione, i testi si leggono generati da lunghe meditazioni, testi, probabilmente, rinunciati, ripresi, mondati ed accettati come liberazione di una uggia e di una conseguente elevazione, che solo la creatività può generare nei mortali.

Infine, questa proposta di poesia, che richiede studi, si conclude con cinque brevi freschi accapo, che recitano: “E se la bara è una barca/ che va sopra i flutti/ io lascio la vita/ per essere sepolto/ nella mia infanzia”. Non si evince in quale modo vada lasciata l’esistenza non priva di umori e di contributi e non invano gestita.

Sebastiano Saglimbeni



Martedì 03 Giugno,2014 Ore: 16:04
 
 
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