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LA MIA COLOMBIA

Giovanna Mulas, 2011, estratto da ‘NOCTURNO OLTRE CONFINE ( la mia Colombia)’


“Sergente, abbiamo oltrepassato uno strano confine qui.

Il nostro mondo ha sterzato sul surreale.”

(da ‘Salvate il soldato Ryan’, 1998.)

      Penso, sono convinta, che prima di mettere piede in latinoamerica, appena un istante prima, un attimo soltanto; debba avvenire un click, dentro. Un click che ti spalanchi occhi e mente alla verità che attende paziente, appena varcherai quell’Exit all’aeroporto: l’America non è New York e Stati Uniti, come da sempre è dato da bere a noi europei fin da tenera età. L’America non è poliziotti fighi e buoni dalla mascella grossa, ‘guerra di pace’ e croci al milite ignoto, film e telefilm yankee di famiglie bionde, belle, magrissime e felici, di successo, Gold’S Gym e beveroni dietetici miracolosi per ragazzone vitaminizzate, da Boutique Cavalli.

Gli Stati Uniti rappresentano una piccola parte della mappa, e non certo la migliore.

Deve acchiapparti un qualcosa, clandestino mio, che ti prepari al dopo, a ciò che hai letto solo in parte sui libri di scuola, immaginato solo in parte con Marquez, Mercedes Sosa o le riviste di una sinistra italiana che, in parte, è già destra, o ascoltato da qualche amico convinto di aver fotografato l’El Dorado, a lamenti per il costo salato della visita guidata.

E magari l’hai fatto sorridendo, ascoltare intendo, pensando che si, che quella del latinoamerica in fondo è gente del terzo mondo, caduta in disgrazia non si capisce come e perché, sempre troppo allegra e un pò alla tanos, alla napoletana, sfigati allegri che forse neppure le lavatrici conoscono, non come noi europei fashion per il Colosseo e i cinesi a frotte a visitarlo. O il Festival di Sanremo.

Penso che il click, il click vero, debba avvenirti prima nelle viscere, poi nel cervello. Nello stesso, infinitesimale secondo nel quale cominci a odorare, non richiesto, un’aria non tua, già violentata, dominata storicamente.

Devi metabolizzarti diverso. TU diverso e superbo, ammaestrato, addestrato dalla nascita come dominatore ma, in realtà, piccolo e banale schiavo, salottiero, plagiato dal sistema.

Penso pure che se quel click non lo senti tanto vale che resti a casa, in umile accettazione, affondato in poltrona a ubriacarti di bugia fino alla fine dei tuoi giorni ché in fondo, come diceva mia nonna, la verità va incontro soltanto a chi ha il coraggio di cercarla.

Del resto, la mia, è solo la visione di un’europea.

    

      Mi sveglio alle 5.30 che il sole già filtra tra le persiane basse della nostra camera, all’undicesimo piano del Gran Hotel di Medellin.

Il clima è dolce, un misterioso campanile batte un rintocco e mezzo e, tra sirene e grida, la vita che mai ha smesso di correre, giù per le strade diritte. C’è odore di caffè appena fatto e brioches. Sento bussare la porta della camera accanto, probabilmente si sta servendo la colazione. Ancora fatico ad adattarmi all’altitudine: il mal di testa feroce e le vertigini che sento avvolgermi cervello e sangue, mi obbligano ad ingoiare due pastiglie. Siedo sul letto e attendo di sentirmi meglio. Col caffè passerà, penso e spero. Butto giù qualche appunto, una doccia, stiro i muscoli, mi trucco, lamento la mancanza di un bidet, ho fame. Sveglio Gabriel alle 7.30; alle 11.00 abbiamo appuntamento all’asentamiento de los desplazados La cruz y La Honda, alla scuola Luz de Oriente, per un reading e dialogo con pubblico. Con noi ci saranno il rapper sudafricano Ewok, idolo dei più giovani, e la cubana Magìa Lopez, cantante e maestra di hip hop. E’ dal giorno del nostro arrivo in Colombia che Fernando e Gloria del Festival mi dicono che dovremo fare molta attenzione a tutto: il barrio La Cruz appartiene agli sfollati, è difficile, pericoloso, è la periferia perduta, volutamente dimenticata dalla città. Colombia è il paese al mondo col maggior numero di desplazados, a causa della guerriglia interna. Il denominatore comune, l’obiettivo principale della guerriglia che spinge indirettamente o direttamente le genti ad abbandonare la propria terra e quindi finire in rovina è il narcotraffico. Occorrono terre per produrre le sostanze e si obbligano i contadini all’emigrazione: se questo non avviene volontariamente, i contadini vengono uccisi. Ciò accade sistematicamente anche in zone minerarie o nelle coltivazioni di palme da olio (cocco).  E’ denunciato il reclutamento forzato di bambini, il corpo delle donne, ulteriore atrocità di una guerra imposta, è oggetto costante di violenza: bottino di guerra per i paramilitari. Si stima che circa il 70% degli sfollati ha vincoli con la terra che si sono visti costretti ad abbandonare: proprietari, gestori, occupanti. Si registrano dai 4 ai 6 milioni di ettari di terra abbandonati. L’ ONG Osservatorio dei diritti umani e dello Sfollamento, considera che la cifra reale degli sfollati per il conflitto armato interno dalla metà degli anni ottanta supera i 5 milioni di persone. Circa l’80% degli sfollati sono donne e bambini e secondo la commissione di politica pubblica sullo sfollamento forzato, il 43% delle famiglie ha come capofamiglia una donna. Nel 68% le donne capofamiglia restano sole. Mi raccontano che durante le ultime settimane un paio di insegnanti sono scomparse da La Cruz, per essere state ritrovate qualche giorno dopo torturate e uccise in mezzo alla foresta, pistola in mano e braccialetto delle FARC.  Incastrate, uccise perché ritenute sovversive, ribelli. Perché ai ragazzini non si deve insegnare a pensare o creare quanto, solo, a vivere. Il come verrà dettato dall’istinto di sopravvivenza. Los compañeros sostengono che gli Stati Uniti “pagano un tanto a cadavere” secondo il Plan Colombia, e il governo colombiano incassa. Ufficiali, soldati e un numero imprecisato di cittadini comuni hanno intascato ricompense dallo Stato per presentare false denunce anonime contro loro vicini e conoscenti, mandandoli a morte. E’ la caccia alle streghe, sotto lo storico silenzio dei media mondiali, i falsi positivi: militanti di sinistra, intellettuali, maestri o contadini, aborigeni.

Centinaia di cittadini inermi sequestrati da esercito e paramilitari o paracos (gruppi di mercenari di ultradestra, fascisti, retribuiti dalla politica governativa), assassinati e rivestiti con una tuta mimetica con il simbolo delle FARC per permettere agli assassini di passare all’incasso. Omicidi pagati dallo Stato colombiano e, al di sopra di questo, dal governo degli Stati Uniti.  Il Plan Colombia, “Plan for Peace, Prosperity, and the Strengthening of the State” ( Piano per la pace, prosperità e consolidamento dello Stato ) è in realtà una tenaglia con la quale l’imperialismo impone la sua prepotenza in America Latina. Il governo colombiano, con le sue sette basi militari statunitensi, registra un importante introito economico proprio grazie alla droga venduta al principale consumatore nel mondo: gli Stati Uniti.  La popolazione colombiana soffre da varie decadi dei devastanti risultati di questo negozio che si traducono nell’esistenza di mafie e le loro formule di estorsione, nell’incremento della violenza e della corruzione, nei confronti politici senza soluzione, repressione militare e paramilitare contro i civili etc.

      Cani sporchi camminano indolenti, zigzagando per il sentiero di fanghi e sabbia. L’autista ascolta Cumbia Peruana a manetta. La Chiva, Il coloratissimo, stretto e caratteristico pullman colombiano sobbalza e frena a scatti. Sbuffa e accelera, da una ventina di minuti ha abbandonato la strada principale. Sale e la strada si fa più stretta fino a divenire impervio sentiero di montagna. Capita d’incrociare –non si sa come, vista la mulattiera- altri pullman. Penso “ora ci blocchiamo qui o cadiamo di sotto”.  L’autista, esperto o solo incosciente, sterza, accosta un istante approfittando di cespugli e affossamenti laterali, sfiora di qualche millimetro l’altro pullman e ne viene sfiorato, frena, sterza ancora, saluta il collega al volante e, incredibilmente, riesce a proseguire. Senza litigare lanciando insulti come accadrebbe tra noi tanos, come noi italiani veniamo chiamati in America latina.

Medellin ed i suoi eleganti grattacieli la vedo come la prima volta: racchiusa, circondata da colli e catene di montagne intinte nelle nuvole. Da quel sentiero mi pare un mondo a parte; di un’eleganza fallace, troppo mostrata. L’autista de La Chiva guida selvaggiamente, noi sobbalziamo ridendo e tremando un poco: non so se arriveremo a destinazione senza vomitare. Nel cielo, volo a cerchio, gli avvoltoi: conto quattro o cinque vistose macchie nere. Ai fianchi del sentiero appaiono, inerpicate furiosamente, altre ‘case’: assi di legno marcio e plastica, tubi di ferro che fungono da pilastri, cartone. Una accanto all’altra e sopra l’altra, a togliersi il respiro; arrancano tra cima e strapiombi, pronte ad essere spazzate via alla prima alluvione.

E capirò il crack tra i più giovani, capirò il popolo zombies, capirò la violenza. Odoro l’ingiustizia, la prepotenza dell’imperialismo nella miseria delle strade untuose, nei bambini semi nudi e scalzi, nelle ragazzine in vendita ai turisti annoiati. Sento le viscere farmi le capriole, dentro. Perché? Perché qui e così?

Perché c’è chi ha dieci e chi, come loro, il Nulla. E non pretendono più di questo nulla.

“Voi poeti dovete raccontare al mondo ciò che noi viviamo qui”. Così mi hanno detto i bambini abbracciandomi, quei rifugiati della scuola de los desplazados, figli della guerriglia e tutti figli nostri, con la strada negli occhi, affogati nel fango del sistema che qualche buon borghese neppure è in grado d’immaginare e che nessun uomo, solo perché tale, ha il diritto di conoscere, tanto meno vivere.

Strano, capirlo davvero oggi, nel 2011, e qui. Dopo tanto studiare, vivere, leggere, ascoltare, vedere e scrivere. A cosa è servita la mia cultura? La letteratura, la poesia...a cosa è servita? Io che pensavo di conoscerlo, il dolore, e di conoscere la morte.

Strano, per me.

A tratti tutto mi pare un film ed io una comparsa da Eroe per caso, un universo parallelo quasi. E vorrei che lo fosse. Ma non è un film ed io non sono un’eroina, sono soltanto un’europea cresciuta a telefilm yankee e consumismo. Per noi l’idea di aiutare equivale all’assistenzialismo, al mendicare. Che posso saperne io di desaparecidos, di torture e storica ribellione di un popolo all’imperialismo se non quello che ci è stato dato da studiare e leggere per una vita? Sono formattata, io.

Leggo la mia poesia alle persone raccolte in quello stanzone troppo vasto e vuoto, mentre dei bambini scalzi giocano tra le sedie, i cani passeggiano fiutando pulci e presenti. Devo trattenere il pianto, stringo i denti, serro la mascella. Tutto mi sembra inutile, banale, offensivo quasi delle condizioni di questa gente. E sento che per i miei compagni la sensazione è la stessa. Ci scattano delle foto che vedrò in seguito, diffuse dalle agenzie di stampa internazionali: io, Gabriel, Ewok e Magia abbiamo l’espressione smarrita, i volti carichi di sconcerto. In particolare, riguardando l’immagine apparsa sul quotidiano nazionale El Colombiano, rifletterò sul perché la foto è stata scattata soltanto a noi poeti. E’ normale, mi dico. Ma perché non ai bambini, con noi, i veri protagonisti di quella scuola e della vita, di quella vita non...vita? Ripenserò al mondo a parte dei poeti...può un poeta stare davvero con la gente e rappresentarla (superbia più grande) oppure, d’istinto e sempre e comunque è portato a rappresentare se stesso?

Dopo la lettura, avverto l’impulso bestiale di fuggire. “Per oggi è troppo”, penso “...non posso, io non posso...che ci faccio qui? Qui, a che serve la mia poesia?”. I bambini mi si avvicinano bloccando all’istante il mio volo mentale: mi abbracciano, mi baciano le mani, mi ringraziano per le poesie.

Un piccolo, sporco e lacero, tirandomi per il braccio mi prega di restare a mangiare con loro. Lo abbraccio stringendolo al ventre, gli bacio la testina rasa e nascondo le lacrime che, ancora, mi colgono: “claro que si”, gli dico, “comemos juntos”, e vorrei fare di più per loro che mangiarci assieme.

Nel terrapieno accanto alla scuola ci sono uomini che zappano: Giacobo e Marcela, compañeros che hanno accolto me e Gabriel al nostro arrivo raccontandoci sulle ultime insegnanti scomparse e del lavoro della FARC tra i monti, ci dicono che quelle persone stanno scavando un canale per la discarica di una ‘casa’, e i vicini aiutano il nuovo desplazado a farlo. Sul terreno arido della scuola alcuni volontari hanno avviato una piccola coltivazione di cipolla e aglio.

Rimango colpita dai poeti tedeschi Regina Dyck e Thomas Wohlfahrt, direttori rispettivamente di Internationales Literaturfestival Bremen e Literaturwerkstatt Berlin. Gli sfollati hanno preparato per tutti noi autori con affetto, cura e chiaro sacrificio due pentoloni enormi di  fideos de arroz con carne, cotti per ore all’aperto sotto il sole cocente. Zuppa calda di riso con tranci di carne e fagioli, platano, cipolla e aglio, accompagnata da litri di limonata. I due poeti annunciano che hanno da fare e torneranno in albergo subito, con un taxi. Dopo un’intervista rilasciata al volo ad un inviato dell’agenzia EFE, m’infilo in una delle tre lunghe code di persone in attesa del pranzo. Più di un desplazado fa per cedermi il suo posto, per evitarmi l’attesa. Dico che no, va bene così: noi siamo uguali agli altri. Aspettiamo il nostro turno sotto un sole d’inverno colombiano, trenta gradi all’ombra. Queste persone, con la loro immensa dignità e semplicità mi scaldano l’anima: c’è chi si avvicina per farsi una foto con la poeta de Italia, chi mi bacia ringraziandomi, chi ci guarda con affetto grande, chi mi porge la sua bambina di pochi mesi affinché l’abbracci per portarle fortuna e mi confida che ama l’Italia e Ungaretti, scattando un’altra foto. Mi danno un ottimo cafecito tinto, dopo la zuppa mangiata poggiando il piatto in plastica sulle ginocchia. E mi guardo attorno.

Eroi. Qui gli unici eroi sono questi uomini e queste donne che vedo camminare scalzi e con un orgoglio che non si piega neppure davanti a secoli di repressione. Loro che, comunque, sorridono. Popolo di disperati costretti dalla guerriglia a lasciare le loro terre senza nulla pretendere se non la vita, i figli in braccio e il domani vuoto. Sono loro gli eroi.  Noi, soltanto europei.

“E la chiesa come si sta muovendo?”, domando laconica a Marcela e Giacobo, che sorridono. In fondo non ho bisogno di risposta, conosco la storia e qui mi basta guardare, sentire dentro, ascoltare la gente.

“Come sempre. Dalla parte del potere”, mi dicono.

Penso ai miei figli e la loro fortuna, nonostante. Penso a los desplazados, abbandonati da un dio burlone, se esiste un dio, e dalla natura, dal mondo stesso. Ad un governo populista che elargisce 50 dollari ogni due mesi per tenere calme le acque, evitare ribellioni violente e far pensare alla gente che si fa qualcosa per loro. Il Governo corrotto ruba miliardi, al popolo vanno le briciole e la zuppa di fagioli e riso quando gira bene. Penso che il governo colombiano non è poi così diverso dall’italiano. Penso al futuro che vedranno questi bambini, a come lo vedranno se lo vedranno. E spero che il dolore non bruci loro gli occhi, ché la carne è già tatuata. Vorrei avvolgerli, portarli con noi vorrei e vorrei e durante il viaggio di ritorno piangerò soltanto, per ciò che avrei voluto per loro, tutti figli nostri, e mai avrei immaginato... non così, non...così.

Mi salutano adios muchacha, tutti i bambini, dalle finestre della scuola. In pullman, riscendiamo verso il mondo vero. E già non lo vedo come prima.

Ora so che nulla sarà più come prima (...).



Lunedě 25 Luglio,2011 Ore: 14:42
 
 
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