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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Isola Nera 5/57,

Isola Nera 5/57

Casa di Poesia e Letteratura

Casa aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana.

Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo

di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace.

Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione.

mulasgiovanna@yahoo.it ottobre 2010 Lanusei, Sardegna


 

"Nella mia vita non mi sono mai contraddetto per la semplice ragione che su
qualsiasi cosa ho sempre avuto due opinioni: la mia e il suo contrario"

(Mario Soldati)

 

GIOVANNA MULAS
 

da “NESSUNO DOVEVA SAPERE,

NESSUNO DOVEVA SENTIRE”

Un estratto da ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’, mio nuovo romanzo. E’ il climax dello scritto, l’evento che darà il via al dipanarsi fisiologico della matassa narrativa, ad un ulteriore incatenarsi di fatti tragici che ‘daranno un senso’ all’essere ( al divenire) accabadora della protagonista. 

Chi conosce la mia letteratura e la mia vita sa quanto io sia legata alla tematica della violenza sulla donna, che riprendo in questo capitolo una volta ancora e dopo il mio autobiografico ‘Lughe de chelu’ ( Bastogi, 2003), con il personaggio di un parroco che violenta la giovanissima protagonista.
Non a caso, un parroco. E’ il ‘sacro’ che profana, l’inaspettato che ruba la verginità quindi la speranza, l’innocenza; è l’inatteso che offende, tradisce.
Il sacro, nel senso più ampio del termine, che più non esiste per la mia donna.
La chiave che la porterà a sfidare tempo e morte, e la promessa di un eventuale Dopo. 
Che la porterà a non temere la morte, a sostituirsi alla morte, ad oltrepassare con questo nuovo potere la porta onirica del disgraziato di turno.



GM, ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’, romanzo, Il Ciliegio Edizioni – Paolo Acco Editore.- Per le librerie: rivolgersi esclusivamente a: Dehoniana Libri Stefano Lenzi- Tel. +39 051 4290452


 


 

Abbaccai

Ogni volta, dopo la messa, don Cristoforo dava al pesante portone d’ ingresso della parrocchia tre mandate 

( tre, dovevano essere, come la Santissima Trinità, diceva lui) per serrarlo. 

 

Poi Abbaccai lo vedeva ritirarsi nelle sue stanze, rosario e bibbia nel pugno, probabilmente a leggere il breviario. Quando l’avevano visto arrivare in paese col treno da Cagliari e accompagnato dall’anziana e grassa madre vedova, l’inverno di due anni prima, nessuno avrebbe detto che di prete si trattava. Vederlo scendere dal vagone così, tutto nero tranne i capelli troppo biondi, alto, zaino alla mano ed un paio di libri nell’altra, il ciuffo scomposto e il sorriso facile, la pelle chiara da continentale, così come gli occhi; tutte le donne ne erano rimaste affascinate ( per mesi in paese e nelle campagne non si era parlato d’altro che di un prete bello come un angelo), e tutti gli uomini, giovani o vecchi che così diverso lo vedevano, così bello e puro, ma tutto tranne asessuato come un vero prete dovrebbe essere o almeno apparire all’occhio...bhè, molte donne s’erano sentite rifiutare dal marito il permesso di 

andare in chiesa.

E don Cristoforo, così si chiamava, Cristoforo Veneruso; aveva dovuto visitare tutto il paese, casa per casa, ovile per ovile, quasi scusandosi della sua bellezza. Convincendo comunque con le buone e sempre con la Bibbia in mano che la messa non andava saltata. Che era male saltarla.

Certo era che, thia Annicca lo diceva sempre, la sera, in cortile, sbucciando le patate per il brodo di gallina del giorno dopo; tutte le zitelle, giovani o vecchie del circondario, avevano preso ad andare a messa non solo la domenica, ma tutti i santi giorni.

E sempre vestite a festa; tutti i giorni per loro erano diventati Domenica delle Palme.

Una volta Abbaccai ( avrebbe compiuto quattordici anni il sei di maggio) aveva scoperto don Cristoforo a spiarla mentre spolverava il candelabro rivestito d’oro che Thia Paba aveva donato alla chiesa in ringraziamento dopo che sua nipote s’era salvata da morte certa per broncopolmonite fulminante. Una miracolata insomma, sia la nipote sia thia Paba, che poteva permettersi di regalare candelabri come quello. In paese dicevano si nascondesse i denari nell’ orto, sotto gli ulivi.

Ed era capitato che i carabinieri dovessero correre in casa sua nel cuore della notte perché richiamati dalla vecchia vedova che aveva scoperto qualche disgraziato scavarle nell’orto e chi la capisce questa gente? Disgraziati di paese, latitanti sono che dovrebbero FINIRE IN GALERA! E nell’ultima parte della frase alzava la voce di tre toni di modo, forse, che tutte le case attorno sentissero cosa la signora pensava davvero del suo vicinato.

Abbaccai stava piegata sulle ginocchia, le gonne leggermente sollevate sopra le caviglie per potersi muovere meglio, i capelli raccolti con grosse, grezze forcine d’osso, sotto il fazzoletto.

Avvertiva una sottile pellicola di sudore sulla fronte; si avvicinava l’estate e senza dubbio, come le ripeteva thia Annicca, sarebbe stata un’estate lunga e molto calda, come quella che aveva seguito la sua nascita.

Abbaccai si era appena versata un bicchiere d’acqua di fonte, dalla brocca di terracotta poggiata al fresco, sulla cassapanca tarlata di fianco all’altare in pietra. Sulla sinistra della piccola finestra con delle assi inchiodate all’esterno, ora che i muratori facevano dei lavori di restauro, c’era un tratto di terreno dove, nell’erba, riaffiorava una ruota di carro. I passeri saltellavano ora tra le assi inchiodate, ora sulla ruota, e ogni saltello vivace era un canto, un’ arruffare di piuma.

Abbaccai aveva intinto i polpastrelli nell’acqua rimasta nel bicchiere, e li aveva passati sopra il seno, sul collo, dietro i lobi delle orecchie dolcemente, a cercare refrigerio.

Ad un rumore, ad un respiro, si era voltata di scatto; aveva fissato don Cristoforo con espressione lievemente sorpresa. Aveva riabbassato gli occhi sul candelabro, in silenzio.

Poi aveva visto con la mente la figura di rondine trista scomparire nel sagrato.

Finito il lavoro era andata come sempre a salutare don Cristoforo.

L’ aveva trovato con la testa poggiata agli avambracci pelosi, troppo magri.

Ed ecco che, d’istinto, l’aveva assalita all’improvviso una possibilità spaventosa: forse poteva succedere qualcosa di molto sbagliato nella vita delle persone, e a volte quel qualcosa di sbagliato non finiva lì…non era destinato a finire. Ma a continuare, a sfociare in qualcosa di peggio e nessuna volontà avrebbe potuto trattenerlo dallo sfociare. Un guasto progressivo. Un ciclo che si ripete e si ripete, all’ infinito.

La schiena di don Cristoforo sussultava.

-don Crì…ho…ho finito-.

L’ uomo era trasalito.

Vai a casa-, aveva bisbigliato alla ragazzina, -e non tornare… da domani verrà mia madre a fare le pulizie-.

-Anda bene goi; comente cheres, don Crì.-, annuì Abbaccai.

Aveva, per un solo attimo, sentito l’ impulso di consolare don Cristoforo del suo male; era stata lì per sfiorargli la schiena con una carezza, e che diamine; era evidente che don Cristoforo non riuscisse da solo a superare il suo problema. Avrebbe voluto dirgli che sarebbe passato tutto presto, non c’era di che preoccuparsi perché la vita è così; oggi è bene domani è male, dopo è forse.

Ma il suo istinto, ancora, l’aveva fermata dal reagire. A testa bassa aveva lasciato la stanza, chiudendo la porta.

L’ avevano seguita, lungo il tappeto carminio a intarsi oro della chiesa e fino all’ingresso, i singhiozzi striduli e disperati di don Cristoforo.

Era accaduto tre settimane dopo in una mattina, così, in una folata di vento di maggio era accaduto.

Abbaccai aveva voluto andare a visitare don Cristoforo dopo la messa, salutarlo, chiedergli se andava meglio perché la verità era che sentiva nostalgia della sua voce dolce e rassicurante, dei modi da gentiluomo continentale, i consigli e le immagini dei santi che ad ogni visita le regalava invitandola a pregarli che c’era un Santo per ogni male, ripeteva il giovane parroco. E non importava se thia Annicca quando lei le aveva raccontato l’accaduto, era impallidita segnandosi tre volte fronte e petto.

non ci mettere più piede da sola, in quella chiesa-

-Proite thì?-

-PERCHE’ NON CI DEVI ANDARE  E BASTA…HAI CAPITO?  SE SO CHE L’HAI FATTO TI BASTONO LA SCHIENA FINO A SPEZZARLA…CUMPRESU AS, DIAULA?-

-Mmmmh…eja…va bene.-

 -E neppure devi raccontare a nessuno quello che hai detto a me…lo prometti Abbaccà? Ti l’ammentas, diaula?-

-Mmmmh.-.

Quella stessa notte Abbaccai, dalla sua stanza, aveva sentito thia Annicca mormorare preghiere incomprensibili, parlare nel buio o col buio; tutta la notte era rimasta sveglia a mormorare perché la mattina, quando la ragazza si era alzata per scaldarsi il latte, l’aveva trovata addormentata sulla sua sedia a dondolo, di fronte al camino spento, il capo poggiato sulla spalla, il rosario stretto nel pugno ed il libricino dell’Antico Testamento aperto, sopra scialle e petto.

Ai suoi piedi un piatto con acqua e olio, una bottiglia piena a metà di vino rosso spunto, un crocifisso, un’ immaginetta dei Santi Cosma E Damiano. – Sto aiutando una persona a vincere la sua battaglia-, aveva detto thia Annicca quando le aveva chiesto il perché della notte in bianco.

 

Fu nel momento in cui si chinò per raccogliere una rosa caduta dall’altare, caduta curiosamente proprio nell’istante in cui Abbaccai ci passava davanti per andare in sagrestia, che una mano le calò sulla spalla, stringendola e costringendola a voltarsi.

-Don Cri…?- mormorò Abbaccai.

Don Cristoforo era lui ma…non era lui…non sembrava lo stesso don Cristoforo di tre settimane prima. Questo…quest’uomo aveva la barba lunga, gli occhi cerchiati e fuori dalle orbite e le labbra strette. Abbaccai cercò di parlare ma non riuscì.

-Ti avevo detto di non tornare- fece il prete. -…tu…sei peccato…tu…te la stai cercando…-

te la stai cercando te la stai cercando te la stai cercando

La ragazza strattonò la presa, indietreggiò fino a toccare la parete

-Se ti avvicini ti ammazzo, hai capito bene, ti ammazzo!-, disse.

L’altro si lanciò su Abbaccai ruggendo, lei restò dov’era. Urtò inavvertitamente con l’anca il candelabro che vacillò, si esibì in un giro di valzer, le cadde accanto.  La ragazza caricò tutto il peso del corpo sulla cassapanca spingendola su e verso l’ uomo; con un tintinnio musicale bottigliette e vasi si rovesciarono sul granito della chiesa, andando in frantumi. Schegge di vetro partirono in ogni direzione, Abbaccai alzò un braccio per farsi scudo agli occhi. E il prete le fu sopra. La rovesciò sul granito: un tonfo sordo, una fitta alla nuca, una luce bianca esplose ad Abbaccai nella testa. Ora, l’aveva sopra di lei. Si limitò a fissarlo con dolente solennità infantile, silenziosa, mentre le mani di lui le sollevavano la gonna frenetiche, le allargavano le gambe e frugavano graffiandola e ferendola ancora, ficcavano le unghie nella carne fresca, dolce, pura, risalivano ai seni, li strizzavano mentre il fiato aumentava, roco. Pareva che il suo intento ora non fosse più solo quello di violentarla, ma di ucciderla direttamente.

-peccato…il peccato sei- ripeteva don Cristoforo e un rivolo di saliva gli colava sul mento.

Togliere il peccato dalla faccia della terra, lavarselo dalla pelle e il sangue.

E lei seppe, in quel momento sentì con matematica certezza che lui l’avrebbe fatto: vide chiaramente la scena, con una sensazione di estraniamento che la sconvolse forse più delle mani aliene sulla sua carne. La vide in un flash, un attimo.

Vide lui che si rialzava dopo, vide lui che le chiedeva perdono e mentre lei sconvolta si aggiustava le gonne per fuggire lo vide che, muto e lestro, la raggiungeva alle spalle, la strangolava, la lasciava sul granito, morta. Lo vide che la raccoglieva da terra guardandosi attorno, la nascondeva in sagrestia chiudendo la porta a chiave e aspettando la notte. Lo vide dare messa come nulla fosse accaduto, solo più pallido del solito ma è un continentale, ha sangue allungato con acqua lui, vide le vecchie bisbigliarsi sorridendo tra un rosario e l’altro.

La notte, mentre l’ultimo ubriaco camminava incespicando dall’ unica bettola del paese alla casa; ecco don Cristoforo che rientrava in sagrestia, la raccoglieva dal suo angolo, le accarezzava i capelli, la baciava sussurrandole all’orecchio di averla amata davvero lui, ma il peccato non aveva diritto di restare sulla terra, andava lavato perché poteva portare ancora in tentazione. Infilava il corpo della ragazzina dentro un sacco di tela grezza, quelli usati da thia Annicca per conservare i resti dei cibi da dare ai maiali, e, caricandoselo sulla spalla, lo portava giù al fiume. Non c’erano carabinieri in ronda quella notte, non a quell’ora. Abbaccai vide thia Annicca segnarsi e segnarsi e piangere la sua scomparsa nella cucina di casa Spano, tra acqua, olio e vino e immagini sacre. Vide don Cristoforo tirarla fuori dal sacco e deporla amorevolmente ai piedi del vecchio albero di noce, poggiarla seduta, la schiena al tronco e le gambe leggermente divaricate, le gonne lunghe a coprire le ferite, il capo chino come una Madonna addormentata.

Lo vide piegare il sacco con la stessa flemma cerimoniosa di quando, durante la messa, alzava l’ostia al cielo per benedirla e appoggiarla tra le labbra di turno. Lo vide mettersi il sacco piegato sotto il braccio e, senza voltarsi indietro, prendere la via del ritorno. Poi, ancora, lo vide ritornare in chiesa e pregare fino all’alba, chiedere perdono e avere l’assoluzione da se stesso, che in fondo non aveva fatto altro che liberare il mondo dal peccato. E lo vide pure, qualche anno dopo, buttare gli occhi suoi chiari, consiglieri e puri, su Giannedda Demuru, la figlia del farmacista del paese, che solo tredici anni teneva ma un seno di donna fatta.

Ecco, tutto questo Abbaccai lo vide in un istante, un flash.

E mentre don Cristoforo emetteva un grido soffocato, roco, lei lo colpì dietro la nuca col candelabro. Lo colpì una, due volte, tre, fino a che la testa sussultante dell’ uomo non rimase ferma, bloccata sulla sua spalla; continuò a colpire il morto fino a che non sentì il sangue di lui scivolarle sul seno, sul collo, i capelli umidi dal pianto.

Attese il buio nascosta in sagrestia, disperata e violata ma viva, corse attraverso la campagna fino a  casa di thia Annicca che già l’aspettava, che già sapeva. E la vecchia nulla disse, solo l’abbracciò stretta, la lasciò piangere, la lavò e su ogni ferita, biascicando preghiere e gesticolando, poggiò un bacio.

-Resta qui a riposare. Ti guarderà la luna.

E’ l’inizio, Abbaccai mea-, le mormorò prima di uscire.

Abbaccai non capì, ma non chiese. S’addormentò esausta, singhiozzando. Quella notte ebbe la sua prima mestruazione; a lavare la violenza, a lavare via la sua infanzia.

Di don Cristoforo nulla più si seppe, ma i maiali di thia Annicca ebbero carne da mangiare ( e non la trovarono molto buona, mi raccontarono loro stessi) per una settimana di fila.

Una vecchia megera del paese, già perpetua di don Cristoforo; mi disse in confidenza che tutte le volte in cui quella settimana passò davanti al recinto, i maiali le grugnirono dietro in latino.

Nessuno le credette.

Io si.


 

Ferruccio Brugnaro

Mestre, Venezia - 1936

Neve di primavera

 

È sconvolgente
e bella
come i tuoi baci
quando sei arrabbiata.
Scioglie ora
i grovigli di dolore
più oscuri
in luce intensa e dolce.
Il suo candido morso
alla terra
è il tuo morso
rabbrividente e felice
alla mia vita
nel cuore della notte.

Lalla Romano

Scrivere vuol dire scrivere di sé, 
in modo più o meno dichiarato… 
scrivere per me è stato anche il tramite 
per entrare nelle vite degli altri”.

Silenzi

D’estate, nel silenzio dei meriggi,

sopra la terra esausta ed assopita,

incombe il peso d’una enorme assenza.

 

Ma dai grandi silenzi dell’inverno,

sopra la terra rispogliata e nuda,

infinita certezza si disserta.

 

Tutto perdemmo: fu sprecato il tempo

Sì breve del fiorire, ma ora il cielo,

non più velato dalle foglie, immenso,

 

di luce inonda gli orizzonti, e nulla

fuorché il cielo è vivente sulla terra,

una più vera vita è in questa morte.

  (Inedito di Lalla Romano, 1930)

Graziella, (nome scelto dal padre dalla novella di Lamartine, in omaggio a Napoli) detta Lalla, Romano nacque a Demonte , in provincia di Cuneo, l’11 novembre del 1906, da una famiglia di antiche origini piemontesi. Cresciuta in un clima ricco di sollecitazioni culturali, dopo il liceo s'iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, dove i professori Ferdinando Neri e Lionello Venturi influirono profondamente sulla sua formazione. Su suggerimento di Venturi frequentò la scuola di pittura di Felice Casorati, e cominciò ad occuparsi di critica d’arte. Nel 1928 si laureò a pieni voti, all’Università di Torino,  in letteratura romanza con una tesi sui poeti del “dolce stilnovo”. Dopo aver fatto la bibliotecaria a Cuneo, si trasferì a Torino con il marito Innocenzo Monti e con il figlio. Qui insegnò storia dell’arte in vari istituti, continuando a coltivare la sua passione per la poesia e per la pittura. Tra il 1925 e il 1928 frequentò lo studio del pittore Giovanni Guarlotti, compì numerosi viaggi a Parigi, conobbe i nuovi fermenti artistici ed entrò in contatto con Cesare Pavese  (con cui era stata anche compagna di università e per il quale, durante la guerra, tradusse i Trois contes di Flaubert), Mario Soldati, Franco Antonicelli, Arnaldo Momigliano, e Carlo Dionisotti. 

Iscritta al Partito d’Azione, prese parte attiva alla Resistenza, esperienza i cui echi confluirono in molte sue opere.
Attenta al quotidiano, sempre relazionato all’universale, al privato, allo studio degli esseri umani e al tessuto dei loro rapporti ed affetti familiari e quotidiani in sensibilità squisitamente femminile, ma priva di sentimentalismo e vittimismo. Ha attraversato per intero il Novecento, con le sue ombre e  luci, con silenzi lunghissimi e attività febbrile, come scrittrice di versi, racconti, saggi, recensioni, dedicandovisi, ormai praticamente cieca, fino alla morte, avvenuta a 95 anni, il 26 giugno del 2001, nella sua amata casa milanese di via Brera.

(ringraziamo la Fonte: http://www.letteratura.it )

Sibilla Aleramo

Alessandria (Piamonte) 1876 -1960

Pallore lucente

 

Pallore lucente, nell’aria e su me, e stupore.
Son sola, tu lontano, denudo spalle e seno,
una grande rosa bianca sono,
ti parevo e sono, dolce di sole, che respira.
Null’altro, e dunque comincia primavera.
Vapora ogni ricordo che non sia d’amore.

Alberto Asero, Italia

PASSACAGLIA

Willy è nervoso. Ansima e gira su se stesso. Mi chino e gli tendo

il riccio di peluche. Allora lui si ferma e mi guarda. Agito appena il peluche

perché lui si avvicini. E in effetti dopo poco si avvicina, ma senza

convinzione. Sfiora il giocattolo con il naso. Senza guardarlo, però, senza

smettere di guardarmi. Ho appena il tempo di fargli una carezza. Da come

scatta via pare che il riccio di peluche sia un riccio vero, che lo abbia punto.

Di nuovo va e viene dalla scala al cancello, dal cancello alla scala. Si ferma

solo quando capita che da dietro la tenda chiusa traspaia un qualche

movimento; allora drizza il collo e tende le orecchie. Poi ricomincia ad

ansimare e girare nervosamente su se stesso. Ansimare e girare su se stesso.

Vieni!”, disse Margaret. E improvvisamente parve le parole

avessero riacquistato il privilegio di non poter venire che da sé,

spontaneamente, com'era quando indietro non c'era nulla da difendere, né

tanto meno da cui difendersi.

Dove?”

Oltre il promontorio. C'è un'insenatura, una piccola baia. Non

c'è nulla, lì, salvo una chiesa che dà sul cielo”, e agitò la mano. “Dài, vieni,

andiamo!”

In un attimo lasciammo il sottile lembo di spiaggia a mezza luna

fra due scogliere in cui ci eravamo ritrovati e ci inerpicammo in chilometri di

curve su per il crinale scanditi solo da qualche indicazione di minuscoli

borghi. Intanto stava facendosi buio; un po' anzitempo, considerata la

stagione, non fosse per il temporale che si preannunciava. Forse per via della

malcelata emozione, Margaret sbagliò strada due volte, e tutte e due le volte,

accorgendosene, rise. Risi anch'io, e continuammo a ridere anche quando la

strada, che nel frattempo aveva preso a scendere piuttosto rapidamente,

bruscamente finì e i fari non illuminarono altro che un sentiero in mezzo agli

eucalipti che si perdeva nel buio e un pannello dal fondo giallo butterato

dalla ruggine che indicava, a relativamente poca distanza, una chiesa del XII

secolo della quale a mala pena si leggeva il nome. Non era sicura, Margaret,

perché ci era capitata di giorno e solo di sfuggita, ma le pareva proprio che il

luogo fosse quello. Ci scambiammo uno sguardo complice per poi

proseguire adagio, l'assestamento dei sassi sotto le ruote che risuonava in un

frastuono fastidioso.

La piccola baia si offrì improvvisa come una visione, appena

dopo una curva fittamente difesa dagli alberi. E davvero c'era da chiedersi

chi mai, e perché, avesse sentito il bisogno di posare quell'unico lampione

nel bel mezzo di un deserto di sabbia, eucalipti e mare, appena ordinato dal

breve tratto di selciato in ghiaia fine a ricordo del sagrato di un tempo. Fu

per via del lampione che i ruderi dell'antica chiesa ci si presentarono in una

tonalità giallognola amalgamante che a mala pena lasciava emergere dalla

penombra i dettagli, voluti, dell'architettura e quelli, non voluti ma non per

questo meno significativi, del lungo decadimento. Non so dire per quale

ragione, ma mi parve che tutta la desolante solitudine del luogo, ma anche

tutto il suo indicibile fascino, fossero riassunti nell'informe essenzialità del

cancelletto appena socchiuso che prendeva il posto del portale,

probabilmente trafugato dopo il crollo dell'edificio.

È questa, sì!”, confermò Margaret. Poi scese dall'auto e si

incamminò, senza attendermi, verso l'ingresso della chiesa.

Restai indietro, compiaciuto nell'osservarla avanzare come

assente fino al cancelletto, davanti al quale si fermò e sostò a lungo senza

aprirlo. Nella visione di lei di spalle immobile davanti al cancelletto di una

chiesa diroccata ritrovai la stanza d'albergo in cui, dodici anni addietro, ci

eravamo amati per la prima volta; ed anche lo sguardo spaesato di lei

quando, la mattina dopo, passeggiando in riva al mare, le avevo gettato

addosso all'improvviso, non preannunciate da nulla, tutte quelle parole

delicatamente false alle quali di certo non avrebbe creduto se solo io,

qualche ora indietro, svegliandola nel cuore della notte, avessi fissato per

primo quell'unica parola vera che reclamava d'esser posta e che invece

soffocai in un silenzio stupido, leggero perfino nella sua disperata

inconsistenza.

Il fatto è che dodici anni sono decisamente troppi perché abbia

senso riempire il vuoto che può esserci stato nella manciata di istanti

racchiusa tra una porta che si apre a notte fonda e una mano che ti sveglia

scompigliandoti i capelli abbandonati sul cuscino. Forse anche per questo

Margaret non mi aveva creduto quando, appunto dodici anni dopo, interruppi

la routine di un giorno qualunque ricomparendo sfacciatamente con una

lettera surreale che parlava proprio di quegli istanti di cui lei non poteva

sapere; che raccontava di come, chiusa delicatamente la porta dietro di me

per non svegliarla, nella penombra dalla quale il suo viso spuntava

contornato dal bianco delle lenzuola, mi parve di vederla davvero per la

prima volta, e di innamorarmi lì, compiutamente e definitivamente, di lei, e

insieme a lei della vita che era la mia ma che non avevo mai incontrato

prima d'ora, e che ora finalmente vedevo scorrere davanti agli occhi in tutta

l'inequivocabilità di un film il cui fondo era il viso di Margaret che dorme.

No, non poteva credermi. E così mi aveva risposto freddamente che avevo

avuto un bel coraggio a farmi vivo dopo tanto tempo e dopo che tanti

cambiamenti erano avvenuti da quando, la mattina seguente, dopo la

passeggiata sulla spiaggia, mi aveva accompagnato alla stazione con la

consapevolezza lucida e straniante che tutto quell'amore che ci aveva portato

lì, la notte prima, e che insieme avevamo cullato, gustato, vissuto, presagito,

non sarebbe valso neppure a farmi tornare un'altra volta. E io le avevo

risposto consegnandole la mia verità, confessandole di essere scappato da lei,

sì, proprio scappato, precisamente quando scoprii che da quella notte l'avrei

amata davvero e che lei mi avrebbe amato davvero, e che per questa sola,

improbabile coincidenza di fatti nulla sarebbe più stato come anche solo il

giorno prima, e poco importa che questo, in realtà, era proprio ciò che più

desiderassi e che ciò a cui invece mi aggrappai per giustificare a me stesso la

rinuncia era qualcosa la cui inconsistenza vedevo tanto chiaramente che

dovetti dirti tutte quelle parole insensate per confondere le idee anzitutto a

me stesso, perché il punto è che essere liberi non basta se non si è liberi di

esserle liberi. E lei aveva concluso che tutto questo discorrere non aveva

alcun senso, che la vita non si ferma certo davanti a un treno che non ritorna,

e che in ogni caso era stata felice, anche senza di me, e questo era tutto. Solo

quando, un giorno, le avevo finalmente e pateticamente chiesto di

incontrarci, ti prego, concedimi di rivederti, le avevo scritto, lei trovò

davvero irritante tutta quella conversazione. Per questo mi aveva risposto

secca che dovevo esser pazzo a pensare che lei avrebbe speso anche solo un

minuto del suo tempo per non si capisce neppure che cosa, e che davvero le

sfuggiva il perché di quell'improvviso, insensato desiderio di rivangare un

passato morto e sepolto. Perché è te che voglio, è te che ho sempre voluto,

come hai fatto a non capirlo?, a non capire che me ne andai proprio quando

mi fu chiaro tutto questo? Così le scrissi. Dopodiché non si era più fatta viva.

C'erano voluti mesi prima che mi chiamasse, una sera, del tutto

inaspettatamente, quando io pensavo ormai che non ci sarebbe più stata

parola fra noi. C'era voluto quell'altro racconto, quello che riempiva il vuoto

fra il saluto alla stazione e la lettera di dodici anni dopo, perché lei smettesse

di odiarmi.

Quando Margaret sentì la mia presenza dietro di sé, era chinata e

stava sfilandosi le scarpe. Aveva bisogno di sentire sotto i piedi l'umido

dell'erba e della terra, mi disse voltandosi appena e abbozzando un sorriso

impercettibilmente nervoso. Poi raccolse le scarpe e si alzò.

Entriamo”, disse. E scostò con delicatezza l'anta del cancelletto.

Entrammo accompagnati per un brevissimo tratto dalla scia

giallognola del lampione dolcemente mossa dall'erba che cresceva, bassa ma

fitta, al posto del pavimento. Camminammo in silenzio fra le mura spoglie e

grige che, nell'immobilità assoluta della notte, parevano sopravvissute al

solo, rassicurante scopo di dare un limite al cielo. Passammo di cappella in

cappella, di nicchia in nicchia, senza mai parlare, indicandoci semplicemente

con lo sguardo ora alcuni fiori secchi adagiati ai piedi di una statua, ora un

mozzicone di candela lasciato ad illuminare un tabernacolo stranamente ben

conservato, ora persino la carta sgualcita di una fotografia assicurata alla

meno peggio con una pietra a quel che resta dell'altare maggiore. Ci

fermammo davanti ad una di quelle nicchie vuote e ci lasciammo scivolare a

terra, prima lei, poi io, fino a sentire con il dorso del collo l'umido dell'erba.

E restammo così, sdraiati l'uno accanto all'altra, nel paradosso di una nicchia

aperta sul cielo, forse per ore, sempre parlando con un filo di voce, come chi

temesse di rivelare chissà quali segreti compromettenti, e in realtà

ricostruendo lettera dopo lettera, variazione dopo variazione, l'eterna

passacaglia dell'amore che nasce, o che rinasce in questo caso, il cui soggetto

è sempre così distante da ciò che di volta in volta, di epoca in epoca, affiora

alle labbra degli attori, essendo lì, immutabilmente fisso sullo sfondo, in

quell'ostinato tornare e ritornare e ritornare ancora a suggerirsi che sì, ti

amerei, se solo anche tu..., finché non si giunga a quella variazione in cui c'è

una mano che sfiora dei capelli, e a quell'altra in cui si vede la stessa mano

che ne cerca un'altra ancora, che lentamente ne esplora gli spazi fra le dita

che si concedono per poi subito stringersi in un preludio dell'abbraccio che

seguirà, e poca differenza fa che ora tutte queste variazioni si svolgano

gelosamente racchiuse in piccole mura che ricalcano quelle mura più grandi

che ci ritagliano al mondo, ché tanto sempre la passacaglia guarda

all'illusione dell'infinito, e non smette neppure quando, come ad un tratto

avvenne, sulla scia giallognola del lampione si allungò una macchia nera,

quando la macchia nera venne cautamente verso di noi, quando accese una

lampada, quando ci disse che era il custode, ma possibile che questo luogo

abbia un custode?, che era tardi, che doveva chiudere, e allora noi lo

guardammo come se avesse detto una serie di assurdità, e in effetti che senso

potrà mai avere darsi pena di chiudere il cancelletto di una chiesa che non ha

neppure più una volta?, e se non scoppiammo a ridere fu solo per non

perdere il filo di quella passacaglia che stavamo improvvisando da ore,

complice il silenzio della notte, il cielo nero di nubi che correvano veloci da

un'angolo all'altro dello schermo lasciando di quando in quanto intravedere

qualche stella, complice perfino quel personaggio grottesco che si presentava

nel bel mezzo di un sogno con una lampada e un mazzo di chiavi, e che alla

fine comunque decise di lasciarci stare dov'eravamo, insegnandoci soltanto a

scavalcare il muro in un punto ben preciso, casomai avessimo deciso di non

far mattina contemplando una volta che non c'è, e che si godessero la loro

notte, massì, guarda come sono belli, perché sono belli davvero, finché poi,

chissà come, spenta la lampada, chiuso il cancelletto, strette di nuovo le dita

delle mani in quel preludio d'abbraccio, Margaret si lasciò sfuggire una

domanda innocua, ingenua persino, e ovvia, come la cadenza che ad un tratto

giunge ad interrompere il fiorire altrimenti pericolosamente infinito delle

variazioni.

Sei felice?”

Felice? Non lo so. Però ora, se non altro, credo di capire cos'è

esser felici.”

Non avrei mai creduto, sai?”

Cosa?”

Che ci saremmo ritrovati, un giorno. Che mi avresti cercata,

dopo tutto il tempo che è passato. Io non l'avrei mai fatto.”

Perdonami.”

Perdonarti... Non so più neanche per cosa. Ti ho odiato, sai?”

Ne hai tutte le ragioni. Io invece, senza rendermene conto, ti ho

sempre amata.”

Lauro, non giocare con le parole. Il significato è tutto.”

So bene che quel che dico è al limite del comico dopo tutto il

tempo che è passato, ma davvero la mia fuga da te è miseramente fallita nel

momento stesso in cui la perpetrai. So anche che è difficile da credere, ma è

proprio così: sono riuscito a liberarmi di te, ma non dell'amore che ormai

provavo per te. Del resto, pensaci, che cosa può portare una persona a

ricomparire dopo tanto tempo, ben sapendo peraltro che non avrebbe certo

potuto sperare di trovare una porta aperta? E poi, vedi, per mentire ci vuole

una ragione. Che io non ho.”

Per mentire ci vuole l'intenzione, per dire il falso basta credere

in quel che non esiste, basta un momentaneo bisogno di credere in qualcosa.

E poi c'è una cosa che non sai: io questa sera volevo vendicarmi. Per questo

ti ho fatto venire fin qui. Volevo farti credere che ci fosse qualche speranza,

magari anche giocare un po' con te come credevo tu avessi fatto con me, per

poi... Per poi non so. Non potevo immaginare.”

Ricordi cosa ci siamo detti il giorno stesso in cui ci siamo

conosciuti?”

Ci siamo detti tante cose.”

Ci siamo detti una cosa soltanto.”

La zattera in mezzo al mare.”

Te ne ricordi ancora.”

Ricordo tutto, Lauro.”

Tranne di quella notte che ci siamo rivisti, l'autunno dopo. Tu

stavi già con quel tale.”

E tu con quell'altra. No, te l'ho detto: non ricordavo nulla di

quella notte. Forse perché per me non c'è mai stata... L'amore è la burrasca

che ti sorprende intanto che sopravvivi su di una zattera in mezzo al mare.

Così dicevi allora.”

Sì. E proseguimmo più o meno così: l'amore non è mai una

meta, è sempre un punto da cui occorre partire. Ricordi? Dall'amore non si

può che partire. Partire o affondare. Partire senza sapere dove ci si troverà il

giorno dopo e quello dopo ancora.”

E io che volevo proprio solo partire, non vedevo l'ora. Di

perdermi, prima che la vita mi riacciuffasse. Volevo partire con te. E invece

mi trovai a partire, sì, ma sola. Ma ti rendi conto? Ci eravamo appena

incontrati.”

Come adesso.”

Sì, come adesso. Solo che...”

Solo che l'umido che sento sulle labbra mi dice che Margaret è

qui, finalmente. Dio, quanto ci hai messo? Apro le braccia e lei vi si lascia

andare come cadendo in mare da uno scoglio altissimo. Non ci diciamo

nulla; non abbiamo altro da dirci che non sia quest'abbraccio. Poco più in là,

Willy non ansima più. Si è fermato, gli occhi lavati dall'angoscia di poco

prima, ché per lui il mondo intero è ora nel suo ordine perfetto, con noi due

abbracciati nell'abbraccio dello sguardo di lui. Stasera però non cerca di

infilarsi fra noi spingendo insistentemente col muso, né ci salta intorno

finché non raccogliamo il riccio di peluche che stringe in bocca. Siamo

diventati grandi amici, lui ed io. E dire che fu davvero bravo a mascherare la

gelosia da indifferenza quando ci venne stancamente incontro, quella notte di

otto mesi fa. O meglio quella mattina, ché quando arrivammo qui, a casa di

lei, i vestiti erano intrisi dell'odore dell'erba che era il pavimento della chiesa

diroccata, e una fessura di cielo di un blu appena più chiaro suggeriva che la

notte stava svanendo. E suggeriva anche che il mattino ci avrebbe sorpreso

insieme, nudi e distratti in noi stessi, negli occhi nient'altro che

l'incomunicabile meraviglia per quella zattera sperduta in mezzo al mare

sulla quale avevamo finito chissà come per ritrovarci, piccolo il mare, al

fondo di una notte durata dodici anni, senza neanche sapere come, né tanto

meno dove andare, ma tuttavia felici di andare ovunque la corrente e il

debole remare delle nostre volontà ci avrebbero portato. Prima però che tutto

questo avvenisse, lei si chinò e strinse affettuosamente Willy a sé.

Willy, questo è Lauro. È stato tanto cattivo con me, sai? Ma io

gli voglio un bene dell'anima.”

Willy non si mosse. Come non si muove ora che, dal modo in cui

ci fissa, sembra volerci far capire che il primo di noi che scioglierà

l'abbraccio che ora siamo porterà in sé la colpa definitiva della distruzione,

che solo ora siamo davvero al sicuro, ora che a parlare è soltanto il calore

consistente del corpo, che semplicemente cerca il calore di un altro corpo

oppure lo respinge, e basta, senza bisogno di tutte quelle ragioni che

confondono, distanziano, raffreddano il calore. E difatti restiamo qui, fermi,

stretti, zitti, rigidi, a guardare lo sguardo di Willy. Willy che la valigia l'ha

sentita ben prima che fosse pronta. Che forse l'aveva sentita già quella notte,

e allora magari l'indifferenza un po' troppo ostentata che a me era parsa

mascherare la gelosia era in realtà il distacco ricercato di chi vorrebbe non

affezionarsi a una presenza che sa irrimediabilmente transitoria. Poi ad un

tratto abbassa gli occhi e va verso l'auto. Le gira intorno cercando col naso di

penetrarne la verità e torna verso di noi, gli occhi però di nuovo carichi di

quell'angoscia che ora neppure la vista di noi ancora abbracciati riesce a

dissipare. È lui, Willy, nella frazione infinitesima di uno sguardo, a dirmi che

la valigia c'è sempre stata, che l'ha sentita crescere nelle lunghe sere passate

tutti insieme sotto l'ippocastano in compagnia di una candela, nelle notti

ancora più lunghe in cui pareva l'amore non dovesse conoscere fine, nelle

cene preparate insieme a partire da interminabili carezze, nelle frequenti

fughe dello sguardo oltre la linea degli alberi, nell'entusiasmo vivace dei

discorsi su di un futuro del quale però ultimamente era diventato

imbarazzante parlare, nelle telefonate nel cuore della notte un po' troppo

furtive per passare inosservate e delle quali tuttavia non si faceva mai

menzione, nelle promesse di Margaret che presto tutto si sarebbe sistemato,

nella consapevolezza che per chi non è nato cane dodici anni non bastano a

perdersi come otto mesi non bastano a trovarsi, perché nulla è più labile del

sentimento più forte.

Ma allora mi spieghi perché siamo qui, se perfino una valigia è

più forte di noi?”

Ci sono domande che sintetizzano tutto il non senso di una vita.

Soprattutto se a porle sono un uomo e donna abbracciati davanti a un cane e

se quell'uomo e quella donna, cosa che ancora non sanno, da lì a poco

capiteranno di nuovo a far l'amore, esattamente come avvenne una notte di

otto mesi prima, che seguiva un'altra notte di dodici anni prima, quando

sempre, nell'un caso come nell'altro, era dovuta intervenire l'alba a ricordare

loro che per dirsi una sola parola, che poi peraltro non seppero mai dirsi,

basta la lucida serenità di un attimo soltanto. E meno male che avremmo

dovuto ridere, stasera. Così mi hai detto al telefono, poco fa, mentre correvo

per raggiungerti dopo quella telefonata agghiacciante. Sì, come ne La

grande abbuffata, stavo per risponderti; e invece non ti ho detto nulla, se non

che avevo mollato tutto per raggiungerti al più presto e che avrei mollato

tutto per seguirti in capo al mondo, perché dodici anni fa ero maledettamente

lucido mentre salivo su quel treno rinunciando a te per la promessa di una

vita che poi finì in un cumulo di macerie, ed ora sono altrettanto lucido

mentre ti dico che non ho paura di rinunciare a tutto per darci la possibilità di

essere ciò che vogliamo e possiamo essere. E ciò che fa più male è che

queste stesse cose potresti dirle tu a me, anzi me le hai dette davvero tanto

tempo fa, perché io in verità le ho imparate da te, che ora invece sei stata a

guardare mentre venivano divorate da quello stesso silenzio stupido, leggero

persino nella sua desolante inconsistenza, e così laddove c'eravamo noi due

insieme su di una zattera in mezzo al mare, ora resta la muta disperazione di

noi due che ci teniamo per mano fra le sbarre del cancelletto di una chiesa

diroccata, guardando ciascuno oltre le spalle dell'altro. No, nelle ore di bilico

non c'è davvero spazio per ridere, salvo non si riesca a raggiungere quello

stato di assoluta beatitudine che è il ridere di se stessi. E quindi sì, la

domanda è proprio questa: ma allora che accidenti ci facciamo qui, che

bisogno avevamo di dirci e di fare e di essere tutte quelle cose se poi la verità

è che basta una insignificante valigia a far crollare il mondo?

Perché devi sempre cercare una ragione a tutto?”. La risposta di

Margaret, più che nelle parole, è nel filo appena percettibile di fastidio di cui

si colora la sua voce.

Perché senza una ragione anche le cose più belle possono

codurre alla disperazione.”

Lauro, io sono già disperata.”

Il resto, le parole che vengono dopo, sono un arrampicarsi sugli

specchi dell'anima, un fare con la punta delle dita tutto l'opposto di quel che

le parole, con uno sforzo sovrumano, negano.

Racconti creati dagli allievi del VI Stage “Teatro al Castello”- Ass. “Art&Vita”, Castello di Govone, 11 luglio – 1 agosto 2010- Sezione di Tecniche di scrittura narrativa e scenica- Docenti: Giovanna Mulas, Alberto Asero, Lorenzo Rulfo -  ( I parte )


 

Camillo Sbarbaro

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire – all’uno, e all’altro vai
rassegnata –
Ascolto e non mi giunge una tua voce.
Non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di rivolta
e neppure di tedio […]
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

in: Pianissimo


 


"C'è solo un modo di dimenticare il tempo: impiegarlo."

Charles Baudelaire

Da Emergency sez. di Serrenti riceviamo e , con piacere, pubblichiamo:

La pace costruita con le armi e quella costruita con l’eguaglianza…

Il Sudan finanzierà la costruzione di un ospedale d'eccellenza in Ciad, Emergency si occuperà della sua costruzione, dell'equipaggiamento e della sua gestione. L'annuncio del Consigliere del presidente del Sudan Ahmed Bilal Osman è avvenuto durante la giornata conclusiva del seminario internazionale "Costruire medicina in Africa. Strategia di realizzazione della Rete sanitaria d'eccellenza" organizzato da Emergency in collaborazione con il Comune di Venezia. Sudan e Ciad, paesi che sono stati in conflitto tra loro, hanno trovato una ragione di collaborazione in un progetto sanitario che vuole garantire accesso a cure gratuite e di alta qualità anche agli abitanti dell'Africa.

Il gesto di pace ha riavvicinato due Paesi in guerra tra loro fino a pochi anni fa. Un altro ospedale verrà donato al Sudan del Sud, nonostante i timori circa lo scoppio di un nuovo conflitto tra le due parti siano piuttosto fondati. Una strada percorribile che ha suscitato l'interesse dell'Organizzazione mondiale della Sanità, che ieri ha inviato due rappresentanti per seguire i lavori.

ll ministro della Difesa in Senato: "Le bombe sugli aerei non servono a proteggere i nostri soldati, ma a non far sentire i nostri militari di serie B rispetto agli alleati". E annuncia che la decisione non verrà sottoposta a votazione parlamentare.

Evidentemente EMERGENCY pensa e attua il suo pensiero in maniera diametralmente opposta a quello proposto da Ignazio La Russa, anche perché, parafrasando il Presidente Cecilia Strada, se venisse  a visitare i nostri ospedali per vittime di guerra, primo fra tutti l’ospedale di Lashkargah, nel sud dell’Afganistan non riuscirebbe a vedere la differenza tra il bambino nel letto 4, colpito da un ordigno dei talebani, e quello nel letto 7, colpito da una bomba occidentale.

Fonte: peacereporter e illazioni di alcuni governanti

Giuseppe Romano, Italia

MARIANNA

La mosca che traccia traiettorie improvvise e senza un senso

apparente m’infastidisce e rende pesante anche l’aria che respiro! Il caldo

non dà tregua. Tutto appare immobile come se il tempo indugiasse

all’interno di questa bottega. Da parecchio non entra più nessuno e le cose

giacciono ammassate, come corpi abbandonati in un sonno perenne!

Sono seduto dietro un bancone di polvere e tarli, in attesa che la

porta a vetri si apra per chissà quale fausta circostanza. Già, Fausto. Come il

mio nome che conta solo tre insignificanti vocali ed altrettante consonanti.

Fausto, nome alquanto inappropriato! Ricordo mio padre ripetere

spesso, forse anche per illudere se stesso, di avere avuto un figlio nato sotto

la buona stella! Invece, prima è morto lui, colpito al fronte da una granata;

poi mia madre, forse di crepacuore, o per i postumi della tubercolosi.

Appoggio la testa al muro e accarezzo la barba incolta da giorni;

vaghi presentimenti aleggiano intorno. Mi sento stanco, un senso di vuoto

appiattisce i pensieri, anche se Marianna mi guarda e m’ammonisce.

« Muoviti, sbrigati, non stare con le mani conserte! ».

Sì, d’accordo! Hai ragione tu. Devo muovermi e fare qualcosa

per uscire da questo torpore.

Guardo e riguardo questi relitti ammucchiati. Mi pare roba

amorfa che tento di riportare in vita. Del resto sono un rigattiere! Una vita a

comprare e vendere cianfrusaglie, oggetti più o meno di valore, utili in

passato e, chissà, magari lo saranno ancora.

« Domani ricordati di andare a saldare il conto dal macellaio ».

Marianna continua a fissarmi con i suoi occhi azzurro intenso.

Marianna mia, mica sono uno stolto. Non dimentico gli impegni!

Marianna, fedele ed instancabile compagna! Mi ha sempre

seguito, consigliato, rimbrottato sovente, ma mai uno sgarbo, o un dispetto.

Ha ragione lei. Devo onorare i conti in sospeso, ovviamente. Ma

almeno entrasse un cliente! Mi basterebbe che lo colpisse quella sedia

rococò, oppure quello scrittoio luigi XIV. Ecco fatto: quattro, cinquecento

euro e l’impegno con il macellaio sarebbe assolto! Peccato che ne ho altri da

onorare!

« Voli con la fantasia! Resta con i piedi per terra! »

Caspita, come mugugna in continuazione questa qui!

Intanto l’aria si fa più pesante, il sole picchia. Con questo caldo

ne ho di tempo da aspettare. Forse se mettessi un po’ d’ordine, qualche

passante potrebbe trovarsi attratto dalla mia piccola vetrina. Mi guardo

intorno. L’occhio cade su un’intricata ragnatela all’angolo del tetto. È la

prima volta che la noto, eppure ha tutta l’aria di essere lì da un pezzo. Come

non fosse una vita che dico a Marianna di fare le pulizie come Dio comanda!

Mi scosto dal muro infastidito e comincio a spostare piccoli oggetti alla

rinfusa. Il vecchio libro che a un tratto mi trovo in mano cattura la mia

attenzione. Dallo spesso strato di polvere che reca ho conferma del fatto che

non viene aperto da molti anni; e in effetti non ricordo di averlo mai

sfogliato io stesso. Forse per via del caldo sempre più intenso, la mia mente

scivola in pensieri contorti, dei quali fatico a cogliere il senso. La rilegatura è

di quelle d’una volta, rigorosamente a mano. Sul frontespizio, in grandi

caratteri dorati, si legge: Famiglie nobili di Govone.

« Muoviti. Lavora sfaticato! »

Uffa, non ne posso più. Marianna comincia davvero a

innervosirmi. Mi alzo e mi fermo davanti a una specchiera chiazzata di

ruggine. Comincio a sfogliare le prime pagine. Quando alzo gli occhi, lo

specchio mi restituisce un’immagine di me deformata. Mi vedo invecchiato,

gli occhi incavati nelle orbite e le mani che trasudano un groviglio di vene e

arterie. Nel riflesso dello specchio vedo un uomo che arranca e si trascina in

una grama vita, dove la compagnia di Marianna rimane la cosa più

importante. Sempre presente, accorta ed oculata, lei mi arricchisce e mi

segue come un’ombra.

Ora la luce è più intensa, invade la bottega e dona di insoliti

riflessi gli oggetti dimenticati al ricordo degli uomini. Appaiono

improvvisamente vivi e si muovono venendomi addosso. Comincio ad avere

paura. Lascio correre lo sguardo al di là del vetro, percorrendo la via ripida

fino che porta al castello. Mi soffermo a immaginarlo luogo di oscure

vicende e fantastiche storie. Fin da giovane amavo giocare nei suoi giardini

con i compagni di scuola; fra loro c’era la mia amata Marianna. Fu lì che le

diedi il primo bacio, forse il gioco inconsapevole di un amore puerile,

maturato col tempo in un sentimento forte, cementato dall’amicizia e dalla

complicità.

« Ti ricordi quando ti sei perso nei sotterranei? »

Marianna, certo che mi ricordo. Fu l’avventura più spaventosa

della mia infanzia. Il buio m’avvolgeva, lontane giungevano le vostre voci,

col freddo che mi era entrato nelle ossa e anche nell’anima. Mani invisibili

mi sfioravano il corpo.

« Tremavi come una foglia, quando ti ho trovato riverso nella

ghiaia ».

Ancora oggi, costeggiando il castello mi capita di sentire come

un invito. È come se una presenza aleggiasse fra quelle mura.

Improvvisamente uno scricchiolio mi distoglie da quei pensieri. Mi volto di

scatto e vedo una sedia di noce antico riversa sul pavimento. Saranno stati i

topi, maledetti, a rosicchiare tutto quel legno! Forse.

Se non vendo questa roba accatastata i topi me la porteranno via!

Marianna, dovrebbe esserci una trappola nel retrobottega. Vedi

di sistemarla, altrimenti…

« Qua ce ne vogliono mille, non una mio caro Fausto! ».

Vado per rimettere a posto quella sedia e poi ritorno a sfogliare il

vecchio libro. Inumidisco pagine ingiallite, dai bordi consumati. Quanti

nobili a Govone, ciascuno con le sue storie ed i suoi emblemi. In lontananza,

intanto, un riflesso dorato attraversa impetuoso il vetro della porta

infrangendosi sul viso. Maledizione! Penso. C’è uno strano silenzio che

risalta il lento scorrere dei pensieri.

Riprendo la lettura. Un dolore improvviso alla tempia mi desta

dal torpore. Strizzo gli occhi e casualmente mi soffermo sull’immagine

illustrata tra tante pagine ingiallite. Un medaglione d’oro ritrae in un lato

geometriche figure, una scritta latina nell’altro. Un sinuoso vagheggiare tra i

miei ricordi serpeggia come un tarlo che lentamente scava lunghe caverne

nelle viscere.

Marianna, aiutami a ricordare!

« Come faccio, mio caro? Sei tu l’esperto di questi oggetti ».

Già, scusami.

Eppure giuro d’averlo visto, forse fra le tante cianfrusaglie degli

scaffali, accatastate negli anfratti dimenticati di questa bettola.

Mi alzo nervosamente. Mi dirigo in fondo alla stanza e cerco,

rovisto tra la roba più disparata, tra cappelli militari, casseruole di rame,

coltelli dalle diverse misure, manichini, vestiti, maschere, candelabri e lumi a

petrolio. Poi ancora a rovistare come un forsennato, più cerco e più la

camicia è intrisa di sudore. Infine rinvengo un cesello, una bilancia di

precisione, un misuratore di anelli. Si. Ecco ci sono, forse fra questi

strumenti si trova il medaglione che ho visto illustrato nel libro. Se penso

bene, quell’oggetto l’ho avuto fra le mani tanto tempo fa, ma non ricordo

con precisione dove e quando. Continuo a rovistare, ancora di più, sembro

un pazzo scatenato e gli occhi sono diventati di fuoco. Mille oggetti sparsi

per terra. Uno scarabeo fugge via spaventato. Ahhhh, eccoti finalmente. Eri

proprio introvabile!

« Lo avevo detto che solo tu potevi trovarlo! ». Mia cara,

sempre a dare sentenze!

Lo prendo con delicatezza, tolgo con cura la polvere, lo rivolto

per carpirne i segreti. È incantevole! Chissà quanto vale, forse una fortuna,

forse. Rifletto. Inspiegabili aliti di vento soffiano nella bottega. Al diavolo

tutti i creditori dietro la mia porta! Il barone, Franco il macellaio, il dottor

Mencacci e Giulietta Orsini, quell’acida e antipatica vecchia della farmacia

Orsini e figli. Antica erboristeria”. Sbatterei loro in faccia le cambiali

accumulate nel tempo!

Ritorno sul libro e scruto avidamente l’immagine riportata. Sto

un tempo imprecisato a soppesare le due cose, col respiro che si fa lieve,

risaltando lo scorrere del sangue sulle tempie accaldate. Si, è quella del

medaglione, non ci sono dubbi: è questa! Stessa scritta, stesse figure: la stella

di Davide racchiude una piramide; la scritta invece riporta “Cum fide igne et

ferro regnum meum inicio in perpetuum. Non ho mai studiato il latino. Tutto

combacia perfettamente! Stavo ancora immerso nell’esame del pendente

d’oro, quando un lampo improvviso, una coltellata agli occhi, mi colpisce in

pieno viso. Proviene dal castello e stavolta una strana sensazione mi dice che

non si tratta di un caso. Continuo, comunque, a leggere con interesse ciò che

poco dopo mi accappona la pelle.

Il nobile casato degli Arbaudi conta fra i suoi illustri membri

una certa donna Lucia, vissuta alla fine del ‘700 e circondata da un alone di

mistero”.

La lettura si fa più attenta.

Donna Lucia amava circondarsi di maghi e stregoni,

fattucchiere e sette sataniche”.

Cavolo d’un boia!

Le dicerie, col tempo, si trasformarono in leggenda e si dice,

allora, che la sua anima vaghi per il castello a protezione dei suoi segreti e

del tesoro nascosto nelle viscere della fortezza. Quel medaglione,

sapientemente lavorato da un grande orafo romano di quel tempo, il

Sinisgalli, si crede sia la chiave di volta per accedere al tesoro e

scoperchiare lo scrigno dei segreti più impenetrabili della contessa”.

Sono sconvolto, sudato. Mi alzo di scatto, afferro una brocca

d’acqua e verso metà del contenuto sulla testa. Strizzo gli occhi e getto lo

sguardo al castello. Un altro bagliore m’investe. Che sarà mai questa storia?

Rimango un po’ a fissare il vuoto, scalando le rocce della memoria. Dopo un

po’ mi torna in mente una vecchia leggenda che nessuno ha avuto mai il

coraggio di sfatare. Da tempo immemorabile nessuno è sceso nelle viscere

del castello, abbandonato alla fine della guerra. I tedeschi ne avevano fatto il

loro quartier generale; poi la fuga, l’arrivo degli alleati e, infine,

l’abbandono, il degrado, l’oblio. Per anni quella leggenda era seppellita tra le

crepe dei ricordi. Anche tu Marianna, la ricordavi? Rivolgo lo sguardo al

medaglione, luccica ed evoca nella mente storie fantastiche. Mi rituffo nella

pagina del libro e cerco altri indizi. Solo altre storie, banali e scontate, nulla

che desti la mia attenzione. Stranamente percepisco un fluido che mi

percorre le ossa. All’unisono gli orologi a pendolo suonano lo scoccare

dell’ora. Le cinque del pomeriggio. Non ho mangiato, lo stomaco si ribella,

il sudore mi affligge, mentre la gente passa senza mai degnare uno sguardo

alla bottega, del rigattiere Fausto. Mia moglie è di là, sempre nel

retrobottega, nella penombra, a non darsi pace per la miseria che ci affligge.

Che santa donna sei, dolce Marianna! Io non merito le tue attenzioni, tu non

meriti un marito mediocre come me, incapace di darti un’esistenza dignitosa!

Era incinta. L’avremmo chiamato Michele, come mio padre! Poi,

quel giorno ritornai da un viaggio in città, due giorni appena, e la ritrovai a

letto; piangeva, sporca di sangue. Michele non c’era più!

« Margherita! Come la regina. Era femmina! ». Sarebbe stato

maschio! Non insistere mia cara.

Mi siedo e tengo stretto il medaglione d’oro. Di fronte a me,

oltre la vetrata, domina il castello dall’alto della collina. Rimango a fissare

l’antica fortezza, quasi a cogliere un segnale premonitore. La lancetta corre,

risparmiandomi l’estenuante attesa.

Quando apro gli occhi il buio è padrone e la fioca luce dei

lampioni rischiara di poco l’interno della bottega. Avverto qualcuno spiarmi

nell’oscurità della notte. Mi sento intontito e l’arsura provoca un intenso

solletico alla gola, quando un’inaspettata folata di vento apre la porta del

negozio. Mi precipito a chiuderla. Tornando indietro, però, mi accorgo che

il vecchio testo non è più sul bancone. Lo cerco con lo sguardo, frenetico;

poi lo vedo nello scaffale dove era sempre stato. Non ricordo d’averlo

posato, era lì ancora aperto, quando mi sono appisolato. Non soffro di

allucinazioni, non sono pazzo; forse è la fame, può darsi!

Nelle mani il medaglione scotta. Un fremito affiora dai polmoni

e l’ansietà annega i miei pensieri. Allora decido, non posso più aspettare e

consumarmi nell’indecisione; il castello mi aspetta, forse da una vita, da

tanto e troppo tempo, fin da quando mi ero perso da fanciullo nei suoi più

inaccessibili meandri.

« Stai attento, non cacciarti nei guai ». Marianna so quello che

faccio. Voglio vincere le mie paure e ritornare in quei luoghi per scoprire

quel tesoro che potrebbe cambiare la nostra vita!

Suona il campanile: ventitré in punto. Prima di chiudere bottega

saluto mia moglie, che mi osserva ansiosa. Le mando un bacio e le dono un

sorriso rassicurante.

Intraprendo la faticosa salita su per la collina. Il cielo è stellato,

le ombre della notte inghiottono anche le mie paure; dinnanzi il castello

s’avvicina lentamente. Ne distinguo i contorni, riconosco i torrioni, il corpo

centrale. Le sue ali, come due navate, sprofondano nel ventre della terra. Il

giardino è un nugolo di braccia ramificate protendersi verso me. Tentano di

afferrarmi. Al centro un’enorme quercia m’invita ad addentrarmi senza

esitazioni. Mi fermo lì, col cuore che pulsa in gola, col respiro sempre più

asmatico. Il medaglione è in tasca. Alzo gli occhi e osservo l’imponenza

della struttura e avverto un senso di dolce abbandono a se stesso. Qua e là

rumori di allocchi, pipistrelli, insetti, voraci zanzare, un mondo che di giorno

è difficile osservare. Un alone di presenze aleggia intorno.

Sento la terra fremere sotto i piedi, impaziente di accogliermi

nella sua pancia. Accetto l’invito e riprendo il cammino. Strane esistenze

attorno a me, ma non riesco a distinguerne nel buio la consistenza.

Cammino, fino ad arrivare ai piedi dell’edificio, davanti a una finestra

senz’ante, priva di vetri, dove giungeva un puzzo nauseabondo. Scavalco

come allora, ma con più fatica, quanto basta per accedervi dentro. Ecco, sono

all’interno di una grande sala, spoglia, priva di qualsiasi identità, forse teatro

di antichi fasti; il luogo appare immensamente grande, disadorno, la

sensazione però è che occhi invisibili mi osservano nell’incerto procedere.

Cammino a tentoni, sforzando la memoria, aiutato da una vecchia torcia.

Attraverso un lungo corridoio, ai lati del quale si diramano molteplici stanze,

tutte vuote, al buio, esposte al vento, tra grovigli di ragnatele ed insetti.

Stridono le scarpe su vetro in frantumi e inciampo in mattoni sollevati da

terra. Un gatto mi sfiora, veloce, spaventato; subito dopo un sollevarsi di

miagolii e mille altri rumori che non riesco a decifrare. Un alito di vento

come un sussurro mi sfiora il collo. Mi volto di scatto, vedo un luccichio in

fondo ad una stanza. Con gli occhi seguo la sua scia, prima ancora di

seguirla con il corpo; la vedo scomparire verso il basso. Mi addentro in quel

luogo e percepisco il velluto delle pareti, dalla tinta forte. Una sedia

trasandata si frappone al mio passaggio. Il tremore delle mani non

m’impedisce di andare avanti, allora cammino e giungo fin dove quel

luccichio è svanito. C’è una scala a chiocciola, un imbuto di pece, che

scende in basso, dove proviene una ventata di forti odori. Con la torcia

illumino le strette pedate della scala, con circospezione m’inabisso verso il

buio ancora più fitto e lentamente intuisco d’avere imboccato il percorso

giusto per giungere nei sotterranei. La lunga discesa è interminabile, forse

due, o tre piani sotto; ma più scendo, maggiore è la sensazione di umido, il

freddo che penetra le ossa. Investo ragnatele che al passaggio si sfilacciano

sul viso. Inciampo sull’ultimo gradino, quasi a cadere a terra. Una fitta

dolorosa alla caviglia. Mi ritrovo in un angusto atrio, odore di urina irrita le

narici. Antiche torce spente, fissate alle pareti, scoprono un altro passaggio.

Ancora un rumore misterioso richiama la mia attenzione; a destra scopro una

grande porta di legno, due leoni di pietra sono a guardia dell’apertura e varie

incisioni sono poste a decoro della stessa. I contorni del posto sono

indefiniti. Noto una scritta all’interno di un rilievo sul legno, parole che

avevo visto da qualche parte. Con frenesia estraggo il medaglione e

confronto le incisioni: sono uguali. Ci sono! ho intrapreso la via che mi porta

a chissà quali segreti, chissà quale tesoro! Mariannina mia, vedrai che

stavolta non ti deluderò!

Appoggio il pendente sulla scritta e tutto combacia. D’incanto la

porta si apre stridendo sui cardini, stridendo forse anche nell’anima. Una

sensazione indicibile m’attraversa il corpo come mille aghi infilzati sulla

pelle! Con la mano allontano le numerose ragnatele e mi ritrovo in una

grande stanza, buia, senza aperture, muri spessi e umidi. Lacrime di rugiada

gocciolano dal tetto fino al pavimento, la brina scivola via dalle pareti, quasi

volesse baciarne le levigate superfici. Mi sento dentro un enorme sarcofago,

imprigionato e prigioniero di chissà quale maleficio; tutto è così fitto che

anche il buio appare come un lembo dipinto su una tela invisibile e amorfa.

A malapena la torcia rischiara l’ambiente e così un fascio di luce scopre una

struttura simile ad un monumento funebre, un’antica tomba, luogo in cui i

nobili amavano deporre i loro morti e compiangerli lontano dal popolo.

La sepoltura è posta al centro, circondata da sette cani alati e

altrettanti esseri immondi, putti spaventosamente storpiati e in pose

aggressive. Mi sento le braccia pesanti, la schiena infilzata da infinite lame, i

piedi fondersi col pavimento, la testa assumere sinuose protuberanze, quasi

fossi una palla di creta da plasmare. Fatico a percepire lo spazio, a

distinguere il labile confine fra me e l’ambiente. Affogante! A fatica mi

chino, rischiarando una scritta incisa su marmo: Lucia Arbaudi delle Grazie-

1768/1798. In basso un’altra scritta riporta: Cum fide igne et ferro regnum

meum inicio in perpetuum. Sempre quella. Non so cosa vuol dire!

A quel punto il corpo appare un’accozzaglia di organi a sé stanti,

uniti appena da una logica impenetrabile. Il tremore si fa più intenso, la

paura m’annebbia le idee. Improvviso si elevano voci echeggianti nella

grancassa della stanza e tonfi dal cupo presagio scuotono il pavimento.

Folate di vento mi travolgono come colpi di mazza, improvvisi bagliori

simili a saette illuminano il locale. Ora non so più cosa fare, la presenza di

entità tenebrose è palesa e minacciosa.

Mi sento toccare da mani infinite, sfiorato da aliti freddi come il ghiaccio,

accarezzato da spine d’acciaio e unghie affilate come artigli. Provo a

rimettere il medaglione in tasca, preservarlo alla furia di forze occulte; ma

una mano invisibile, fredda come il gelo e calda come una fornace, mi

blocca il braccio pietrificandolo. Allora il corpo comincia a indurirsi, poi a

creparsi in mille anfratti, infine a sfiorire della sua linfa vitale. Sento

lentamente perdere coscienza, entrare nel torpore dell’eclissi. Morire. Solo il

pensiero di Marianna combatte questo stato fisico, lei mi torna alla mente e

alimenta la fiammella della vita.

Ti avessi ascoltato! Per che cosa avrei dovuto cercare il tesoro?

Per soldi, avidità, sete di potere? O solamente per dimostrarti che non sono

un incapace? Che sciocco!

Ho paura, non so come salvarmi.

Cade una lacrima, allora, fino a toccare la mano che trattiene

forte il medaglione. È colma di disperazione e angoscia. Avverto le dita

muoversi lentamente, di quel tanto che lasciano cadere giù il pendente d’oro.

Come un vortice infernale sento un tonfo più forte di prima, un risucchio nel

terreno quasi a lambirmi, una spirale di suoni e sensazioni che convergono

all’interno del sepolcro, risucchiando il medaglione d’oro, per poi, alla fine,

richiudersi ermeticamente. Dopo il silenzio assoluto. Di colpo mi sento

libero di riaffiorare dal bordo di un precipizio, per riabbracciare la mia

Marianna, riassaporare la grama vita di sempre, lontano da illusioni, inganni

e apparenze.

Scappo. Fuggo via lontano dal castello, lontano dalla stoltezza

che si era presa gioco di me. Con passo svelto quel luogo è sempre più

distante, rimpicciolisce alle mie spalle. Non mi giro neanche a guardarlo.

Avvolto da presenze ombrose, nei miei occhi è dipinto il terrore della morte!

Ora sono qui, davanti a te Mariannina mia, nella pace di questo retrobottega.

La tua immagine è sempre stata uguale negli anni, intimamente umile ed

accorata, saggia e ribelle. La mia vita non avrebbe senso senza te, anche

dopo la lunga malattia che ti ha portato via, gettandomi nella solitudine.

Sono sempre stato un debole, mentre tu sei il faro che mi conduci

tra i flutti. Ma questa notte no. Ho avuto coraggio e ho sconfitto i miei

fantasmi!

Continuerai a guidarmi da lassù cara Marianna, anche se non ho

un tesoro da donarti. Ma sì, al diavolo ori e ricchezze!

Buona notte dolcezza mia.

« Buona notte, Faustino! ».

Racconti creati dagli allievi del VI Stage “Teatro al Castello”- Ass. “Art&Vita”, Castello di Govone, 11 luglio – 1 agosto 2010- Sezione di Tecniche di scrittura narrativa e scenica- Docenti: Giovanna Mulas, Alberto Asero, Lorenzo Rulfo -  ( I parte )


 

Rodolfo Alonso

Buenos Aires, Argentina – 1934


 

Per vivere qui

io parlo dell'amore

una cosa possibile

del tuo amore del mio amore

per strada

nel vento

nel mondo

dentro la parola

  Versione di Carlos Sánchez

Attilio Bertolucci

San Lazzaro, Parma, Italia - 1911 – 2000

La neve


 

Come pesa la neve su questi rami
come pesano gli anni sulle spalle che ami.
L'inverno è la stagione più cara:
nelle sue luci mi sei venuta incontro
da un sonno pomeridiano, un'amara
ciocca di capelli sugli occhi.
Gli anni de gioventù sono anni lontani.

Sandro Penna

Perugia, Italia - 1906 –1977

Poeta esclusivo d'amore"
m'hanno chiamato. E forse era vero.
Ma il vento qui sull'erba ed i rumori
della città lontana
non sono anch'essi amore?
Sotto nuvole calde
non sono ancora i suoni
di un amore che arde
e più non si allontana?

Lidia Maggioli, Italia

DIVO SECUNDO

Ormai ho deciso, riparto subito, anche se sarebbe piacevole

restare qui tre, quattro giorni, in ufficio c’è chi può sostituirmi. Sono io che

non mi sostituisco, io in vacanza non vado mai, non mi rilasso mai, ho un

nodo. Evidentemente ce l’ho, ieri ho anche pianto. Proprio davanti ai

corsisti.

Vedi di non dare spettacolo.

Qua non conosco un’anima che sia una. Per fortuna ha telefonato

Sara. SMS di esultanza alle undici e zero cinque. L’ultima battuta della

partita io me l’ero addirittura persa. Ho rinunciato a seguire dopo due tempi

perfettamente inutili. Due tempi, due palle. Tutti a sbracarsi e a urlare. Per

chi? Olanda o Spagna? Ve ne viene qualcosa? Lei a Barcellona è vissuta per

tre mesi in una casa occupata. Striscione: aqui se ocùpa, non so se sia

catalano o cosa. La madre disperata. Dalle mie parti hanno una palazzina di

quattro appartamenti e la cascina della nonna con l’orto e il pozzo all’aperto.

Duemila metri intorno, prima periferia, ci puoi tirare su un condominio. Casa

occupata! Cinque idealisti visionari. Chissà come facevano a lavarsi. Se si

lavavano.

Sara ha due occhi che sono uno spettacolo, anch’io alla sua età.

Potrebbe trovare chi vuole, un compagno come si deve, se non si sposa non

fa niente, tutti convivono. Aqui se convive, se vive con. Se vive senza, tutti

si lasciano. Non c’è scampo. Lei li lascia per definizione, non sono mai

all’altezza, e ogni volta giuramento solenne: degli uomini non voglio più

saperne, ho già dato. Cosa hai dato? Cosa hai preso? Cosa hai perso?

Stamattina c’è foschia. Solo quei cani di pietra - molossi mi

verrebbe da dire, forse per la parola che ricorda i sassi - solo quei cagnacci

ringhiosi si stagliano nettamente sullo sfondo del cielo, l’argento del cielo.

L’argento delle tamerici che vela l’amaranto delle infiorescenze, grappoli a

cascata. Malinconia. Ce ne sono due esemplari nel parco del castello, belle

piante, piante ben piantate, non come me o come Sara. Tra noi corrono

ventidue anni esatti ma siamo amiche, abbastanza amiche. Perché, cosa

c’entra l’età?

Ancora quattro ore, la corriera parte alle quattordici e trenta. Mi

conviene tornare al bar. Ieri sera il paese intero era lì a ingozzarsi di panini

decongelati, macedonia di frutta e stuzzichini vari. Io un caffè e basta. La

cosa peggiore che potessi fare. Sapevo che mi avrebbe tenuta sveglia tutta la

notte, ma ne avevo bisogno. Poco male, il bad and breakfast era un’oasi di

pace e mi avevano dato persino il balconcino, non vedevo l’ora di rientrare.

Infatti, a mezzanotte ho portato fuori la sedia e ho passato in rassegna le

costellazioni. In mutande e canottiera.

Chi ci capisce è bravo.

Dormiremo anche troppo quando sarà il momento, diceva nonno

Emilio. Scaramantico. Mitico, direbbe Sara. Scaramantico lo era davvero.

Quel lungo sonno, per dirla in poesia, non gli andava molto a genio, amava

troppo gozzovigliare. Ieri sera qui davanti sedeva una famiglia intorno a un

tavolo doppio, o triplo, c’era la tovaglia. La neonata dormiva il sonno dei

giusti nel suo passeggino quando lo sconquasso dei tifosi locali, quelli

comodi comodi della Tv, l’ha strappata al suo mondo ovattato. Povera

creatura, che girandola! Suo padre, il probabile padre, faceva per quattro.

Appena la piccola ha iniziato a strillare, mica ha smesso di dimenarsi. Non

ha distolto lo sguardo dallo schermo nemmeno per un minuto. L’ha passata

alla nonna, questa alla zia, la zia alla cugina, la cugina alla mamma. E che è,

un pacco postale?

Le poste si sono modernizzate, in un lustro vent’anni di prima.

Tutti al volo! Non parliamo dei cellulari. Fra un po’ Sara col suo ci fa il

bucato. Me l’ha voluto scrivere in spagnolo l’SMS. La sua Spagna, il suo

Zapatero - mica re Juan Carlos, un po’ meglio dei Savoia di qui ma pur

sempre un detestabile sovrano – non ce la fa proprio a rimpiazzarli con i

politici nostrani. In quei tre mesi a Barcellona ha vissuto il suo momento

magico come una falena, la farfalla notturna. Artisti, pittori, attori, ce

n’erano per tutti i gusti, l’ho capito quando è tornata. Dovrebbe venire lei

quassù al castello, al corso di recitazione, anche se andrebbero messi in

conto i prevedibili casini. Sara in certe situazioni ci ricasca puntualmente, si

innamora, perde la bussola ogni volta. E lo dice: sono innamorata. Di chi

questa volta? Del venditore di collane, del punk o del cantautore?

Di musica si intende come pochi, non parliamo di cinema. Mi

scarica così tanti film che alla fine li confondo tra loro come lo scrittore di

telenovele di Vargas Llosa. La zia Giulia e lo scribacchino. Un bel giorno

questo omino dà di matto e comincia a intrecciare le trame che vanno in

onda contemporaneamente su canali diversi. Così, di punto in bianco Mary

non è più la moglie di John, giudice distrettuale, ma di Etienne barcaiolo

della Senna, mentre Marta, sessantadue anni suonati, si ritrova alle prese con

i due gemelli che ha concepito con l’aiuto determinante del giovane marito.

Divertente cambiare ruolo, cambiare tutto, tutto quello che si può cambiare.

Anche il nome, come ho appena fatto.

Le undici e tre quarti. Probabilmente la gente lavora, adesso non

c’è nessuno. Ieri notte neppure un posto libero. Un miracolo quella sedia,

non l’ho lascata fino alla fine, anche se del gioco m’importava come a quel

ragazzo dalla cresta bionda su base nera, partito chissà per dove. Far west,

lontano Ovest. Alternativo anche lui. Mi pare di vederla Sara con pantalone

in jeans extralarge, bretelle e pettorina. Si cambiava soltanto sotto. Quando

poteva. Me l’ha raccontato una sera in pizzeria, la mia senza mozzarella, per

carità i formaggi!

Fra un mese abbiamo cinquant’anni. Li portiamo bene? Qui le

cariatidi si sprecano. Sorreggono il grande balcone d’onore, i terrazzi

laterali, gli archi delle fontane e l’immagine pubblicitaria del castello. Questi

giganti fanno ancora la loro figura e sono più attempati di noi, plurale

maestatis. Il tempo passa per tutti, non lamentarti. Mi dispiace soltanto che

nel momento cruciale fai degli errori madornali e quando vedi qualcuno a cui

tieni che li ripete identici e vuoi dargli un avvertimento - amico, attento,

pensaci bene, guarda che domani hai un giorno in più - lui se ne strafotte dei

tuoi buoni consigli. Oppure non ce la fa proprio a non essere quello che è.

Sara poveretta ci mette dell’impegno. Si è laureata, ha trovato un lavoro,

precario come per tutti quelli della sua età, aiuta chi può. Per casa ha sempre

qualcuno, ospiti non paganti. Naturalmente extracomunitari, hanno più

bisogno. Mi ha presentato la polacca, il rumeno, il senegalese. Mangiare e

dormire gratis, ognuno si cucina quel che gli va, entra ed esce quando vuole.

Lei gli dà le chiavi.

Io la cascina di sua nonna la terrei così com’è. Si vedono ancora i

sentieri per muoversi tra le colture, stretti stretti per non sprecare terreno, il

filo per stendere i panni, arrugginito ovviamente, il lavello con la fontana,

adesso è secca, e una tettoiuccia sopra, quel tanto che basta per proteggere la

testa, perché le donne lavavano tutti i giorni, anche quando pioveva. L’alloro

di fianco al lavatoio avrà cent’anni, il gelso ha una chioma così fitta che i

rami neppure si vedono, e le piante di rose! La bella addormentata nel bosco.

Il sole. Un minuto di fuoco e torna la penombra. Ariosa questa

tettoia, trasparente. Qui nel parco, di gelsi non ne ho visti. Ho visto pini,

allori, le due tamerici e quella pianta enorme, non so che accidenti di pianta

sia. Per i miei gusti è fin troppo grande, per i sovrani no, loro devono stupire.

L’esotico, lo straordinario, la principessa, il castello. Che poi era una

fortezza militare. Popolo bue, bocca aperta e pancia vuota. Fra un po’ i rami

toccano la facciata dell’ospedale là sotto. La barista dice che è una casa di

cura. Sono in cortile i curati, in fila sulle sedie a rotelle. Curato di campagna,

anime morte. Il più giovane avrà novant’anni. Cosa potrei curarmi io quassù,

in quel del Piemonte?

Mezzogiorno e venticinque, non ho ancora svegliato il cellulare...

niente, nessuna chiamata. Vediamo, messaggi ricevuti, messaggi inviati,

invio riuscito. Cosa le ho risposto già ieri notte? Sara sfotteva, aveva previsto

fin dall’inizio la vittoria della Spagna, io non prevedo mai niente, so soltanto

quello che mi lascio alle spalle. Le ho scritto alle undici e dieci, sì, ho scritto

<Todo culo!> Volevo farla ridere o almeno sorridere. L’ultima volta che

siamo uscite insieme pareva un morto che cammina. Eravamo in quattro.

<Vieni al cinema? - le avevo detto.- Si va con Paolo e Angelo.> Lei il film

l’aveva già visto, ma come si fa, non ne perde uno. Comunque ha risposto

tranquilla: <Sì, vengo anch’io.> Troviamo una fila tutta per noi, Sara affonda

nella poltrona - la multisala è una guduria - e chi la vede più? Nell’intervallo

non si muove e nel passaggio cruciale, quello che come si dice fa del

pubblico un sol uomo, Paolo compreso poveretto, separato da un mese, tiene

gli occhi chiusi, forse era così anche prima, non so, mi sono girata allora.

Arriva la parola fine, si raggiunge l’uscita, anzi, ci si ferma nell’atrio

bloccato dal muro degli spettatori che faticano a staccarsi dalla finzione del

film, e Paolo, che ha cambiato umore e addirittura faccia rispetto all’inizio,

propone tutto allegro: <Beviamo qualcosa da me?>. Sara è proprio davanti a

lui ma non c’è. <Io no>, risponde. La guardo: letteralmente angosciata. Così

ci passa la voglia.

L’una e cinquanta, meglio muoversi, la corriera arriva in piazza

subito oltre l’ospedale. Arriva e riparte. E’ un terno al lotto tutto quanto,

restare e partire, la salute e la malattia, la Spagna che segna ai tempi

supplementari e l’Olanda che perde, io che non ho una famiglia salvo due

nonni inventati e Sara che ce l’ha regolare ma è come se non l’avesse. Un

terno al lotto. La chiesa. Non avevo ancora notato la facciata. Eppure, la

scritta sul timpano si legge anche senza occhiali. DIVO SECUNDO

DICATUM. Concisa, mi piace, tanto chiara quanto incomprensibile ai più.

Che avrà mai fatto il divino Secondo per meritare la dedica di un tempio?

Qualcuno qui intorno me lo sa dire? Abbi fede, qualcosa avrà ben fatto. E

poi se uno vuol pregare, prega ugualmente. Prega nell’ignoranza più totale.

Racconti creati dagli allievi del VI Stage “Teatro al Castello”- Ass. “Art&Vita”, Castello di Govone, 11 luglio – 1 agosto 2010- Sezione di Tecniche di scrittura narrativa e scenica- Docenti: Giovanna Mulas, Alberto Asero, Lorenzo Rulfo -  ( I parte )

Franco Fortini

Firenze, Italia – 1917 - 1994

Foglio di via

Dunque nulla di nuovo da questa altezza

Dove ancora un poco senza guardare si parla

E nei capelli il vento cala la sera.

Dunque nessun cammino per discendere

Se non questo del nord dove il sole non tocca

E sono d'acqua i rami degli alberi.

Dunque fra poco senza parole la bocca.

E questa sera saremo in fondo alla valle

Dove le feste han spento tutte le lampade.

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

Da Una volta per sempre, poesie 1938-1973

"Sebbene in diversi stati d'animo l'uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo profondo ideale significato la bianchezza evochi nell'anima come uno strano fantasma..." (Herman Melville, Moby Dick)


 

Guido Ingenito, Italia

QUANDO APRI GLI OCCHI

Gli occhi sfuggono ancora dal mio corpo e vanno a dissetarsi

nell’ombra dei cespugli che sono là in fondo. Poi si alza una leggera brezza

che però non mi regala sollievo. Non mi regala niente. Non sento niente. Da

quanto non sento niente?

Quando apro la valigia per estrarre il cavalletto, la tela, la

tavolozza e i pennelli mi perdo nel cielo che si espande oltre questo cortile,

con la voglia carnale di poterlo sfiorare e oltrepassare, fino ad arrivare oltre

qualsiasi cosa.

Sembra che il cielo possa inghiottirmi da un momento all’altro.

Anzi, lo spero. Lo spero con tutto me stesso.

Il caldo. La solitudine. Le vertigini.

Mi tolgo la maglietta che mi si è incollata addosso. Niente.

Nemmeno così riesco a godere di qualche alito di vento. Getto lo sguardo

oltre il terrazzo, volando così tra le colline, gli appezzamenti e i piccoli

mucchi di case che colorano questo trionfo di verde, per poi decollare

un’altra volta verso l’azzurro sgombro di nuvole del cielo, riempiendolo ogni

tanto con qualche cerchio di fumo.

Dipingere l’universo, sono qui per questo.

Quando le confessai questo desiderio, lei rimase senza parole. Mi

provocò. Mi prese in giro.

L’universo?”

L’universo.

Io fossi in te mi accontenterei del paesaggio che vedi dal

balcone di casa.

La tela è ancora immacolata. Come sempre. La mia eterna

complice mi è ora ostile. Mi guarda, mi sfida. Mi deride. Mi vomita tutto il

disgusto che prova nei miei confronti. Lei e me. Io e lei. Riempimi,

colorami, forza, cosa stai aspettando? Maledizione. Io che ho dipinto

l’essenza di paesaggi di tutta Italia, che ho ritratto i peggiori stronzi viventi,

che ho trascorso la vita ad estrarre l’anima da ogni cosa, da ogni persona.

Un’esistenza passata a percepire ogni colore, ogni profumo, ogni sguardo. A

gettare pennellate senza ispirazione, spinto solo dall’istinto e dal cuore.

E adesso, niente. Un niente che è più forte di tutte le altre volte.

Sento solo il torpore dell’estate più calda di cui abbia memoria.

Ma di cosa ho paura? Della tela? Un rettangolo bianco dovrebbe

farmi panico?

Forse ho paura di me stesso, perché io non sto più inseguendo un

sogno. Da quando sono solo sto scappando da un incubo. Una corsa che non

mi sta portando da nessuna parte, se non lontano e dentro di me.

Impugno tavolozza e pennello e abbozzo. Prima delicatamente,

poi sempre più con foga. Dipingo. Aggredisco la tela, sento le vene creparsi

e le lacrime che furiosamente mi inondano il corpo senza interruzione. La

squarto. Follia. Braccia e mani si muovono senza controllo. L’universo sta

prendendo forma sotto i colpi decisi di un uomo in preda al delirio. Non sto

capendo più niente, come se invece di dipingere stessi solo guardando. Sta

succedendo, l’incubo sta per finire, ho finito di correre, ma perché invece di

sentirmi liberato sento il cuore contorcersi a ogni pennellata? Perché?

Perché?

Tutto mi cade dalle mani senza far rumore. Non riesco a smettere

di tremare.

Un volto di donna mi guarda, con gli occhi colmi di amore e

tristezza.

La tela non è più bianca. Ha smesso di schernirmi. Ma adesso mi

urla addosso tutto il sangue che ci ho buttato dentro. Ero in sua balia prima,

lo sono anche adesso. Non posso sfuggire da me stesso. Un volto di donna.

Il volto di Arianna.

Non piangere per me, perché finalmente vedrò com’è fatto

l’universo, papà. –. Mi hai lasciato così, con un filo di voce, prima di

chiudere gli occhi per l’ultima volta.

Il silenzio è assordante, le cicale sono andate in letargo

trascinando con loro il resto del mondo. Questa terrazza si è staccata dal

mondo e sta volando verso nessun luogo, senza tempo.

Certo, Arianna. Tu ora conosci l’universo, ciò che io ho cercato

di dipingere per anni. Lo puoi interpretare, assemblare, distruggere e

ricostruire. Quell’infinito che mi ha incatenato al pennello, alla tela, a me

stesso, che mi ha intrappolato in un buco nero, per te non ha più segreti.

Vero bambina mia?

Il volto dell’universo, del mio universo.

Arianna.

L’incubo è finito ma non ci sono sogni a prendere il suo posto.

Non ne ho più.

Non mi rimane nient’altro da fare. Frugo nelle tasche e trovo

l’accendino. Neanche un soffio di vento.

Quando mi siedo sul prato, la tela sta già bruciando e l'odore del

piccolo incendio si diffonde indistinto nel cortile.

Racconti creati dagli allievi del VI Stage “Teatro al Castello”- Ass. “Art&Vita”, Castello di Govone, 11 luglio – 1 agosto 2010- Sezione di Tecniche di scrittura narrativa e scenica- Docenti: Giovanna Mulas, Alberto Asero, Lorenzo Rulfo -  ( I parte )

Giuseppe Ungaretti

Italia

Finale


 

Più non muggisce, non sussurra il mare / il mare.
Senza sogni, incolore campo è il mare, / il mare.
Fa pietà anche il mare, / il mare.
Muovono nuvole irriflesse il mare, / il mare.
A fumi tristi cedé il letto il mare, / il mare.
Morto è anche lui, vedi, il mare / il mare.

Arnold de Vos

Olanda- Italia

Orecchio assoluto

Il silenzio quando canta

si fa un nido nell’orecchio, lamia

nella quale il suono si distende

a stupa nella testa

di pace paradisiaca.

Il silenzio quando piange

il nirvana perduto, richiama

il dito del Buddha sulle labbra

per risentire il volo degli uccelli

e il respiro del vento nella foresta

sotto il padiglione del cielo

auricolare dell’eternità.

   Trento, 28.07.2010

Mario Luzi

 
Poeta ermetico esemplare, è nato il 20 ottobre 1914 a Castello, in provincia di Firenze, da genitori maremmani: Ciro Luzi, impiegato ferroviario, e Margherita Papini, una delle figure centrali nella sua vita e produzione poetica — «I'ho visto in mia madre tutto quel mondo di religione contadina ed elementare ma introflesso e pensato e molto intensamente vissuto. Questo mi ha incantato in lei, al di là del grande affetto che ci legava. Mi affascinava il suo trasportare tutte le cose in una interiorità, che forse la società modesta in cui si viveva allora non sentiva come bisogno primario».
Anche se suo padre vorrebbe un altro tipo di lavoro per il figlio, Mario si laurea a Firenze in Letteratura francese con una tesi su Mauriac che influisce molto sulle sue posizioni poetiche future. Il padre, «visto che in questo mi ci trovavo bene, che ne traevo soddisfazione, che i risultati erano interessanti, ha compreso che per vivere e realizzarmi avevo bisogno di seguire questa strada, e ne è stato contentissimo».
Nel 1935 pubblica il primo libro di poesiaLa barca in cui esprime tutta la sua giovinezza (ha solo 21 anni) in uno stile acerbo e fragile, ma che già determina i suoi dominanti motivi poetici: un contrasto continuo fra il tempo e l'eternità, fra la vita individuale e la vita totale, fra l'apparenza e l'essenza.
In quel periodo comincia anche a collaborare con la rivista letteraria «Frontespizio», ma ben presto si trasferisce a Parma per insegnare in un liceo e inizia a scrivere per una nuova rivista (dalla vita breve poiché uscirà solo per un breve periodo nel 1938 sotto la direzione del famoso editore Vallecchi): «Campo di Marte», che, ispirandosi a posizioni politiche di sinistra, si prefigge l'ambizioso scopo di rinnovare il rapporto fra pubblico e letteratura, finendo con l'elaborare unicamente temi letterari — come pure successe alle altre due riviste fiorentine con le quali Luzi collaborò, «Letteratura» e «Paragone» .
Tornando alla produzione poetica, troviamo un'importantissima raccolta datata 1940,Avvento notturno, manifesto non proclamato dell'Ermetismo il cui linguaggio, estremamente raffinato, fa della poesia la sola realtà praticabile e proponibile. Questa ermeticità e compattezza viene scossa dalla Seconda guerra mondiale e porta a un'apertura innaspettata, nel 1946, con Un brindisi, raccolta fondamentale che lo stesso Luzi definisce come «una prefigurazione, tra allucinata e orgiastica, del dramma della guerra che mette a soqquadro il falso olimpo o giardino di Armida in cui molti credevano».
La raccolta successiva, Quaderno gotico(1947), rappresenta un momento di transizione dove si affaccia l'idea dell'amore che potrebbe vincere la solitudine del soggetto poetico, ma resta solo una mera speranza. Un cambiamento definitivo nella poetica di Luzi arriva con la raccolta Onore del vero (1957), dove si percepisce una grande apertura nel linguaggio, vicino al parlato, dai motivi più comuni e concreti. A questo proposito Luzi dice di aver sentito «il bisogno di dare al mio lavoro una sostanza e un aspetto più elementari, più fondati sulla natura dell'esperienza dell'uomo e sulla natura del linguaggio che la esprime».
Questi sono anche gli anni di un'aperta critica all'Ermetismo da parte della Resistenza, diventa perciò inevitabile l'avvicinamento della poesia luziana alla storia e alla lingua comune. Il profondo cambiamento di posizioni viene espresso più profondamente nella raccolta Nel magma (1963), quando comincia per Luzi un confronto aperto con la società contemporanea italiana, che rivela le indelebili mancanze e illlusioni di quest'ultima. La raccolta diventa una vera e propria denuncia di una società, di una vita senza significato e sicurezza, espressa anche attraverso il linguaggio, adesso più comunicativo e vicino alle forme dialogate.
A questa raccolta ne seguono altre che riaffermano il cambiamento definitivo, pur restando sulla posizione di una poesia-testimonianza di un vuoto profondo e incolmabile: Dal fondo delle campagne(1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994),Sotto specie umana (1999), Poesie ritrovate(2002), Dottrina dell'estremo principiante(2004).
Oltre alla complessa produzione poetica, Luzi ha svolto anche un'intensa attività saggistica — L'inferno e il limbo (1949),Studio su Mallarmé (1959), L'idea simbolista (1959), Tutto in questione(1965), Poesia e romanzo (1974),Vicissitudine e forma (1974), Discorso naturale (1974), Naturalezza del poeta(1995), Vero e verso (2002) — e teatrale —Ipazia (1972), Rosales (1984), La Passione(1990), Io, Paola, la commediante (1992),Teatro (1993), Felicità turbate (1995),Ceneri e ardori (1997) — oltre che universitaria, come insegnante di Lettreatura francese presso le università di Urbino e di Firenze.
Un'ultima conferma della sua grande attività poetica, intellettuale e sociale è arrivata dallo stesso Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che il 14 ottobre 2004 lo ha nominato Senatore a vita. (V. P.)

(ringraziamo vivamente la Fonte: http://www.italialibri.net)

Versi d'ottobre

E' qui dove vivendo si produce ombra, mistero
per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta
ne getta il seme alle sue spalle, è qui
non altrove che deve farsi luce.
E' passata, ne resta appena traccia, 
l'età immodesta e leggera
quando si aspetta che altri,
chiunque sia, diradi queste ombre.
Quel che verrà, verrà da questa pena.
siedo presso il mio fuoco triste, attendo
finché nasca la vampa piena o il guizzo
sul sarmento bagnato dalla fiamma.

Tu che aspetti da fuori della casa,
della luce domestica, del giorno?
oggi, oggi che il vento
balza, corre nell'allegria dei monti
e a quell'annuncio di vino e di freddi
la furbizia dei vecchi scintilla tra le grinze?
Quel che verrà, verrà da questa pena.
Altra sorte non spero mai, neppure
sotto il cielo di questo mese arcano
che il colore dell'uva si diffonde 
e l'autunno ci spinge a viva forza
fino ai 
Cessati Spiriti o al Domine quo vadis?

Sulla riva

I pontili deserti scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla lucerna,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all'oscuro di te e dei tuoi cari.

La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? ti spero in qualche porto…
L'uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l'aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.

 


 

Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po' monelli e avvezzati male, c'è sempre da sperar qualcosa: ossia, c'è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma.

(CARLO COLLODI, Le avventure di Pinocchio, cap. 25)


 

Maria Rosa Cugudda: quando le poesie sono “Emozioni” 

di Maria Lucia Meloni

Parole che si trasformano in immagini della natura, colori, pennellate iridescenti, stralci di immagini come se si trattasse di pittura. Parole che diventano suoni, leggeri ritmi, musicalità, liricità. “Emozioni” (2009 Libroitaliano World) è il titolo dell’ultima raccolta di 50 poesie di Maria Rosa Cugudda, inserite nella collana ‘Saffo’.  La presentazione del lavoro di Maria Rosa Cugudda è avvenuta il pomeriggio del 9 settembre presso la Sala Bianca della Biblioteca Ragazzi a Quartu Sant’Elena, e la serata è stata promossa dallo stesso Comune di Quartu Sant’Elena.

In una Sala Bianca gremita di pubblico, erano circa sessanta le persone presenti alla manifestazione, hanno partecipato anche Vanna Arru che ha presentato l’incontro, Massimiliano Pani coordinatore delle biblioteche di Quartu Sant’Elena e Claudia Corona insegnante del CTP24: nei loro interventi hanno posto l’accento su alcuni aspetti culturali, sociali e umani legati alla poesia. La biblioteca è oggi sempre più luogo di incontro e discussione, di letture e riflessioni; non solo quindi  prestiti di libri, situazione sempre presente e mai superata, ma anche altri progetti e promozioni culturali.  “i Bibliofili” guidati da Claudia Corona lavorano da tempo ormai portando avanti un progetto di educazione alla lettura, all’ascolto, all’introspezione.  In biblioteca si crea cultura e l’esempio dell’incontro di giovedì 9 settembre con Maria Rosa Cugudda è assolutamente calzante. 

Maria Rosa Cugudda parla di se stessa, nata a Neoneli nell’oristanese vi ha vissuto fino all’età di 14 anni. Poi il trasferimento a Napoli, gli studi, la laurea, l’insegnamento. Infine il Piemonte dove tuttora vive e insegna.

E’ proprio a 14 anni che Maria Rosa inizia a scrivere poesie, parole che esprimono emozioni e situazioni interiori; Maria Rosa ascolta il suo cuore, guarda il mondo che le sta intorno, lo vive e lo descrive con i suoi versi ... poesie brevi, leggere, affascinanti, ricche di quanto Maria Rosa è, come persona e come donna. Maria Rosa scrive di se stessa e dell’immagine che ha dell’universo nel quale è immersa. 

Maria Rosa Cugudda ha scritto tre libri per un totale di circa 180 poesie; pur avendo iniziato giovanissima  non aveva alcuna intenzione di pubblicare le sue opere. A un certo punto per puro caso partecipa ad un concorso di poesia e lo vince, ‘Premio Poesia’ del 2007,  anno in cui viene pubblicata la sua prima raccolta “Il dolce calore della vita” (edito da Libroitaliano World). Poi ecco altre 80 poesie nel 2008 con “Inesplorato lago” (Libroitaliano World), una interessante unione tra poesia e arte e in particolare con la pittura: in questo volume nasce e si concretizza la collaborazione con il pittore Giuseppe Joppolo con un risultato davvero sorprendente. In questa raccolta vediamo letteralmente ciò che leggendo le poesie percepiamo, ossia un assoluto amore per la pittura e per l’arte in ogni sua manifestazione. Poi “Emozioni” nel 2009, altre 50 poesie, brevi, quasi dei flash, piccoli gioielli, spunti di riflessione che invitano il lettore ad analizzare ed approfondire tante tematiche e si va dal personale, dall’intimo e dall’interiorità più profonda, alle situazioni quotidiane.

Maria Rosa racconta che lei scrive di getto, spesso in fretta le sue poesie, spinta da un bisogno estremo che la chiama a mettere nero su bianco ciò che quel momento le indica di scrivere. Poi lascia tutto sulla scrivania. Torna su quelle parole quando percepisce che è il momento di farlo, allora può rivedere, correggere, limare, modificare, ma l’autrice confessa che la vera Maria Rosa è nella prima stesura, quella dettata dal suo cuore e dalla enorme sensibilità che possiede. 

Bellissimo l’accenno che l’autrice fa della poesia e del ruolo che essa assume nel suo lavoro. I ragazzi della sua scuola spinti a scrivere dalla “Prof.”, riescono a ritrovare se stessi, a maturare, a prendere coscienza di se  e delle proprie possibilità e gratificati dei propri scritti, si avvicinano con meno timore e più sicurezze anche alla scuola oltre che alla  vita. La serata di giovedì 9 settembre è stata caratterizzata oltre che dalle parole di Maria Rosa e dagli interventi degli organizzatori anche da letture di poesie  dell’autrice. Il compito è affidato a “i Bibliofili” ed ecco che in silenzio le lettrici  del gruppo di Claudia Corona si alzano e leggono dei bellissimi pezzi di Maria Rosa.

Leggendo e ascoltando le sue poesie si rimane stregati dal rincorrersi di “entità”: vita, luce, buio, echi, respiri, immensità, riflessi… terra, universo, bambini, sorrisi, fiori, sole, amore… mare, profondità, sogni, ricordi, affetti, stati d’animo, emozioni… le poesie di Maria Rosa sono  incanto. Silenzio, aprire il proprio cuore, ascoltare se stessi e il mondo: è questo il valore intrinseco della poesia di Maria Rosa.

Ma si percepiscono anche aneliti di libertà, di amore, di tristezza, mai però di sconforto, piuttosto poesia come metodo per aiutare a ritrovare la strada, il percorso da compiere. La madre e la sorella, i rimpianti e la nostalgia; l’aurora e l’alba, la prima un rincorrersi di colori che mutano e di pennellate di parole che si susseguono, come immagini pittoriche, la seconda intesa come senso di nascita e rinascita, di vita che si contrappone alla morte, di ringraziamento per poter godere di queste bellezze.

Un ricordo dell’amica  poetessa Agostina Argiolas recentemente scomparsa e una dedica a Sakineh la donna che in Iran sta subendo atroci violenze e rischia la lapidazione. 

Maria Rosa Cugudda è davvero una donna speciale, oltre che dai suoi scritti questa particolarità la si nota anche nello starle vicino, ascoltarla, parlarle. La sua voce dolce e velata, il suo sguardo sereno che cela un fondo di lontana tristezza, la sua risata gioiosa e cristallina, la sua disponibilità unica al rapporto con il pubblico, una donna stupenda.

La lettura delle sue poesie diviene un arricchimento per ciascuno di noi. Grazie  a Maria Rosa per essere stata presente a Quartu Sant’Elena, e speriamo di incontrarla di  nuovo in altre occasioni   di promozione della cultura verso la poesia. Ma un grazie a Maria Rosa Cugudda anche per averci dato la possibilità di compiere quasi un piccolo miracolo nel momento in cui abbiamo letto e ascoltato le sue poesia: Maria Rosa le ha scritte ma esse sono diventate parte integrante di ciascuno di noi, sono entrate dentro di noi, e hanno a ognuno lasciato un segno, un sentimento, un ricordo. La poesia diventa di tutti coloro che la leggono, filtrata da emozioni e sentimenti personali, da esperienze e convinzioni … di questo piccolo miracolo, di questo dono, la ringraziamo. 

...perchè ognuno sia libero di esprimere ciò che è, senza giudizio…” . 

( Info/news sull'autrice: ildesertofiorisce.splinder.com).


 

Cyro de Mattos

Brasil

Poesia tutta verde

Il verde di tutte le piogge

Che scorre sul terreno dell’infanzia

Amato nei fiori ideali.

Il verde di tutti i venti

Che gioca nella campagna intensa

Coltura di eterna pace.

Il verde di tutti gli uccelli

Che canta nella fraternità dei cieli

Brezza portatrice di razioni uguali.

Il verde di tutti i soli

Che illumina geografie impossibili

Armatura di raccolte ideali.

Carico di verde nelle nuvole

Bagnare il mondo aspro e solitario

Nei quattro angoli cardinali

  Traduzione: Mirella Abriani

Roberto Aguirre Molina

Santa Fe, Argentina

Albus

 

Cercando ciò che non cerco
so ciò che non so

 

Vicino
sembro essere lontano
e vado
a tornare
tra luminose luci
morte che la notte ravviva:

 

Spengo un fiammifero, accendo il mare.
traducción: Patrizia Herskovits - Paolo Paolini - Adriana Crolla

Italo Calvino:  Dalle Cosmicomiche a Palomar

a cura di Luigi De Bellis


Temi nuovi, problemi di sempre

La narrativa più recente di Calvino pone problemi interpretativi non facilmente solubili, che riguardano innanzi tutto i limiti esatti del pessimismo e dello scetticismo cui lo scrittore approda nell'ambito della sua ricerca etico-conoscitiva, dopo aver abbandonato già da tempo l'obiettivo di assegnare all'intellettuale il compito di interagire direttamente con la realtà politico-sociale. Calvino muove, com'è noto, dalle prese di posizione contenute soprattutto nella Sfida al labirinto, da cui abbiamo preso le mosse. Il ruolo dell'intellettuale nei limiti delle sue competenze e forze è quello - semplifichiamo - di individuare dei modelli teorici, etici e conoscitivi, in grado di fondare l'agire pratico o almeno di comprendere la realtà nel suo disordine e quindi di dare un senso all'esistere.

Dopo la Giornata di uno scrutatore, all'incirca in coincidenza col suo trasferimento a Parigi, Calvino si apre ad una stagione narrativa nuova per motivi, forme espressive e influssi culturali. Il dato immediatamente percepibile è la presenza sempre più fitta di elementi di molteplici discipline scientifiche (dalla fisica alla biologia, dall'epistemologia all'antropologia, dallo strutturalismo alla semiotica). A questo proposito il nostro discorso deve di necessità farsi molto sommario: non è certo questa la sede per un'investigazione e neppure per un catalogo delle prospettive euristiche cui Calvino, lettore onnivoro, attinge. È opportuno però puntualizzare un fatto: tutte le discipline cui Calvino mostra di essersi accostato lasciano tracce anche vistose nella sua opera narrativa, ma incidono sul suo orientamento ideologico e culturale forse non così in profondità come si potrebbe pensare. Calvino amplia le prospettive ma per molti versi si mostra anche fedele ai problemi di sempre e in particolare a quelli etico-conoscitivi enunciati negli scritti sopra citati. Ha scritto Roscioni: «Non credo che Calvino si sia mai molto interessato alla scienza in sé [...]. Il suo problema era come utilizzare i metodi e i linguaggi della scienza, come tradurli in letteratura».

La fase fantascientifica

Se prendiamo le Cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967) riscontriamo via via palesi suggestioni di fisica, astrofisica, biologia, genetica, biochimica ecc. Ma Calvino in concreto facendo commentare a Qfwfq varie ipotesi scientifiche (ad esempio sull'origine dell'universo, dello spazio e del tempo) mostra di proiettarsi ancora di preferenza sul problema dei rapporti umani e sociali. Lo stesso Qfwfq, improbabile e mutevole essere vecchio quant'è vecchio il mondo, sempre in grado di dir la propria, per esperienza diretta, sulle più astratte ipotesi e sui fenomeni più remoti e lontani, appare un «nuovo Marcovaldo». I temi di fondo della raccolta così «si rivelano essere quelli calviniani di sempre, vale a dire i rapporti tra soggetto e oggetto colti nella dimensione non più storica ma conoscitiva: solo [...], straniato [...], insicuro e frustrato, Qfwfq constata la differenza tra la scoperta di un paradigma scientifico e l'effetto che esso produce nella vita» (Benussi). Il rapporto è in parte capovolto negli ultimi racconti di Ti con zero, dove non compaiono protagonisti fantascientifici, ma persone comuni che di fronte ai problemi concreti (come evadere da una prigione, come sfuggire all'inseguimento di un killer) tentano di applicare dei paradigmi scientifici alla loro soluzione. Il senso profondo però non cambia. La ragione, la scienza fino a che punto possono incidere nella vita dell'uomo, nei suoi rapporti (pratici) col mondo? È dalla ragione e dalla scienza che possiamo attenderci quelle risposte significative che gettino una prospettiva nel labirinto dell'esistenza?

Il ricorso alle suggestioni scientifiche costituisce insomma un'investigazione a vasto raggio dei campi di conoscenza che l'uomo va esplorando e dei metodi che va mettendo a punto per vedere se caso mai da queste discipline venga la risposta al problema di fondo: dare un senso all'esistere, nel palese contrasto tra spinte biologiche ed esigenze razionali. E tutta questa stagione narrativa con i suoi temi e motivi ne costituisce l'ultima grande metafora. In particolare, dalla Giornata di uno scrutatore in poi «lo scrittore appare dominato da un'ossessione mentale: il significato e il valore dell'azione, o più largamente del movimento vitale. Come per una sorta di coazione a ripetere, si accumulano le variazioni su un unico tema, l'ansia di possedere la realtà» (Spinazzola). L'ansia è sistematicamente frustrata, la risposta ai quesiti è in sostanza sempre negativa, ma la ricerca non si interrompe.

La fase combinatoria

 

Con Il castello dei destini incrociati si inaugura il periodo cosiddetto combinatorio, in cui Calvino si mostra prevalentemente influenzato nell'immaginazione e nella strutturazione dei suoi racconti dalla semiotica e dallo strutturalismo. Dato un mazzo di tarocchi, Calvino ipotizza le possibili combinazioni tra le carte-personaggi che diventano un certo numero (elevato ma finito) di storie. Il problema di una conoscenza ordinata, di un dominio razionale del reale sembra così trovare momentaneamente un fondamento rassicurante nella nozione che tutte le storie, come tutti i fenomeni, siano il prodotto di un numero limitato di combinazioni di dati e fatti, che alla base del disordine fenomenico stiano delle strutture profonde capaci, una volta individuate, di fornire il modello del mondo e della realtà.

 

Modalità narrative (di tipo combinatorio) e problemi conoscitivi simili sono alla base anche delle Città invisibili (1972) e di Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979). Nel primo libro, forse il prodotto più felice di questa fase fortemente intellettualistica, c'è un racconto a cornice in cui si confrontano Kublai Khan e Marco Polo (il modello narrativo esplicito è il Milione e in genere la narrativa antica di viaggi): Kublai tramite le relazioni dei suoi ambasciatori e di Marco cerca di dominare il suo immenso impero, che non conosce direttamente, e Marco, a differenza degli altri aridi relatori, gli racconta storie affascinanti e misteriose di città reali e fantastiche, avvincendolo. Il problema di fondo, come si vede, è il medesimo pur nella sua concreta attualizzazione di un'investigazione delle città dell'impero, che è metafora della società e del mondo. Quella che Calvino compie attraverso la narrazione di Marco Polo è una catalogazione ordinata del disordine reale: la narrazione si sdipana entro confini delimitati (anche qui è applicato un modello combinatorio: il numero delle città è finito e queste sono divise in insiemi distinti) ma le città nei loro connotati concreti sono un esempio della fluidità e dell'indeterminatezza del fenomenico, che dal campo dell'esperienza concreta si apre senza soluzione di continuità a quello dell'esperienza puramente mentale (il sogno, il desiderio).

 

Nel secondo libro ci si sposta dal campo del reale a quello della letteratura, ma anche in questo caso la dinamica non muta: la vicenda della cornice narra di una lettrice alla ricerca di quello che in definitiva appare il libro dei libri, il libro che consenta la spiegazione del mondo, libro che naturalmente si nega, lasciando lo spazio solo a una serie di capitoli interrotti di tanti libri diversi, che costituiscono al tempo stesso un catalogo di possibili temi e modelli narrativi di Calvino.

 

Palomar

 

Che in questo passaggio ci sia un progressivo abdicare alle speranze di trovare una risposta definitiva al quesito di fondo è assai probabile: il passaggio stesso dal campo dei problemi reali a quello dei problemi letterari e dalle discipline scientifiche alla narratologia (di cui in Se una notte è palese l'influsso) determina, secondo alcuni, una sorta di ripiegamento e di progressiva rinuncia. In Palomar il protagonista delle meditazioni si mostra alle prese con problemi conoscitivi nuovamente reali e concreti ma sempre più limitati (determinare le ragioni del moto di una singola onda, conoscere nei dettagli la composizione del prato del proprio giardino, ecc.), che pure risultano insolubili e costantemente frustranti. Ha scritto la Benussi: «Palomar attraversa in maniera patetica e talvolta esilarante il sapere universale prima di naufragare: tanta fatica per dimostrare la vanità del sapere così come lo usa o per dimostrare la vanità del sapere tout court? Scetticismo e curiosità infinita per lo scibile umano accumulato nei secoli sono le doti che uno scrittore deve comunque possedere, e proprio questa ostinazione a stabilire relazioni tra discorsi metodi e livelli è il testamento che avrebbe voluto lasciare: "La conoscenza come molteplicità è il filo che lega le opere maggiori, tanto di quello che viene chiamato modernismo quanto di quello che viene chiamato postmodern, un filo che - al di là di tutte le etichette vorrei continuasse a svolgersi nel prossimo millennio" (Calvino)».

 

Lawrence Ferlinghetti

da "Un mucchio di immagini spezzate

L'universo trattiene il suo respiro
C'è silenzio nell'aria
La vita pulsa ovunque
La cosa chiamata morte non esiste

Bianca Dorato

Turín, 1933 – 2007

Ambrun-a

Mia calà apress a cola dël singial
sla fiòca nissa: e i von travers l’ ambrun-a
greva a j’uss nèir duvert ëd la roà
frema ’nt ël geil. A l’han scalin ëd giassa
mie ca, e candèile ’d giassa a fé dësludi
për na neuit sensa obada. A-i é pa vos
an sël senté, e mach la piotà bëssa
ciàira sla fioca, tan lontan a va
për camp e pra, ’nté ij barsaj as ancreuso,
fros, e pì fonz andrinta al cheur a pogno
-mè cheur, mia tèra- ’l magon a l’anvìa.
A l’ha pa vos ël pior ëd ferìa
’nté sensa chit ël dent sarvaj a ruma,
ni dësmentiura a fërmé ‘l sangh, canson
ëd lus e d’ aria e ’d rìe d’eva, a san
anco’ le pere veje e le fogagne;
ni calignëtta a tni bòta a l’ ëscur
che s-ciass a ven, as anvisca s’na fnesta,
stèila a ciamé j’ ëstèile. E a fiòca, ora,
ansima a la roà, ansima a sa tèra
sombra, mè cheur: e apress a la calà
tan longa i von, che ’nt la tos-cia as ëstërma.

Hans Magnus Enzensberger

Kaufbeuren, Germania, 1929.

Soldati bambini


Come grattava verde- muffa
la legnosa stoffa della divisa
sulla pelle nuda.
Non ancora diciassettenne,
metallico luccicava
l'entusiasmo della morte
negli occhi azzurri.
Impiccato in Franconia, il licantropo,
nel caldo maggio del '45
su una piazza del mercato.

Un esempio per quelli d'oggi
che mai hanno avuto sentore
dei suoi pari.
Altre promesse,
altre menzogne ed altro cielo,
stracci d'altri colori,
ma lo stesso odore di benzina,
nitrocellulosa e paura, lo stesso
fanatismo nel procurar la fine
ad altri e a sé ama

Alessandro Monticelli

Italia

Estate

Si sciolgono le intenzioni

Come il ghiaccio nei bicchieri.

Sul sagrato delle promesse mai mantenute

Sul sagrato delle promesse mai mantenute

Le parole sono a terra come chiodi arrugginiti

E ad usarle sanguina la bocca.

L’unica cosa che il dolore un po’ lenisce

E che quello che non sai non ti ferisce.

Come splendore inutile di valuta fuori corso

Anche oggi la croce proietta la sua ombra

Sulla bellezza che passa di letto in letto

Ansante di carnalità tellurica

E franante nel giardino dei supplizi d’amore.

Dietro le spalle il giorno appassisce

Come latrato di cane che in lontananza

S’indebolisce.

Leggo di Rothko che nel 1970 a 67 anni

Si suicida nel suo studio tra un blu e grigio

Un arancio e viola, rosso marrone e nero.

E forse anche oggi soprappensiero

A chi ho parlato ho detto verità più del previsto.


 

Isola Nera

Casa di poesia e letteratura aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana.


 

Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale vengano valorizzati.


 

Isla Negra Isla Negra

en español

Casa de poesía y literaturas. Casa de poesía y literaturas.

Director Gabriel Impaglione

Poesia@argentina.com



Marted́ 26 Ottobre,2010 Ore: 22:13
 
 
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