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IL DENARO

(Omelia di Ernesto Balducci – “Gli ultimi tempi” Vol 3 – Borla)


Vi propongo di leggere e di meditare questa bellissima omelia di Ernesto Balducci sul Denaro, anche in riferimento alla liturgia di domenica prossima. Mi sono permesso di decurtarla di qualche riferimento troppo datato e di evidenziare alcuni passi. Penso così di avervi facilitato la lettura.
Un abbraccio a tutti.
Aldo Antonelli
C'è una espressione, nel brano di Luca, che ogni vol­ta che mi avviene di incontrarla mi lascia una pro­fonda perplessità, che è quella che forse si rifletterà stamani anche nelle mie parole. Gesù non fa distin­zione fra una ricchezza giusta ed una ingiusta. La ricchezza è «mammona di iniquità», è intrinsecamen­te disonesta. E’ una parola che sembrerebbe dare ragione a coloro che dicono che la prospettiva di vita offerta dal Vangelo riflette condizioni sociali arcai­che, quelle anteriori all'uso del denaro come merce di scambio. Sarebbe questa una lettura letteralistica e quindi incapace di penetrare nella perenne validità del discorso di Gesù che è sempre un discorso profe­tico, cioè un discorso che attraverso un giudizio sul suo tempo mira a aprire una prospettiva su una con­dizione di totale libertà dell'uomo, quella verso cui l'umanità si muove, consapevole o meno. E’ in questa luce che dobbiamo leggere il messaggio odierno, il quale per altro ci soddisfa anche perché mette in pri­mo piano — nel brano di Amos e in quello di Luca — personaggi che sembrano presi dalle cronache del nostro tempo. Questi amministratori che si fanno amici attraverso transazioni disoneste, questi com­mercianti che speculano sulle condizioni del tempo, delle stagioni, sulle festività per trarre guadagno, che pensano — mi viene in mente quanto fa il Nord del pianeta col Sud — a vendere anche lo scarto del grano. Non giochiamo però su questi atteggiamenti che sono troppo facili. Vediamo di trarre un senso più globale e più profondo da queste pagine.
Partirei proprio da questo brano di Paolo (per la pre­cisione, della I Lettera a Timoteo) che per certi versi sembra quasi alludere ad una nostra accettazione dell'ordine esistente (ci è perfino detto di pregare per il re e per quelli che stanno al potere) e che finisce con un invito che può costituire il punto di partenza per una riflessione quanto mai pertinente. Noi dovrem­mo, come Paolo vuole, alzare «al cielo mani pure, senza ira e senza contese». Sappiamo quanto è rischioso l’ideale delle mani pure. L'esperienza ci pone sempre in una intima contraddizione fra due impera­tivi, ambedue assoluti: quello di tenere le mani pure da ogni contagio con l'iniquità di questo mondo ed in specie con la ricchezza di questo mondo e, dall'al­tra parte, il precetto di vivere senza rompere la no­stra solidarietà con i fratelli, coinvolgendoci nella lo­ro vita, prendendo parte alle loro tribolazioni e alle loro contraddizioni. Come si fa ad amare rimanendo puri? Come si può essere puri senza amare? Molti per esser puri hanno scelto la via del deserto. Nell’e­poca della mondanizzazione della Chiesa nacque il monachesimo antico: per esser puri molti uscivano dalla società. E’ una risposta al problema? A mio giu­dizio, di per sé no. È troppo comodo uscire dalla cit­tà considerandola perduta. Non è evangelico. Infatti Gesù ci entrò, Egli non fu un Esseno. Ai tempi di Gesù c'erano i monaci eremiti, puri, che vivevano in comunità esterne alla società del tempo. Gesù non fu uno di questi. Anzi il gruppo degli Apostoli aveva un cassiere. Si chiamava Giuda, è vero, ma aveva un cassiere. Gesù entrò nella cultura e nei modi del suo tempo; entrò nelle impurità. Dobbiamo vivere la so­lidarietà con gli uomini senza rimetterne in questio­ne le regole? Allora saremo impuri! Dobbiamo rimet­terle in questione. Starci dentro standone fuori, per così dire. Ecco la contraddizione. È quella che noi viviamo. Secondo me, per quanto questa scelta sia deludente perché non ci consente mai un punto di armonizzazione dei contrari, è l'unica scelta che ci è possibile e che ci guida a comprendere perché non diciamo frasi fatte, imparate nell'educazione devota, quando diciamo che siamo tutti peccatori: ci siamo dentro. Se è vero che la ricchezza, allora come oggi, è ricchezza di iniquità, siamo tutti iniqui, siamo tutti dentro una struttura iniqua che non abbiamo costrui­to noi con le nostre mani. Eppure ci campiamo so­pra. Oggi poi che viviamo in una articolazione dell'economia così stretta che non c'è un fatto economico in un punto qualsiasi del pianeta che non abbia rap­porti oggettivi con un altro fatto economico — il no­stro benessere e la fame sono strutturati in modo che l'uno è perché c'è l'altro — nessuno è puro. Se quan­do vedete — vi capiterà anche a voi, magari attra­verso la televisione — le immagini di bambini affa­mati, macilenti, prossimi a morire e guardate la vo­stra dispensa, la vostra tavola potete dire di poter al­zare al cielo mani pure? No. Non possiamo. La no­stra tribolazione è questa: non ci sono mani pure.
È una constatazione amara e anche pericolosa perché può esser la premessa per dire: «Non c'è niente da fare». Del resto, sul piano del fenomeno storico, vediamo come oggi, sia pure sotto segni diversi da quelli dell'antico monachesimo, molti giovani lascia­no la vita sociale, creano comuni isolate dalla società nella ricerca di una maniera di vivere più legata ai ritmi della natura, alla semplicità dello scambio, per liberarsi del peso di una iniquità più o meno oscura­mente percepita. Non sono però quelle le vie, date le premesse, che possiamo additare come le vie giuste, perché o ci si salva insieme o non ci si salva. Se io voglio salvarmi lasciando alla loro perdizione gli uo­mini corrotti, già per questo non mi salvo. E’ il vin­colo drammatico con cui siamo stretti. Senza starci ad agitare troppo su questo concetto che potrebbe diventare malsano, è bene che esso presieda, con la sua oscura luce, ogni nostro discorso perché non ci avvenga di considerarci puri e non ci avvenga di vo­ler essere puri non curandoci degli altri e non ci av­venga di curarci degli altri dimenticando il nostro impegno ad essere con le mani pure. È un discorso che si presta a molti sviluppi.
(….)
Il tema che ci viene proposto oggi — non esaltante, non facile a trattazioni liriche — è quello del denaro. Da una parte non è giusto demonizzare questo ritrovato umano perché, in fondo, permette una creazione di convivenze fatte di scambi, di pre­stazioni diverse eppure confluenti verso un bene co­mune. Senza il denaro questo non ci sarebbe. La sua non è quindi una iniquità intrinseca. Essa, evidente­mente, viene da altrove. E’ per il denaro che il conta­dino può acquistare i beni che lui non produce ed of­frire i suoi beni a chi non li produce. Questa dimensione sociale non è un fatto diabolico, è un fatto positivo. Viviamo in una società di scambi e davvero è bello notare come la fatica di uno rifluisce in benefi­cio di tutti e la fatica di tutti rifluisce, come possibi­lità di godimento di un bene, su ciascuno di noi. Il denaro è un ritrovato dell'uomo sociale, dell'uomo razionale. Però la purezza del denaro ci sarebbe se questi scambi, di cui il denaro è il simbolo e lo stru­mento, fossero impostati secondo amore, giustizia, fraternità. Se invece questi rapporti sono improntati alla violenza, alla prevaricazione, al dominio dell'uno sull'altro, ecco che questo maleficio della società tro­va il suo momento sacramentale nel denaro. Il dena­ro è il simbolo di queste disuguaglianze, di queste prepotenze. Non dobbiamo fare del denaro un fetic­cio diabolico, esso è lo specchio di noi, della nostra maniera di vivere ed allora dobbiamo spostare il di­scorso domandandoci qual è il giusto modo di pro­spettarci la logica dello scambio tra di noi. Qui tor­na, per forza di cose, la misura che ci pone la profe­zia evangelica.
Nella società di Amos, che era un povero pastore che guardava le cose dalla sua condizione di emarginato, la misura è la sofferenza dei poveri. È sempre così. Nelle nostre cronache nazionali abbiamo scoperto che i denari deposti nella più importante delle nostre banche servivano ad acquistare armi per ammazzare. Mentre la coscienza pubblica esecrava quella guerra, in realtà essa veniva aiutata. La necessità nostra non è tanto di trovare — esagero — una banca pura quanto di rimettere in questione l'ordine economico internazionale, cioè di prendere il male alla sua radi­ce. L'economia è perversa se da una parte crea l'ac­cumulo di denaro e dall'altra lo sfruttamento e la po­vertà. Antica parola, però noi a questa parola possia­mo dare mediazioni di ordine socio-politico ed eco­nomico che sono tutt'altro che astruse, sono importanti. A volte sento dire, da alte sedi e da più basse sedi, che una politica che dobbiamo preferire è quel­la ispirata ai valori cristiani. Vorrei sapere da voi se c'è un valore cristiano come questo, cioè la liberazio­ne dei poveri dal sistema dello sfruttamento. Mi pare che questo sia il valore cristiano in primis. Dire che il valore cristiano è la difesa di Dio è presuntuoso. Dio non ha bisogno affatto della nostra difesa. Chi lo difende lo offende. Dio ci aspetta nel poveraccio, nell'affamato: è lì che uno difende Dio. Un Dio che è nei cieli o nei simboli sacri è un Dio feticcio creato dalla nostra volontà di stendere dinanzi ai nostri oc­chi un diaframma che ci impedisca di scorgere la ve­rità delle cose. La scelta di fondo che dobbiamo compiere non è quella di una ricchezza pulita che non c'è. Anche i salari, gli stipendi rientrano in tutto questo. Noi possiamo usufruire di una privilegiata spartizione del reddito ma questo reddito viene da uno sfruttamento compiuto in regioni lontane. Non c'è nessun soldo puro. Ogni soldo ha fetore. Ma in­vece di stare a demonizzare il soldo andiamo a vede­re i rapporti reali che nel denaro si rispecchiano. Ci sono allora alcune scelte di fondo, di orientamento che, lo capisco, servono soltanto a dar luce all'oriz­zonte morale in cui ogni mattina dovremmo colloca­re con purezza la nostra coscienza.
Il primo obiettivo è di cambiare questo mondo, nel piccolo e nel grande, facendo scelte precise al riguar­do, interrogandoci, di fronte ad ogni legge che ci viene proposta, di fronte ad ogni programma che ci viene proposto, che cosa significa questo per coloro che portano il peso dell'iniquità della ricchezza. Io devo scegliere secondo questo. Tutto il resto è misti­ficazione e menzogna ideologica.
Un altro sentimento che dovremmo coltivare dentro di noi è la dimensione penitenziale - nel senso ricco, biblico della parola - della nostra vita. Siamo tutti peccatori. Come è vero, questo! Dobbiamo quindi vivere anche dei beni che sono nelle nostre mani con un certo senso di sofferenza, non con sod­disfazione. Noi amministriamo cose che più o meno sono derivare da una organizzazione-rapina. Questo sentimento non è un gioco psicologico, è una severa attitudine morale che poi scatta nei momenti giusti a suggerirci valutazioni, giudizi conformi a verità e non conformi alla saggezza costituita che ci governa. Un'altra prospettiva è quella che ci porta a mettere in questione quell'ottica del vivere che è derivata dal denaro. Nei trattati specialistici di fronte ad un bene si distingue il valore d'uso ed il valore di scambio. Noi siamo stati così mercificati mentalmente che non sappiamo più vedere le cose se non secondo il valore di merce. Il rapporto con la natura, con le co­se, è intercettato, siamo mercificati per cui quest'oc­chio non è soltanto quello che scorre la vetrina di un supermarket, è quello che scorre su una campagna, su un orizzonte, che si posa su un albero fiorito, che si posa su Dio. Anche Dio viene mercificato come garanzia dell'ordine economico esistente. L'occhio mercificato è l'occhio che domina, per cui ci è negata la purezza delle cose, un contatto vero con la realtà, perfino il godimento delle cose è sviato perché alla cosa di natura si sostituisce la cosa artificiale. Anche il frutto a tavola è il prodotto artificiale che parte da un supporto di natura, manipolato e tradotto in affa­re. Così la nostra vita consumistica ci fa deperire co­me soggetti umani. Perfino nei nostri rapporti inter-soggettivi quel che conta non è l'essere ma l'avere. Noi siamo fieri di stare con gente che ha, non con gente che è. Uno che è ma non ha, non conta più nulla per noi. Abbiamo questo vizio strutturale, una deformazione antropologica radicata dentro di noi che ci rende, da una parte, presuntuosi. Pensate al nostro atteggiamento di fronte a queste turbe di co­lore che vengono in mezzo a noi. In fondo un pez­zente dà noia. Che sia un uomo lo si dice nelle predi­che o nei trattati metafisici, ma non lo è. Abbiamo una ripugnanza profonda per l'uomo che non ha. Questo capita perfino dentro le famiglie, nei rappor­ti intersoggettivi più delicati. Ecco dove scopriamo l'effetto immanente della ricchezza iniqua: siamo di­sumanizzati. C'è allora una ricerca che attraversa gli spazi quotidiani del nostro vivere, ed è la ricerca dei rapporti veri, veramente umani. E la ricerca di un rapporto con la natura non soggetta a questa terribi­le legge che ci sta distruggendo tutto
(….)
Qui ci vuole — permettetemi il termine — una rivo­luzione culturale che ci restituisca gli occhi veri: nei rapporti reciproci, nei rapporti con la natura, con le cose, nel costruire i progetti della giornata, le villeg­giature... La nostra salvezza potrà forse venire dai poveri che hanno conservato, non perché più buoni di noi ma per condizione oggettiva, una innocenza, una freschezza di cui stiamo avendo bisogno. Venti-trenta anni fa credevamo di essere l'avanguardia nel­la carovana umana e si guardava gli arretrati dicen­do: «Presto arriverete anche voi». Oggi non abbiamo più il coraggio di dirlo. «Speriamo che non arriviate anche voi!». Forse dove un tempo si stendeva il no­stro paternalismo generoso sta calando il nostro sguardo ansioso di una risposta ad un modo di vivere diverso dal nostro. Forse siamo in questo crinale. Certo è un crinale che ha a che fare con ciò che ab­biamo letto. Noi vorremmo finalmente ritrovare rapporti di scambio in cui la legge non sia quella della ricchezza ingiusta ma sia quella dell'amore reciproco, della solidarietà. È un sogno antico, lo capisco, ma vi domando se sarebbe possibile vivere senza vergogna se questo sogno non fosse dentro di noi. Saremmo del tutto perduti. Ormai ce lo gridano le piante, il cielo, i frutti che portano il segno della nostra vergo­gna. Dobbiamo ridare concretezza a questo sogno antico — che è poi il contenuto antropologico del di­scorso evangelico — che ci dà garanzia che questo regno può venire purché noi scegliamo, purché ci mobilitiamo. Ecco allora i figli della luce — saremmo noi, facciamo conto che sia così almeno nei desideri — devono essere molto più abili che non i figli delle tenebre, quelli che amministrano il mondo di oggi. Questa abilità non vuol dire astuzia, vuol dire scal­trezza, competenza, impegno, attenzione. Dobbiamo non ritirarci lasciando il mondo in mano agli ammi­nistratori iniqui ma sottrarre il mondo dalle loro ma­ni. E’ questo il nostro compito. Come vedete allora un discorso che rischia di appiattirsi e di esaurirsi nella dicotomia manichea — il denaro è cattivo, la purezza è lasciarlo — si trasforma invece in un pro­getto certo doloroso, gravoso, fatto di dialettiche, anche personali, a volte lancinanti, ma un progetto che ha a che fare con la salvezza del mondo.


Venerdě 17 Settembre,2010 Ore: 13:48
 
 
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