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Il Padre che fu madre 

Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo


Trascrizione dell'incontro di presentazione dell'ultimo libro di don Paolo Farinella tenutosi a Roma il 19 gennaio 2011


L'incontro di cui proponiamo una trascrizione dalla registrazione della serata, curata da Stefania Salomone, è stato promosso da ADISTA, COMUNITÀ DI BASE DI SAN PAOLO, CONFRONTI, NOI SIAMO CHIESA ROMA, KOINONIA, LIBERAMENTENOI, CIPAX, GRUPPO DI CONTROINFORMAZIONE ECCLESIALE e si è tenuto Mercoledì 19 gennaio ore 18.00 presso l'Aula Magna della Facoltà Valdese di Teologia di Roma. All'incontro hanno partecipato Paolo Farinella, autore del libro, Franca Long, saggista, Gabriella Natta Guagliumi, della Comunità di base di san Paolo. L'incontro è stato coordinato da Valerio Gigante, redattore di Adista.

Moderatore (Valerio Gigante – Redattore Adista):
Queste nostre iniziative vogliono essere anche la proposta di un modo di lavorare in rete e di mettere insieme tante realtà che, volta per volta, si possano confrontare insieme a credenti e non credenti, e comunque appassionati di temi che riguardano la riforma della chiesa, il dibattito teologico, il rapporto tra fede e politica, per animare un dibattito che nel nostro paese è quanto mai essenziale, sia dentro la chiesa che nella società e nella politica.
Allora questo libro di Paolo Farinella, che presentiamo oggi, secondo me cade a fagiolo, anche se potrebbe sembrare di no, perché è un libro che dà una lettura molto originale e interessante di una parabola evangelica, e allora, nel rapporto tra fede e politica, con i nostri incontri su Chiesa e Mafia, e nostri dibattiti legati all’attualità della chiesa e della società, cosa c’entra?
Beh, secondo me c’entra moltissimo e allora, nell’introdurre questo dibattito che, oltre a Paolo Farinella, vedrà confrontarsi insieme a voi Franca Long della chiesa valdese e Gabriella Natta Guagliumi della comunità di base di S. Paolo qui a Roma, secondo me è un lavoro molto prezioso perché riporta alla nostra attenzione la questione del rapporto che dobbiamo avere con la parola.
Anzitutto per la necessità di riappropriarsi di una lettura adulta e consapevole della parola di Dio che è un mandato del Concilio Vaticano II per i cattolici , che ha aperto una questione molto grande perché – nella chiesa valdese è diverso – ma i cattolici hanno sempre poco frequentato e letto la Bibbia, anche perché la chiesa l’ha caldamente sconsigliato o addirittura escluso che i laici cattolici potessero avere un accesso diretto alla parola.
Allora quanto mai è necessario riappropriarsi di una lettura adulta e consapevole della parola, ma in questo periodo, secondo me, ancora di più perché quello che usa Paolo Farinella nella sua lettura e interpretazione originale della parabola del figliol prodigo, che lui ha chiamato in un altro modo, come spiegherà in seguito, la parabola del Padre che fu madre, è una lettura storico-critica della parola di Dio. E questo metodo storico-critico nella chiesa oggi vacilla un po’.
C’è stato un sinodo nel 2008 dei vescovi, dedicato alla lettura della parola, e questo sinodo si è concluso, come tutti i sinodi, con l’approvazione di una serie di propositiones, richieste e proposizioni che poi il papa sintetizza e ne fa un documento mesi dopo. Una di queste propositiones riguardata proprio il rapporto tra lo studio scientifico della Bibbia e la lettura teologica della Bibbia.
Veniva fuori una questione piuttosto rilevante, cioè che il sinodo, sulla scia di quanto già il papa aveva affermato nel suo libro su Gesù di Nazaret, criticava e ridimensionava il cosiddetto metodo storico-critico che si avvicina alla scrittura con gli stessi strumenti testuali e scientifici che si usano per i testi profani, perché diceva il papa Ratzinger e con lui i padri sinodali, che questo tipo di metodo rischia di ridurre la Bibbia ad un libro antico, insieme a tanti altri, invece è più opportuno utilizzare quella che il papa definiva un’esegesi canonica, cioè un approccio che assume come dato di partenza l’unità della Bibbia e tenta un’interpretazione più teologica che critico-letteraria.
Questo tipo di lettura, che marginalizza un metodo che dall’ultimo secolo, dalla metà del secolo scorso, è il metodo che più è stato usato dai teologi, è secondo me piuttosto pericoloso perché si tratta di una lettura, questa teologica, che, da una parte marginalizza l’esegesi cattolica rispetto alla scienza biblica mondiale, che lavora sulla Bibbia con altri metodi, ma anche perché si acuisce lo scontro tra le scienze storiche e sociale e lo studio dei teologi.
E poi c’è il discorso che questo tipo di lettura non fa che acuire la possibilità di un’interpretazione fondamentalista del testo sacro. Io credo che invece per noi sia importante sottolineare che bisogna leggere il testo sacro alla luce della cultura e della mentalità del tempo, che lo ha prodotto. Aggiungo che questo tipo di atteggiamento critico aiuta anche a mettere in discussione molte acquisizioni che la chiesa cattolica, attraverso la sua teologia, la sua prassi e la sua pastorale, ha dato per scontato, ma che scontate non sono.
Faccio un esempio. Si insiste sempre molto sul ruolo di Pietro nella storia della chiesa, però gli storici in realtà sanno che non c’è stato un episcopato monarchico nella chiesa di Roma fino alla fine del II secolo. Fare una lettura di questo tipo sulla figura di Pietro, anche se non ha origine nella scrittura, ha delle conseguenze anche pratiche nella vita ecclesiale attuale perché non è vero che Pietro è stato il primo papa e non ci sono stati dei successori, ma dei collegi per diversi decenni a dirigere la chiesa di Roma e altre chiese locali.
Questi dati quindi, che la teologia dovrebbe poter elaborare, anche in contesto ecumenico, perché il primato di Pietro è un nodo cruciale, porterebbe a mettere in discussione anche tanti assunti della chiesa istituzione e di come il potere ecclesiastico si è strutturato. Invece se il nostro approccio al testo sacro è un approccio solo fideistico, diciamo ingenuo che non tiene conto dei confronti con altri testi della Bibbia, non tiene conto del periodo storico, o delle acquisizioni delle scienze sociali, il nostro essere cristiani adulti secondo me risulta molto minacciato. E anche il nostro ruolo attivo all’interno della chiesa, o all’interno dell’opinione pubblica che dovremmo formare per la chiesa e la società.
Ecco perché secondo me anche parlare di un libro come quello di Paolo è parlare di questioni assolutamente stringenti e attuali nel dibattito della chiesa attuale. E allora ecco il senso di qu3sto incontro, il senso della mia presenza – sono un giornalista di un’agenzia politico-religiosa che si occupa di teologia, ma quando questa teologia e questo pensiero critico hanno un loro precipitato nella dimensione politica e sociale nel corso di liberazione dei popoli, di affrancamento dai recinti del sacro. Però libri come questo ci interpellano come credenti e anche noi come agenzia di informazione più legata alla situazione politica, oltre che a quella religiosa.
Allora passo la parola a Gabriella Natta, poi parlerà Franca, poi parlerà Paolo, per sintetizzare anche un po’ quello che abbiamo detto con l’auspicio che questi nostri interventi non siano troppo lunghi perché in un secondo giro potremmo coinvolgere anche voi e cercare di rispondere anche alle sollecitazioni che verranno dalla platea. Grazie
 
Gabriella Natta Guagliumi (Comunità di Base di S. Paolo):
Ringrazio gli organizzatori che mi hanno invitato a presentare questo libro, così ho avuto l’occasione di leggerlo e l’ho trovato molto interessante. Ringrazio le amiche Elena e Giovanna per i loro suggerimenti, noi siamo solite, come gruppo donne, fare le cose insieme e aiutarci. Vorrei prima fare una breve introduzione sul titolo e poi commenterò i vari personaggi così come li ha commentati l’autore rispetto al vangelo di Luca.
 Quindi parlerò del figlio maggiore, del figlio minore, del padre, e poi farò delle osservazioni mie.
Paolo Farinella considera la parabola del cosiddetto “figliol prodigo”, da lui ribattezzata del “padre che fu madre”, la chiave ermeneutica di tutta la rivelazione cristiana, definendola “la parabola delle parabole”. Egli analizza le parole, i versetti, l’intero racconto, offrendoci un quadro complessivo che sa trovare tutti i riferimenti con altri testi sia del testamento ebraico che di quello cristiano. Non solo: i confronti si spingono fino ai nostri giorni, ai nostri comportamenti e a quelli della gerarchia cattolica.
Ma al di là della ricerca minuziosa e approfondita, si mette in luce soprattutto la giustizia-misericordia di Dio, il suo amore-a-perdere, che “esiste per sé e non per quello che riceve”. L’A. sottolinea questa attitudine di Dio alla misericordia, che nel senso etimologico ebraico (rahamìm) richiama l’utero materno e si può tradurre con “generare di nuovo”. La misericordia è il nome nuovo della giustizia di Dio, nucleo essenziale della parabola di Gesù.
Ma vediamo come vengono descritti i personaggi.
 
Il figlio maggiore
Quando si legge o si ascolta questa parabola “si è tentati di prendere le sue difese per l’ingiustizia palese subita”. E’ questo un sistema usato spesso da Gesù nelle sue parabole, quello di indirizzare verso una conclusione apparentemente ovvia che viene invece sorprendentemente ribaltata dalla novità del suo messaggio.
Infatti il figlio maggiore vive in casa, ha sempre compiuto il suo dovere, ha osservato le regole, ha obbedito ai comandi del padre. Questo ci fa nutrire la speranza che lo abbia fatto per amore, ma i fatti successivi ci faranno ricredere.   Quando il fratello minore torna a casa, lo sentiamo dire al padre: ”ora che è tornato questo tuo figlio”, e scopriamo così che non lo considera suo fratello, che non esiste nessuna relazione con lui. “Egli è troppo pieno di sé e della sua presunzione di essere sempre stato “il figlio buono”. “E’ stato fisicamente in casa di suo padre, ma mai affettivamente nella casa del padre”. Direi che è stato incapace di fare il salto dal dovere verso il padre alla relazione con il padre.
Lo si può paragonare al sacerdote o al levita che passano per la strada di Gerico e non si fermano a soccorrere l’uomo ferito, perché è impuro. Il loro dovere glielo impedisce.
Scrive Farinella: “Per essere capaci di amare bisogna lasciarsi amare e perdersi tra le braccia di un amore gratuito”.
Non sappiamo se alla fine questo figlio rientrerà nella casa del padre: il racconto non lo dice, anche se Paolo Farinella propende per il no e con lui altri biblisti e teologi.
 
Il figlio minore
Nella parabola non viene detto per quale motivo egli sia andato via di casa, sappiamo però che ha chiesto la sua parte di eredità (il padre, si sa, possiede il patrimonium) e ha poi sperperato tutto.  
Forse, come tutti i giovani, voleva sperimentare il mondo, e anche l’A. riconosce quello che la psicoanalisi ha elaborato: è necessario uccidere simbolicamente il padre per conquistare una propria identità distinta da quella paterna. Dice infatti che “tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità devono diminuire se vogliono che gli altri diventino adulti”. Mi domando se l’amore del padre non fosse stato troppo possessivo. Se seguiamo questa interpretazione allora anche il padre, durante l’assenza del figlio potrebbe aver interrogato la propria coscienza e riconosciuto gli errori commessi. Ha lasciato che il figlio se ne andasse, ma avrà cercato – prima – di intessere una relazione con lui?
Se proseguiamo sulla strada delle possibili interpretazioni troviamo anche quella di Rainer Maria Rilke. Secondo il poeta, in casa il figlio era molto amato e così è partito per fuggire questa limitazione. Si era prefisso di non amare mai per non porre nessuno nella situazione terribile di essere amato. Quando torna dai genitori si getta ai loro piedi scongiurandoli di non amare. Scrive Rilke che il sentimento ideale è quello che si prova per Dio perché egli non impone nessuna limitazione a chi ama. Dio è soltanto una direzione dell’amore, non un oggetto d’amore.
Ma, riprendendo il filo della parabola, vediamo che il figlio minore, nell’abbandonare il padre, il fratello, la casa, andandosene lontano “si è comunque portato via un pezzo della vita del padre che lo salverà, anche a distanza”.
Quando infine torna lo fa per necessità, non ha più nulla da perdere, ma poi si lascia travolgere dall’amore senza condizioni del padre.
Dei due figli uno pecca per eccesso, per esuberanza, l’altro per difetto, perché dominato dalla paura e dal dovere.
Scrive ancora Farinella: “In ciascuno di noi vi sono due figli, il minore e il maggiore. A volte prevale l’uno a volte l’altro, a volte queste due parti ci immobilizzano nel vuoto in cui siamo immersi”. “I due figli nella parabola non si incontrano mai, non si parlano, sono estranei in casa ed esuli nell’affetto: l’unico collegamento tra loro è il padre”.
 
Il padre
Essendo la rappresentazione di Dio Padre, può essere solo perfetto. Come Dio, dopo la creazione, si è ritratto lasciando il mondo nelle nostre mani, così questo padre non si oppone quando il figlio chiede la sua parte di eredità, sebbene sia una richiesta formalmente illegittima; permette che abbandoni la sua casa e lo accoglie facendo festa quando torna dopo aver dissipato tutto e aver patito la fame pascolando i porci, animali impuri di un padrone straniero.
Ma il suo comportamento di giustizia misericordiosa non si ferma al figlio minore. Infatti, quando quest’ultimo torna, il padre esce di casa per andare incontro anche al figlio maggiore che tornava dai campi e lo rassicura, rivolgendogli parole amorose (“tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”). Non era necessario regalargli un capretto per fare festa con gli amici, perché già tutto era suo.
Nota Paolo Farinella che “l’uomo si crede giusto quando fa le parti uguali; Dio è giusto quando tra diseguali sceglie il più svantaggiato”.
Infatti la logica umana non è la logica divina. In Isaia, il Signore dice: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”. Dio si comporta come quel padrone che manda in ore diverse gli operai a lavorare nella vigna dopo aver pattuito con i primi una paga e poi retribuisce in uguale misura anche quelli arrivati più tardi.
L’A. fa notare l’intensità drammatica della scena del ritorno del figlio cosiddetto “prodigo”, costruita da Luca, l’unico evangelista che riporta questa parabola. Ci sono cinque azioni del padre, messe in sequenza di crescente pathos che, quando il figlio era ancora lontano, lo  vide,  fu commosso nelle viscere, gli corse incontro, si gettò al collo, lo baciò.
“Fu scosso nelle viscere come se lo partorisse nel momento stesso in cui lo vede”. Questo è l’aspetto materno riscontrato nel padre. In molti profeti (Isaia, Osea, Geremia) viene in luce un Dio compassionevole e materno, ma sappiamo quanti altri brani dell’A.T. contengono episodi di violenza, spesso decisamente misogini.
Gli corse incontro: per un padre orientale correre è perdere la faccia, forse per una donna sarebbe stata una cosa naturale.
Gli si gettò al collo: non è il padre che aspetta l’abbraccio del figlio ma fa lui il primo passo.
Lo baciò commosso: il bacio è mordere l’altro con l’intento di mangiarselo e interiorizzarlo trasformandolo nella parte migliore di sé.
 
Osservazioni di una donna
Cercare le connotazioni femminili di Dio fa parte del cammino di ricerca dei gruppi donne delle cdb (poi integrato dalla collaborazione con altri gruppi di donne), così come lo è far rivivere le donne della Bibbia e di altre grandi narrazioni, riscoprendole dove sono nascoste e valorizzandole dove sono screditate dalla mediazione della scrittura maschile. Riconosciamo questo come parte importante della nostra esperienza, anche se non sufficiente per smascherare il potere patriarcale della chiesa gerarchica. Se Dio creatore è maschio, non può esserci nessuna madre e nessuna proiezione onnipotente di sé da parte delle donne. Ma forse questa mancanza, questo vuoto, ci ha aiutato a prendere coscienza della nostra parzialità.
Nella parabola la madre non appare, anzi non appare nessuna donna: dal padre, ai figli, ai servi, tutto è al maschile e non è certo da imputare a Gesù l’avere omesso le donne (l’A. dice che forse la madre è dietro la tenda, come è uso in oriente, oppure non appare perché la sua presenza è chiaramente inutile).
Eppure le madri sono presenti nelle relazioni familiari, sono loro che “generano” da sempre, anche se chi ha scritto, nella storia, sono stati prevalentemente se non esclusivamente dei padri.
La composizione dei personaggi della parabola è simile a quella della gerarchia cattolica: composta solo da uomini (molto meno misericordiosi del padre della parabola), uomini che però parlano a nome di tutti, anche delle donne. Ma con quale esperienza della vita delle donne? E non dico questo per rivendicare il sacerdozio femminile. Ci basta quello maschile che Gesù tra l’altro non ha mai istituito.
 
E allora, come in questo caso, può essere inutile attribuire a Dio degli aspetti femminili, ai padri la connotazione di madri, se non avviene un cambiamento profondo nel linguaggio, nel simbolico, nel comportamento. Le madri, a cui i figli e le figlie potranno rivolgersi, avranno le loro caratteristiche e le loro prerogative, così come i padri le proprie.
E’ a causa di questo Dio – invocato a sostegno di guerre e di violenze, imprigionato in veli sacrali - che noi donne preferiamo parlare di Divino, un divino che abita i nostri corpi di donne e uomini, che si esprime attraverso di essi (corpi affamati e assetati, velati o esposti ignudi, dimenticati o negati), un divino soffocato dalle violenze e dagli egoismi, ma che rivive nelle relazioni che riusciamo a tessere.
E’ su questa strada che molti uomini, venuti nella consapevolezza della loro parzialità, della presenza delle diversità, hanno accettato la sfida e con loro è potuto iniziare un dialogo costruttivo.
Io nutro la speranza che la passione e la profondità di analisi che Paolo Farinella ha saputo mettere in questo libro conduca lui e altri studiosi a “mangiare” (cioè accogliere e assimilare) anche il frutto della elaborazione delle “figlie” di oggi, se vogliamo che la vita delle donne e degli uomini si liberi dai condizionamenti imposti dalla chiesa gerarchica e dagli atei devoti proprio in nome di Dio.
 
Franca Long (Chiesa Valdese):
Per entrare nel dibattito su questo bel libro di Paolo Farinella con una sottolineatura “protestante” (come mi è stato richiesto) ricorro a tre “letture”, anzi tre flash sulla parabola di Luca.
1) Anni fa mi capitò, nell’ambito di un convegno della Federazione dei giovani evangelici (la Fgei) di assistere ad una rappresentazione sulla differenza di genere. Un piccolo gruppo di giovani donne rappresentò al femminile La parabola del figliol prodigo. Protagonisti: un Padre/madre e due sorelle. La minore lascia la casa paterna con la sua eredità anticipata, alla ricerca della propria realizzazione e libertà. Come il giovane della parabola di Luca, affronta errori, difficoltà e delusioni, ma la sua sconfitta arriva prima di eventuali scelte balorde: è subito, sulla strada, frutto della violenza maschile: viene stuprata e derubata; ridotta in miseria diventa prostituta. La “differenza” del suo corpo di donna fa succedere cose, determina eventi… Se il fratello ha sperperato il denaro in gioco e gozzoviglie, lei lo perde perché sopraffatta dalla brutalità maschile; se il fratello va con le prostitute, lei azzera i suoi sogni nella pratica coatta della vendita di sé.
Le ragazze autrici di questo testo teatrale ritennero di dover modificare – con il genere – anche (parzialmente) il finale. Il ritorno alla casa paterna della giovane disperata, segnata nel corpo e nello spirito, vede la pena e il coinvolgimento affettivo della sorella maggiore, consapevole che ormai il “valore” sociale della sorella minore è pari a zero, annullato dalle esperienze subite. La felicità del Padre/Madre, la sua gioia, la festa esprimono appunto il capovolgimento della meschinità umana: sono la salvezza gratuita, l’amore tenero e incondizionato di Dio per ogni sua figlia, ogni suo figlio.
2) Il pastore Bruno Corsani (che per tanti anni ha insegnato Nuovo Testamento in questa Facoltà), nell’esegesi della Parabola del figliol prodigo, sottolinea come elemento chiave il perdono di Dio “concesso in Cristo” che – cito – “non è solo rimozione della colpa e liberazione dalla paura della pena, ma anche piena restaurazione nella condizione di figli”; affermazione fortemente presente nelle Lettere ai Galati, agli Efesini, ai Colossesi : il perdono di Dio cancella la colpa.
La dura critica del fratello maggiore nei confronti della festa organizzata dal padre corrisponde all’atteggiamento dei Farisei davanti all’amore di Gesù per i peccatori. Nella parabola si intravede – dice Corsani – la critica alla pietà farisaica basata sulle opere. Sottinteso: e non sulla sola fede, affermazione, come sappiamo, centrale nelle chiese nate dalla Riforma. Questo spiega anche la predilezione degli evangelici per questa parabola lucana!
3) L’intreccio giustizia-amore ha grande rilevanza e respiro nel libro di Farinella ed è tema sempre più universale e urgente.
Alla fine degli anni ottanta (del secolo scorso) la teologa femminista Sally McFague scriveva “Modelli di Dio: teologia per un’era nucleare ecologica”, che lei stessa definì un contributo alla teologia della liberazione. “Amare gli/le altre/i significa volere per loro l’esistenza, il diritto alla nascita, al nutrimento, al pieno sviluppo per sé e per gli altri” (pag.161) Per McFague l’amore è un impegno, un progetto di lavoro, non un’emozione: si traduce nel cercare la giustizia.
Nella sottolineatura protestante, l’essere umano è irrimediabilmente peccatore/peccatrice, incapace di amare Dio/Altro in modo autentico, totale; è per sua condizione in conflitto con Dio, ma…per fede risponde alla chiamata/vocazione del Signore e, come può o come sa, si mette al Suo servizio…
Nello stesso orizzonte si trova il teologo Joseph Fletcher che, già alla fine degli anni sessanta, nel suo scritto Moral responsability (Philadelphia 1967) affermava (con evidente vena polemica nei confronti dei pii benpensanti): “La prassi migliore è quella di non usare mai la parola amore nel discorso etico cristiano: Dio solo è Amore. Quanto a noi, ogni volta che pensiamo “amore” dovremmo dire “giustizia”. McFague apre su questo tema una riflessione importante: DIO MADRE giudice non è Colui che emette le sentenze di assoluzione o di condanna, ma Colei che stabilisce la giustizia, rende cioè praticabile la giustizia.
Dio, come appunto scrive Paolo Farinella, è “forza dinamica che mobilita”, che ci mobilita; il suo Amore non è un sentimento o un’emozione: il suo amore è agape (condivisione, solidarietà, speranza collettiva)
**Il padre/madre della parabola sceglie di stare con i figli, con tutti e due, fino in fondo (p.123)
**Dio padre/madre in Gesù Cristo si fa creatura umana fino in fondo, fino alla croce, perché sia possibile la vita per tutti i figli e tutte le figlie, “anche se – come scrive il nostro autore – sono/siamo stranieri in casa, la negazione della fraternità” (p.62-63) Pensiamo agli orrori di tutte le cosiddette guerre di religione, ma anche alle piccole quotidiane reciproche scomuniche!
Concludo questi pensieri sparsi, ringraziando l’Autore di questo libro: bello, rigoroso, ricchissimo di aperture, di approfondimenti biblici, teologici, psicologici…Vale veramente la pena di leggerlo e…di studiarlo!
 
Paolo Farinella (Autore):
Veramente non immaginavo che questo libretto, che è frutto occasionale di una provocazione di una persona di 70 anni che mi ha detto “è una vita che io mi dibatto con questa parabola e non riesco a capire di cosa si tratta”, e allora ho cominciato a riprenderla, leggerla, ricominciare a studiarla nel tentativo di aiutare questo amico, che fra l’altro non conosco, ed è venuto fuori questo libro che è diventato … – lo so grazie al fatto che ricevo tantissimi inviti – e so che è stato fatto oggetto di studio in Francia per una settimana. 
Allora evidentemente dice qualcosa. Premetto che non sono un teologo, né voglio esserlo, con tutto i lrispetto per i teologi e le teologhe. Ognuno credo che debba svolgere il suo ruolo, il suo compito e lo deve svolgere come meglio può, con gli strumenti che ha. Davanti a me avevo due scelte e avrei ancora una scelta che sarebbe quella di scrivere dei commenti alla Bibbia. Certo nessuno può essere competente in Bibbia!
Sono trent’anni o grosso modo che mi cimento con l’introduzione al Vangelo di Giovanni e sono ancora fermo lì. Quindi ci sono specializzazioni, ci sono puntualizzazioni, però non bisogna mai perdere l’orizzonte della Bibbia.
E quindi potevo scegliere lo scrivere, pubblicare ad un livello – non dico sapiente, ma saputo – riservato alle persone che sono addentro alle questioni bibliche, e quindi pubblicare in greco, in ebraico, ecc, oppure scegliere la via della divulgazione. Io ho scelto questa seconda via, che è in un certo senso mi fa scadere dal livello della conoscenza biblica, però credo che sia il servizio che bisogna fare alla chiesa oggi.
Diceva Paul Claudel che “i cattolici hanno tanto rispetto per la Bibbia che non la aprono nemmeno”. Nel seminario di Genova – per riforma del Concilio di Trento - c’è l’armadio della Bibbia con l’unico armadio dove venivano conservate le Bibbie, e c’erano le ante e davanti c’era il cancello in ferro e questo armadio era l’unico di tutta la Bibbia, 450 volumi, chiuso a chiave. Chi voleva leggere la Bibbia doveva chiedere il permesso. E se voi vi ricordate un libro, certamente Marinella se lo ricorderà, di Mons. Piazza “Pagine difficili della Bibbia” che ha dovuto centellinare le parole - quando si parlava di Adamo, Eva, forma simbolica, non simbolica, forma mitica, non mitica – perché rischiavano l’ostracismo.
Qui presenti abbiamo un esegeta, P. Franco De Carlo che ha fatto la sua tesi al Pontificio Istituto Biblico sui salmi usati nel vangelo di Marco, che sono lavori essenziali per capire il vangelo. Logicamente però io non consiglierò mai il suo libro ad un pubblico comune perché prima di tutto è scritto in greco, quasi tutto, un terzo è scritto in greco. E’ specialistico, però è fondamentale; appena l’ho visto oggi gli ho detto: “Però tu devi ritradurlo in un libretto più piccolo per farne un’operetta che non ha meno valore, ma che possa aiutare i lettori del vangelo di Marco a capire l’uso che dei salmi si fa all’interno di quel vangelo”.
Perché oggi credo che il servizio sia questo. Altrimenti finiamo in quelle aberrazioni che stiamo vedendo nei nostri giorni, cioè di una … per favore non chiamatela mai chiesa, perché non è la chiesa, chiamiamola quello che è da un punto di vista teologico-tradizionale, semplicemente ‘gerarchia’, che sta esautorando anche con quel documento che è post sinodale, che è secondo me un obbrobrio, e lo dico qui a Roma come nella sede della Pontificia Università Lateranense ho contestato il libro del papa su Gesù di Nazaret, perché lui non ha competenza su Gesù di Nàzaret.
Perché come papa non può scrivere un libro su Gesù di Nàzaret, perché commette un illecito e, da un punto di vista etico, commette un delitto. Perché nel momento in cui tu papa scrivi un libro su Gesù di Nazaret, tu devi sapere, anche se poi a pag. 19 e 20 della tua introduzione tu mi dici che ti possono criticare perché questo è frutto della tua ricerca, ma tu sai bene che lo useranno come testo di catechesi nelle parrocchie perché diranno: “questo è affidabile perché l’ha detto il papa!”
Questa è la mistificazione. Allora il mio compito, almeno quello che mi ritrovo tra le mani – non è che io ho scelto di fare questa cosa... Oggi per esempio vedo diverse persone che mi conoscono e mi salutano, anche a mia insaputa, come Scajola. Io sono conosciuto anche a mia insaputa, però credetemi non è merito mio, ma demerito degli altri. Perché se gli altri fossero quello che dovrebbero essere, nel vuoto anche il nulla risplende, ma se ci fosse un pieno, allora ognuno varrebbe per quello che è, e no avrebbe un valore superiore; perché io credo di essere esposto in modo superiore proprio perché c’è il vuoto.
Allora quella piccola cosa che sono io diventa chissà cosa e credetemi non sono il tipo che si monta la testa perché no accetterò mai un sistema carri eristico all’interno della chiesa e se devo fare trasloco – l’ho detto al mio vescovo, a Bagnasco – lo farò solo per diventare papa, perché un trasloco costa.
E, visto che devo spostare anche una biblioteca considerevole, allora io mi sposto per non meno di quello. Detto questo, di fronte a questa parabola, mi sono trovato spiazzato, perché più leggevo, più mi si confondevano le idee, più approfondivo, più capivo che dovevo trovare un punto centrale che potesse essere la chiave per la comprensione; per un semplice motivo, perché non riesco a leggere un testo biblico senza tenere la visione globale di quella che è la scrittura.
E questo me l’ha insegnato il giudaismo. Penso che noi oggi non comprendiamo il 90% del vangelo perché lo leggiamo con una mentalità latina, con una mentalità occidentale e non lo incarniamo nel suo contesto naturale che è giudaismo. I vangeli sono scritti giudaici del I secolo d.C. e per un periodo di tempo, anzi direi che è uno dei motivi della scomunica che si sono dati gli ebrei rispetto ai cristiani e viceversa, è stato proprio questo, perché ad un certo m omento i cristiani pretendevano di leggere come parola di Dio i testi del Nuovo Testamento.
Il mio lavoro in questo momento … in questo momento non proprio … sto lavorando dall’epoca di Gerusalemme ad una grammatica greca che comprenda tutta la grecità biblica. Esistono solo grammatiche del Nuovo Testamento. A casa mia ne ho una sezione intera di grammatiche del Nuovo Testamento; in questi anni ne sono uscite tre nuove, a diversi livelli, però tutte del Nuovo Testamento. Ma come si fa a leggere il Nuovo Testamento senza comprendere che il Nuovo Testamento usa la traduzione della Bibbia della LXX come testo di riferimento?
Allora per capire le singole parole, per capire le singole frasi, per capire il testo, il contesto, il metodo storico-critico che oggi è in crisi perché prendono piede altri metodi … per esempio oggi il metodo comunemente utilizzato è il cosiddetto “metodo narrativo”. Cioè si prende non più un testo piccolo, ma un testo nella sua totalità, si esamina nella sua totalità e lo si mette a confronto con tutta la scrittura – ed è questo il midrash ebraico – confrontare la scrittura con la scrittura.
Mi sembra di aver trovato questa chiave nel fatto che i primi cristiani son ebrei, che leggono la Bibbia con la mentalità e la cultura ebraica e applicano i metodi esegetici ebraici. E nel vangelo è pieno, bisogna tirarli fuori. Questa parabola, che non sappiamo da dove viene, perché come si dice tecnicamente è un hapax legomenon, cioè una ‘cosa detta una sola volta’, e si trova in Luca. Però noi sappiamo che Luca è, dei tre evangelisti sinottici, il più tardo nel tempo, verso la fine del I secolo.
Da dove lo deriva? Noi dal suo vangelo sappiamo che ha delle fonti sue, sicuramente dipende da Marco, conosce Matteo, però ha accompagnato Paolo nei suoi viaggi. Qual è il tema di fondo di Paolo? Il tema di fondo di Paolo è la giustificazione, su questo non ci piove. Questo poi è compito dei teologi dare le spiegazioni e fare la struttura. Perché la giustificazione è il tema centrale di Paolo? Per un semplice motivo di ordine storico: perché i primi cristiani hanno avuto problemi di convivenza tra ebrei e greci. I greci dovevano essere considerati cristiani di seconda categoria e dovevano diventare prima ebrei e poi diventare cristiani.
E’ a questo che si oppone Paolo. Paolo annuncia una libertà di adesione a Cristo perché è l’unico mediatore; non più il sacerdozio, non più il tempio e neanche la struttura, che anche nelle comunità di Paolo già si ha, e forse anche nella comunità giovannea. L’unica mediazione è l’accesso all’incontro con Gesù Cristo mediante la fede. Penso che un giorno senza nemmeno accorgercene ci sveglieremo e non ci troveremo più né cattolici, né protestanti, né musulmani, ma semplicemente credenti in Dio. Il giorno in cui accadrà questo il vangelo sarà compiuto.
C’è un bellissimo testo che vi consiglio, il n. 4 della rivista Concilium del 2007, “Cristianesimo e democrazia”, vi sono alcuni aspetti, ad esempio  in questo numero fatto quasi tutto da brasiliani, Eduardo Hoornaert  in  “Lezioni di un passato comune” mette in evidenza come il carisma delle cosiddette tradizioni fondamentali monoteiste, Corano, Antico Testamento e Vangelo – compreso il musulmanesimo, il Corano, e cita testi a non finire – avessero originariamente una visione universalistica e quindi dialogante. Nel momento in cui affermano il monoteismo come unica loro religione, diventano esclusivisti e giustificano la violenza (cf Eduardo Hoornaert, «Lezioni di un passato comune» in Concilium 4 (2007), [543] 19 – [551] 27).
Credete voi nelle cose che Dio ha rivelato? Rispondono gli ebrei: “Noi crediamo nelle cose che Dio ha rivelato a noi!” Non che ha rivelato a tutti, a noi. Però all’interno di queste tradizioni noi troviamo degli spiragli, ad esempio le leggi di Noè, che hanno un respiro universale – e questo lo ammettono anche gli Ebrei oggi. Le leggi di Noè sono per tutti, ma non i comandamenti di Mosè che sono per gli Ebrei. Ecco se noi andiamo alla natura, all’osso delle cose, scopriremo delle sorprese, e la sorpresa che io ho scoperto … mi sembra di capire che, applicando le regole dell’esegesi di Rabbì ben Eliezer che si usavano all’epoca di Gesù in modo comune, e sono 32 regole esegetiche che gli ebrei utilizzavano, Luca, che conosce bene il mondo ebraico, anche perché, tra gli evangelisti, è l’unico che riesce ad usare lo stile semitico della LXX, specialmente nei primi due capitoli, quelli dell’infanzia che sono scritti per ultimi … allora Luca fa un’applicazione, a modo giudaico, del capitolo 31 di Geremia.
E’ il capitolo famoso che poi verrà ripreso da Gesù nell’ultima cena. “Io concluderò con la casa di Israele una nuova ed eterna alleanza”, questo è l’ultimo versetto, Ger 31,31, però se voi leggete il capitolo 31 tutto per intero, che viene riportato per esteso … perché uno dei modi con cui io scrivo è questo: quando faccio delle citazioni importanti, le riporto sempre per esteso, perché uno che legge deve poterlo vedere immediatamente, e adesso le metto in parallelo così che ci si possa rendere conto delle somiglianze che delle differenze.
E metto in evidenza, a pag. 55 mi pare, questo confronto tra queste figure che si trovano nel profeta Geremia, che c’è un uomo con due figli, poi abbiamo una donna con dei figli che piange i suoi figli, abbiamo i due figli, e via di seguito, le pecore anche qui. Ed è un commento nuovo. Il tema dell’alleanza di Geremia applicato utilizzando una parabola che Luca recupera probabilmente dalla tradizione orale, oppure la inventa lui di sana piante, ed esplicita l’insegnamento di Paolo, cioè che non c’è più greco né giudeo né uomo né donna, ma c’è soltanto l’uomo, la persona, l’individuo in Cristo.
E’ il concetto della salvezza universale rinchiuso nella dinamica del vangelo. E poi come si propone questa dinamica e questa salvezza nel testo di Luca? Si propone attraverso una modulazione che è tutta particolare. E bisogna leggerla in greco per capirla. Perché, intanto dice che è un uomo e non dice chi è. Come giustamente è stato detto non c’è la madre, perché nel contesto in cui Luca scrive, ed è il contesto sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, basta leggere Esodo 20,17 nell’ultimo comandamento, “Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, il suo servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino, e tutto quello che è del tuo prossimo”.
La donna è mero possesso dell’uomo.  E devo fare anche una precisazione, secondo la mentalità ebraica, non è la donna che trasmette la vita. Secondo la mentalità ebraica è l’uomo che trasmette la vita, la donna è soltanto un contenitore che tiene in caldo il seme della vita, tant’è vero che in greco si usano due verbi distinti: uno è gennáo per ‘generare’, l’altro è tìktō, esclusivo per la donna, che significa ‘partorire’; la donna non genera. E’ evidente che in una cultura del genere, l’immagine di Dio è un’immagine proiettata, è evidente. Ma non è compito mio di biblista fare applicazioni, farei “eisegesi”, cioè immetterei nel testo quello che nel testo non c’è. Però sono convinto che se gli evangelisti scrivessero oggi avrebbero di Dio un’immagine diversa.
Tenuto presente Giovanni 1,18 in cui si dice che Dio nessuno lo ha mai visto e, se nessuno ha mai visto Dio, come facciamo a parlare di Dio? Io credo che noi possiamo parlare solo di Gesù Cristo. E di Gesù Cristo sempre lo stesso versetto 18b di Giovanni ci dice che lui ha fatto l’esegesi del volto del Padre. Il testo greco dice che ha fatto l’esegesi. Allora io devo ascoltare la persona di Gesù perché è soltanto lui che ha visto il Padre.
E quando vi dicono che Dio compare qui o compare lì, che la madonna è apparsa qua o là, sappiate che viene dal demonio, perché Dio e la madonna sono persone serie e non vanno in giro ad apparire né di giorno né di notte. E sappiate anche che, in base alla teologia cattolica tradizionalissima – e io mi appello a questa teologia – non sono tenuto a credere né a Lourdes né a Fatima, né alla madonna del pero, né alla madonna del bosco, né alla madonna della foresta, né alla madonna che piange, né alla madonna sanguigna, né alla madonna sempre madonnara.
E io non credo a queste apparizioni e con questo sono perfettamente cattolico sino al midollo dell’osso. Se poi ci aggiungete padre Pio la frittata è colma! Perché quella è l’oscenità del sacro che no c’entra niente con un rapporto di fede. Ecco perché dico che dobbiamo ritornare esclusivamente alla nuda parola di Dio prenderla e sminuzzarla parola per parola, e assaporarne la valenza. Per esempio quando mi dice che questo padre ha due figli, è chiaro se voi leggete il resto e il contesto di tutto il vangelo, e leggete l’Antico Testamento – e credo di aver riportato quasi tutti i rapporti che ci sono nella Bibbia, voi vedete che il rapporto tra fratelli potrebbe essere una filigrana di lettura.
Se leggete il capitolo sulla legge della impossibilità. Perché vince sempre il secondo che giuridicamente non aveva nessun diritto? All’epoca di Gesù il patrimonio non poteva essere diviso perché ereditava soltanto il figlio maggiore. Il figlio minore aveva un terzo di eredità, che per non poteva vendere, era titolare ma non poteva disporne, perché la proprietà non poteva essere divisa. Il figlio maggiore rappresentava la tutela della proprietà.
E questo è stato fino a Napoleone. Grosso modo nel XVII secolo i monasteri, i conventi erano pieni di figli secondogeniti per non sperperare il patrimonio. Il motivo per cui nella chiesa cattolica si ostina a difendere il celibato non credete che sia per motivo di assimilazione a Cristo, queste sono balle che hanno voluto far credere! Ma il vero motivo dal X secolo in avanti, con l’XI secolo in modo particolare in Francia, è per garantire la legittimità del figlio del re di Francia e per impedire che il prete sposato possa intaccare il patrimonio della chiesa.
Questo è il vero motivo detto papale papale. E non motivi spirituali. Se poi i teologi o gli spiritualisti o gli ascetici vogliono farci degli arzigogoli sopra sono liberi di fare quello che vogliono, però siano onesti nel dire quali sono i veri motivi.
Un Padre aveva due figli, il fariseo e pubblicano che stanno nel tempio. E poi ci sono tanti altri, per esempio Esaù e Giacobbe e via di seguito. Nel libro cerco di spiegare questi rapporti, Pharez e Zerah, quello che nasce prima viene dopo, quello che doveva nascere dopo viene prima, e c’è tutto un casino che si sviluppa proprio per affermare un principio, che è il principio paolino della prima lettera ai Corinzi, che Dio sceglie nel mondo tutto ciò che non conta niente per affermare il regno di Dio.
Non dovrebbe essere questo un principio nella chiesa oggi? Non dovrebbe essere questa la pastorale? Non dovrebbe essere questo l’annuncio profetico? Non dovrebbe essere questo quello che il papa dal balcone, o il cardinale Bertone dal balchino, dovrebbero gridare davanti a un Berlusconi su questo governo? Non dovrebbero dire: “E’ il secondogenito che ha diritto, cioè sono i poveri che hanno diritto, che devono essere tutelati”?
Questo dovrebbe dire la chiesa, questo dovrebbe gridare e no semplicemente andare a pranzo, di giorno, di notte, come i carbonari, per sollecitare interessi vergognosi, perché in questo modo noi nascondiamo il vangelo, anzi lo rinneghiamo il vangelo. Dice Paolo: “Dio non sceglie le cose che contano”, anche perché aggiunge poco prima che “soltanto lo Spirito è capace di leggere le profondità di Dio”. Allora bisogna veramente diventare spirituali per poter leggere le profondità di Dio.
Perché soltanto nello Spirito del risorto noi possiamo incontrare Dio. Che cosa dice il figlio minore al padre? Il figlio minore guardate non vuole semplicemente andarsene di casa. Il figlio minore fa una richiesta precisa. Purtroppo le traduzioni non rendono. Voi sapete qual è il sistema delle traduzioni? La CEI, prendendo atto che il popolo di Dio non conosce la scrittura, ha fatto la scelta liturgica, cioè quella del testo che si capisca subito e che abbia un buon suono e che sia orecchiabile, anche a scapito del significato. Io preferisco una traduzione più stridente, ma che sia più letterale e profonda e poi magari si spiega.
Allora, invece di perdere tempo a fare lettere pastorali, a fare piani pastorali, a fare progetti culturali e via di seguito … sono cinquant’anni ormai che facciamo queste cavolate qui. Bastava semplicemente fare un solo documento di una pagina e dire: “Da oggi in poi si fa solo Bibbia, Bibbia, Bibbia. Bibbia la mattino, Bibbia al pomeriggio, Bibbia alla sera. Bibbia prima dei pasti, dopo i pasti. Bibbia prima delle cure, dopo le cure, prima delle vacanze e dopo le vacanze. Bibbia, Bibbia, Bibbia!”
Se avessero formato un gruppo enorme di biblisti e li avessero sparsi per il paese, noi oggi avremmo un popolo di Dio che almeno può prendersi la scrittura e leggersela tranquillamente. Ma è quello che non si vuole, perché la parola di Dio deve essere sempre mediata da qualcuno, perché se non è mediata da qualcuno, l’autorità per come viene intesa, cioè come possesso delle coscienze, va a farsi fottere tranquillamente.
Allora il lavoro che bisogna fare, a mio parere, è proprio questo: entrare dentro questo Moloc e incrinarlo. E lo si incrina, a mio parere, con questi strumenti, cioè dando la possibilità alle persone di leggere cose scientificamente fondate con un linguaggio semplice che sia accessibile a tutti e su questo io ci sto attento, mi sforzo, e spesse volte non è facile. Però credo che si legga abbastanza bene. E infine dare le informazioni corrette perché io in quanto prete, responsabile di un gruppo, di una comunità, ecc, ho l’obbligo di dare il meglio, perché se ho ricevuto questo dono, il dono della ricerca, dello studio, devo dare il meglio alle persone che hanno il vizio magari di lavorare, di avere figli, di avere famiglia, di dover sbarcare il lunario e non possono dedicare la vita … io ho dedicato la vita a queste cose.
E’ mio compito oggi restituire tutte queste cose e restituirle con gli interessi! Perché io non appartengo a me stesso, ma appartengo a una comunità, sono figlio di una comunità e non posso tenerle solo per me. Ecco perché nella preparazione di questa grammatica sono arrivato a sei, sette lezioni, che è faticosissimo perché alle volte, in una giornata, scrivi solo due righe, tre righe, perché devi cercare in tutta la Bibbia greca dell’Antico Testamento, in tutti i libri, devi trovare la forma e poi metterla a confronto con testo ebraico. Poi devi dire il passaggio che c’è stato nelle varie poche, e diventa un lavoro appassionante.
Il Card. Martini, quando ci incontravamo in Gerusalemme, mi diceva: “Don Paolo sono queste le cose che dobbiamo fare perché la gente possa avere in mano gli strumenti per poter leggere la Bibbia per conto proprio e non necessariamente andare in una chiesa per avere una spiegazione”. Tu devi andare in chiesa per incontrarti con la tua comunità e condividere la parola perché non è più una parola sola per te, ma una parola che diventa profezia e questa profezia deve essere gridata, deve essere annunciata.
La richiesta che fa il figlio al padre è una richiesta fondamentale: “Padre, dammi la parte di vita che mi spetta”. Non dammi la parte del patrimonio. In greco usa il termine “ousìa – natura”, dammi la parte della tua natura. E subito dopo il padre – notate il gesto eucaristico – “prese la sua vita e la spezzò tra i due figli”. Questo è il compito di Dio, spezzarsi per darsi. E’ l’Eucaristia.
Quando il figlio va lontano non va lontano. Il verbo greco è apedêmēsen. E apedêmēsen è un aoristo che significa … qui c’è il problema dell’aoristo con cui io ho problemi, perché in base alla scuola di Niccacci, dipende da dove si trova, e cioè nella lettura narrativa bisogna vedere dove è collocato il verbo principale, cioè in quale linea, in una linea di primo piano o secondaria, ecc. Però io qui non voglio fare questo discorso specialistico. Voglio dire solo che il verbo apedêmēsen viene da apò demèō, dèmos - popolo: “Il figlio, andandosene con la vita del padre, si allontanò dal suo popolo”.
Non è semplicemente andare lontano, ma è staccarsi dalla sua identità. E infatti, secondo la traduzione italiana, aggiunge che “visse da dissoluto”. In greco non dice che visse da dissoluto, in greco dice che visse da “asôtos”, un avverbio che indica “senza salvezza”. Vi rendete conto che non è semplicemente una parabola. Quando ero giovane prete non ho mai fatto cantare “mi alzerò e andrò da mio padre …” nel tempo di Quaresima, perché in tempo di Quaresima c’è tutto questo sciorinamento di questo figlio che si converte.
Ma non è così. Il figlio non si converte e non ritorna per amore del amore del padre, non ritorna perché è pentito, non ritorna per la coscienza di aver fatto male, ritorna perché vuole mangiare, ed è disposto anche a diventare schiavo del padre, non più figlio, pur di sbarcare il lunario e avere un piatto di minestra. E non c’è amore in questo, non c’è compassione in questo. E lo vedo sullo stesso piano dell’altro figlio che Rembrandt … se voi guardate il quadro che si trova all’Ermitage di San Pietroburgo, se voi guardate il quadro per intero, voi vedete che il figlio maggiore è rappresentato dietro, sul nero, con un pugnale in mano.
E questo pugnale indica che il fratello desiderava la morte del fratello minore, cioè c’era una competizione tra di loro. Ed è la competizione che si trova nella chiesa primitiva fra gli ebrei che si considerano figli prediletti e i greci che invece non devono far parte allo stesso titolo della stessa chiesa. Ed è contro questa impostazione che Paolo si scaglia. E oggi è contro un’umanità di fronte a cui ci troviamo e verso cui la chiesa, o parte di essa, fa delle esclusioni perché si identifica in una civiltà e in una cultura. L’eresia di oggi è affermare che il cristianesimo è identificabile come civiltà occidentale. Non esiste un cristianesimo occidentale. Nella mia chiesa noi diciamo il Padre Nostro - per quattro anni l’abbiamo detto – in aramaico.
E da domenica scorsa l’abbiamo iniziato in greco, proprio per far capire dal punto di vista dei segni, che la lingua di Gesù, cioè il cristianesimo nasce in Oriente: Avunà di bishmaiàh itkaddàsh shemàch tettè malkuttàch tit’avèd re’utàch, non sembra di sentire un arabo? Come possiamo dire che il cristianesimo si identifica con la civiltà occidentale? Questa è una bestemmia! Il cristianesimo si identifica con Gesù Cristo, il quale deve essere detto e letto in ogni lingua, in ogni cultura e ambiente può essere annunciato.  
E deve essere letto con le categorie specifiche di ciascuno e non con la mentalità specifica della cultura latina ed occidentale. Ed è quello che sta avvenendo in Italia, cioè il tentativo del papa, dei cardinali, dei vescovi, della CEI, di tutti questi parrucconi che portano il berrettino nel terzo millennio, vanno vestiti come satrapi persiani del VI secolo a.C., come è possibile? Come possono essere credibili? Non possono essere credibili, uno che va col tricorno non può essere credibile! Uno che va vestito di rosso e poi cammina tutto effeminato, non può essere credibile perché l’unico che può dire “Dio” è Gesù Cristo, perché è l’unica parola possibile.
Allora questa gente qui oggi vuole costruire oggi una religione civile senza Gesù Cristo, senza crocifisso e questo noi dobbiamo impedirlo, almeno io faccio la mia parte, costi quel che costi! La gente mi dice: “Ma lei è coraggioso”. Non è vero, non sono coraggioso, cerco di essere coerente con me stesso, alla luce della mia coscienza. E chiedo e dico a tutti, ai laici, non accettate più una dipendenza dai preti. E’ ingiusto! Fate in modo nelle vostre comunità, dovunque voi siate di pretendere il rispetto dei vostri sacrosanti diritti che vi derivano dal battesimo, e che non sono una concessione clericale.
Quando io mi trovo davanti al mio vescovo io gli dico: “Non sono io che devo dimostrarle di essere dentro, è lei che mi deve dimostrare di non essere fuori!” Dico: “Lei ordini, perché io riconosco la sua autorità, e io la ubbidisco, ma lo deve fare nella forma dovuta, lo deve mettere per iscritto, e impegnare la sua coscienza”. E lui tocca il crocifisso sul petto, lo maneggia, e non riesce a farlo perché non lo può fare.
Allora imparare la parabola del figliol prodigo come chiave ermeneutica di tutto il vangelo significa annunciare oggi al mondo che Dio non è il giudice perverso che sta attengo se metti un piede fuori della riga e ti spara subito una pallonata per riportarti in riga all’interno di regole morali, perché il cristianesimo è stato ridotto ad una morale, direi di più, ad una ossessione sessuale. Questo è il limite forte. Mentre l’annuncio che mi sembra di ricavare da questa parabola è che in Dio in concetto di amore si identifica col concetto di giustizia, e il concetto di giustizia si identifica col concetto di amore.
Detto in parole più semplici, Dio è giusto perché ama.
 
Intervento: sono salito al soglio di Paolo! Mi presento, mi chiamo Alberto Campedelli da Correggio, e lui forse ha un vago ricordo. Io vengo dal Parlamento, dalla Camera dei Deputati, c’era il ministro La Russa – sembra che non c’entri niente ma non è così – che ha fatto la relazione sull’Afghanistan. Io mi sono alzato ad un certo punto e l’ho interrotto con tutta la voce che avevo in corpo, gridando: “Fermati La Russa in nome di Dio! Dobbiamo far tornare a casa i nostri ragazzi!” Mi hanno arrestato immediatamente, mi hanno tenuto bloccato per un’ora. Ero vestito col saio che avete visto. Ho fatto una preghiera invocando Gesù, Allah, Madre Teresa di Calcutta e Paolo Farinella. Mi hanno rilasciato subito!
Intervento: Mi chiamo Maria Luisa Rigato e sono biblista teologa. Mi è piaciuto molto quello che ha detto, tranne qualcosa …. Sono d’accordo perché trasmettere la parola di Dio, fare esegesi ed ermeneutica non è facile fare la mediazione, prima uno deve sgrugnarsi con i testi, studiare e poi cercare di renderli più semplici. Tornando alla parabola, io sono dell’avviso che Luca non poteva inventarsi quella parabola, e meno che mai Paolo. A mio avviso è una fonte che viene da Gesù. A proposito di generare, l’unica persona che ha generato è Maria.
Comunque vorrei un momentino tornare al finale di Luca, che mi intriga sempre. Lì lui aveva davanti farisei e peccatori. Il famoso figlio, diciamo il primo figlio, a cui il padre dice: “Figlio mio, tu sei sempre con me e quello che è mio è tuo”, lo riferisce ai farisei. Allora anche quando siamo in ambiente di amicizia ebraico-cristiana, siccome loro hanno sempre questa specie di rabbia nei nostri confronti, dico : “Guardate che quella parabola è bellissima anche per i farisei, perché il giudaismo di oggi è farisaico.
E quindi questo per dire che mi fa piacere che lei in fondo segue precisamente – ciò che lei contestava – la visione canonica, perché tutta la scrittura è un’unità. Poi a me questo documento, che dobbiamo tra l’altro discutere, non è che mi fa tanto schifo, va discusso.
Intervento: Io approfitto della presenza di Paolo Farinella che da anni seguo attraverso internet, per avere una ulteriore precisazione. C’è un nuovo dicastero al Vaticano che si chiama La nuova evangelizzazione, data a Mons. Fisichella, quello della “contestualizzazione”, ecco io vorrei capire un po’ meglio.
Farinella: credo che ci sia poco da capire. C’è semplicemente da dare qualche spiegazione: non sapevano dove mettere Fisichella, perché dopo la storia dell’aborto della bambina brasiliana, in cui lui disse delle cose misericordiose verso questa bambina e sua mamma, fu contestato dai membri della commissione Scienza e Vita di cui lui era Presidente. A questo punto la maggioranza dei membri di questa commissione pretese le sue dimissioni. Il Vaticano però non accetta mai le dimissioni di qualcuno, o lo promuove, e quindi la carriera è sempre in una direzione, cioè di gente inutile, o quanto meno insignificante, perché vorrei sapere quali sono le qualità di Fisichella, di cui potrei dire molte cose, poiché ho avuto una fitta corrispondenza scritta con lui. Era cappellano di Montecitorio, ed è lì che si è guastato, secondo me…
Gigante: Scusa, ti interrompo per dire che lui si proclamava cappellano di Montecitorio, lui ha la cappellania della chiesa adiacente a Montecitorio. Montecitorio, la Camera dei Deputati, è un luogo laico che non ha cappelle. Lui ha usurpato un titolo che nessuno gli aveva mai dato e che …
Intervento: Lo stipendio è pagato dallo Stato Italiano
Gigante: Io contesto che ci sia il ruolo di cappellano alla Camera, lui si è preso questo ruolo. E’ solo cappellano di quella chiesa, si è fatto riconoscere un ruolo che non è mai esistito. E si fa pagare!
Farinella: io ritengo che sia stato Casini … Quindi il papa, che è terrorizzato dalla scristianizzazione – come la chiama lui – dell’Europa, ha costituito questo nuovo consiglio pontificio, prima di tutto per dare qualcosa a Fisichella che, se avete notato non è stato fatto cardinale, perché in questo ultimo periodo Fisichella era preconizzato cardinale, però non l’hanno fatto per questo incidente che c’è stato, di opposizione perché il vescovo di Olinda e Recife in Brasile lo aveva accusato direttamente al tribunale della Segnatura Apostolica perché – non certo si era si era dichiarato a favore dell’aborto per questa bambina molto piccola – ma aveva pronunciato delle parole che potevano sembrare a favore, ecc…
Quindi questo nuovo consiglio pontificio è di fatto una scatola vuota, che non si sa cosa farà, perché certamente se ci sarà una nuova evangelizzazione, non sarà certamente Fisichella a farla questa nuova evangelizzazione! Allora sono quei giochini innocui per bambini deficienti che ancora oggi in Vaticano vanno per la maggiore. Quindi sono, come dire, prima o dopo le mura di Gerico dovranno cadere. A noi tocca girare attorno alle mura con l’arca dell’alleanza e fare tanti giri, probabilmente non dobbiamo farne soltanto sette, ma quattordici o ventuno.
Intervento:  vorrei una delucidazione per ritornare al tema. Mi piacerebbe un approfondimento sul concetto del titolo del libro “Il Padre che fu madre”. In funzione di questa bellissima presentazione esegetica, se questa interpretazione ha anche delle basi di letteratura aramaica, ebraica, ecc. Grazie
Farinella: E’ molto semplice il titolo. Prima di tutto l’ho ricavato dal versetto 23 dove le traduzioni dicono che il Padre “gli corse incontro e commosso gli si gettò al collo”. In greco non è così. In greco è: Il padre gli corse incontro e il tema del correre è un tema di perdita di dignità. L’autorità, il padre, il rabbino, il maestro non corrono, perché perdono la propria autorità. La rivoluzione che Gesù fa è quella di essere un rabbino itinerante. Mentre, al tempo di Gesù, i rabbini aspettavano nelle scuole.
Lui modifica lo stile. Secondo, “commosso”, in greco usa un verbo, non un participio, ma un verbo alla terza persona, che è esplanchinìste, che traduce l’ebraico il verbo è rachamìm o rachàm, che significa ‘essere scosso nelle viscere o nell’utero’, ed è un termine che si usa per la partoriente quando si scuote per generare, per partorire il figlio. Per cui questo termine rachàm, rachamìm, “Io sono un padre misericordioso” significa “sono un Dio che si scuote nelle viscere”, cioè è un Dio che genera.
Allora se il padre si butta al collo del figlio è come se compisse il gesto di riportarlo come madre nel proprio grembo per poterlo rigenerare. E che fa? Non permette al figlio di finire il discorsetto che si era preparato. “Dirò a mio padre ‘Padre ho peccato …’ lui sicuramente si commuoverà”, e, appena comincia il discorso, glielo tronca a metà. E il padre non fa parlare il figlio, per cui, non aspetta che il figlio si confessi, non aspetta che il figlio riconosca la colpa, non aspetta che il figlio dica nulla. E’ semplicemente la sua paternità che è sovrabbondante.
Prende infatti suo figlio e lo fa diventare di nuovo figlio, indipendentemente da lui perché la forza della sua figliolanza è il suo essere padre. E compie tre gesti, il gesto dell’anello, il gesto dei sandali, il gesto della veste, che sono tre gesti simbolici. La veste nella Bibbia indica la personalità, a cominciare da Adamo ed Eva a cui Dio da la veste, una veste di pelle e qui ci sarebbe tutto il discorso lunghissimo da fare sulla veste, la veste per dare la dignità, nella veste nuziale del banchetto.
Cioè tu puoi partecipare di nuovo alla mia vita di famiglia. Secondo gli da l’anello, che significa avere diritto di eredità. Lui sull’anello portava il sigillo di casa e poteva ereditare di nuovo, quindi lo riammette all’eredità della salvezza, cioè diventa di nuovo figlio di Abramo, perché lui se n’era andato via dal popolo, aveva rinnegato Dio, aveva rinnegato il popolo e non aveva più ritrovato se stesso. Dove era finito? In mezzo ai porci. Ancora oggi in Israele gli ebrei non possono allevare maiali perché sono il segno più forte della impurità rituale. E gli da i sandali. Il sandalo ha due significati. Uno è quello della contrattazione, cioè ci si scambiava il sandalo come documento, specialmente quando si comprava una terra, si calpestava la terra in lungo e in largo e, alla fine, i due contraenti si scambiavano il sandalo. Ma c’è un altro significato, che è quello di dare autorità di nuovo su tutto quello che calpesterai.
Però ci potrebbe essere un altro significato che io accenno, ma non sviluppo e che andrebbe ulteriormente approfondito, che è quello della valenza nuziale, basata sulla legge del levirato. Cioè quando una donna vedova aveva il diritto di essere sposata dal fratello, dal cognato, per avere il primo figlio e questo non lo faceva, la donna aveva il diritto di convocarlo davanti al tribunale, di sciogliergli il sandalo e di sputargli in faccia. Il Talmud dice che lo sputo deve essere consistente e visibile.
In questo modo, sciogliendo il sandalo, lo scioglieva dal suo dovere. E quindi ha una valenza nuziale per cui lui partecipa di nuovo, e viene riammesso nell’alleanza che è un’alleanza con valenza e significato prettamente nuziale. Cioè partecipa di nuovo alle nozze tra Dio e il suo popolo. Ecco perché ho voluto prendere il padre dall’immagine di Rembrandt, se voi vedete, c’è la mano sinistra che è maschile e la mano destra che è femminile. E, secondo me, Rembrandt è un pittore che è stato, a mio parere, l’esegeta più completo perché, in una immagine – come in una vignetta – ha detto tutto.
Io ho dovuto dirlo in quasi 300 pagine, lui l’ha detto in una immagine.
 
Intervento: Io devo confessare un profondo disagio, perché ancora una volta, da “Eva generata da Adamo”, da “Gesù generato da Dio” e ora pure “Il padre che genera il figlio” in questa parabola, la funzione e il ruolo femminile di donne assenti, non citate, viene preso dal maschio protagonista della storia. Io lo trovo insomma un criterio ermeneutico interpretativo che sento che mi mette profondamente a disagio. Non si può continuare a cancellare così la presenza, il ruolo e l’azione delle donne nella loro realtà concreta, specifica, appropriandosi poi della generazione.
E la mano femminile che appare solo come tale, ancora una volta – mi consenta – il pezzo di un corpo di una donna appare, come appaiono oggi pezzi di donne in altri contesti.
Farinella: Io capisco il disagio, però il lavoro che noi dobbiamo fare è quello di cercare di capire una cultura che è logicamente molto distante da noi. E cercare di spiegarla. Poi la contestualizzazione, il passo successivo, dovrebbe essere l’applicazione di queste cose nella teologia e nella cultura di oggi. Questo dovrebbe essere il lavoro dei teologi. Però io non posso far dire alla Bibbia – che è scritta in un determinato contesto storico … ecco perché si fa una lettura storico-critica, perché si contestualizza nell’epoca e secondo le convinzioni.
Voi sapete che al tempo di Gesù e nell’Antico Testamento , la generazione avviene solamente da parte dell’uomo, la generatività è maschile perché le lingue orientali, la stessa lingua ebraica, sono lingue descrittive, non lingue ragionative. Descrivono quello che vedono. E cosa vedono? Il seme maschile che va in un contenitore, che è la donna. La donna è solo un contenitore. Addirittura nella mentalità antica, è soltanto un possesso e viene dopo il bue, l’asino, il servo e la serva. Il passaggio verrà con Gesù e poi con San Paolo però i primi scritti sono paolini, almeno gli scritti materialmente scritti, in cui si afferma, nonostante San Paolo e alcune lettere che non sono sue tra l’altro, quelle pastorali sicuramente non sono di San Paolo. Però dobbiamo leggere Efesini e fare un’esegesi puntuale per poter far dire a Paolo esattamente quello che lui vuole dire, dove afferma questa fondamentale identità, però è un’acquisizione che viene dopo.
E quindi, nel leggere la Bibbia, noi dobbiamo imparare che partiamo da questo punto però c’è una conoscenza e una consapevolezza sempre maggiore e l’apprendiamo e la sviluppiamo. In questo momento io sto commentando le nozze di Cana, dove si dice per esempio – si dice normalmente – che si tratta del matrimonio, Gesù che santifica le nozze. Non c’entra niente, prima di tutto c’è un matrimonio senza la sposa. Ora, se la sposa non c’è io non posso inventarmela. Alle nozze di Cana non si parla della sposa, non c’è. E lo sposo c’è soltanto per essere rimproverato, perché ha messo il vino scadente.
Allora il motivo di questi testi è perché noi probabilmente corriamo il rischio di leggerli in modo fondamentalista, cioè li prendiamo così come sono nelle nostre traduzioni e facciamo una lettura fondamentalista. E’ il rischio che dobbiamo evitare.


Marted́ 25 Gennaio,2011 Ore: 14:41
 
 
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