- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (382) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Se la bibbia istiga all’intolleranza,di ALESSANDRO ESPOSITO

Se la bibbia istiga all’intolleranza

di ALESSANDRO ESPOSITO

Da Micromega

aespositoLa bibbia, immagino sia risaputo, non è in maniera univoca ed indiscussa un libro di pace: ciò è dovuto principalmente al fatto che i testi che essa contiene sono molteplici, come molteplici sono le intenzioni che li animano e gli autori che li hanno materialmente elaborati e redatti. Credo che stupisca senz’altro di più l’affermazione secondo cui neanche l’evangelo è, in maniera concorde e incontrovertibile, un messaggio di pace; a tale proposito vorrei riportare qui di seguito alcuni versetti tratti dall’epistola dell’apostolo Paolo ai Galati:

«Mi meraviglio che così presto voi passiate da colui che vi ha chiamati mediante la grazia di Cristo a un altro vangelo: benché non ve ne sia un altro, ma vi sono alcuni che vi turbano e vogliono alterare il vangelo di Cristo. Ma anche se noi o un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema! Come abbiamo già detto, lo dico di nuovo anche adesso: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (Galati 1:6-9)

Nel caso specifico del nostro testo, non possiamo nemmeno attribuire questa violenza verbale al tempo intercorso e al progressivo sviluppo del cristianesimo in senso settario o dottrinale: l’epistola da cui sono tratti i nostri versetti, difatti, è uno dei testi più antichi del canone, che gli esegeti attribuiscono in maniera sostanzialmente unanime all’apostolo Paolo. Si tratta della lettera che contiene le affermazioni più esplicite della cosiddetta «salvezza per grazia» che Lutero stabilirà come fondamento biblico e teologico della Riforma: eppure sovente si omette il fatto che ci troviamo di fronte ad un’epistola che si apre con un tono non propriamente «evangelico».

Ignoriamo nello specifico quale sia la situazione in cui Paolo interviene: difatti (e anche questo è un elemento che si tende spesso a trascurare) possediamo soltanto i suoi scritti e, di conseguenza, conosciamo soltanto il suo punto di vista sul conflitto in atto. La tensione a cui l’apostolo fa riferimento riguarda, come di consueto, il modo di intendere e di annunciare l’evangelo, la lieta notizia che una lunga scia di polemiche e di sangue contribuirà a rendere progressivamente meno lieta.

I fondamentalisti di oggi seguitano a proporre la tesi, storicamente insostenibile, di un unico modo di recepire e predicare l’evangelo che, sin dalle origini, non avrebbe subito mutazioni o evoluzioni; la stessa tesi è proposta dal cattolicesimo vaticano, secondo cui la tradizione apostolica è giunta sino a noi in maniera concorde ed inalterata. Chi difende questa concezione, in realtà, contraddice il buon senso oltre a disconoscere la legittimità dell’indagine storica e filologica e sconfina nella mitologia. Al fine di respingere le critiche che immancabilmente mi vengono rivolte dagli integralisti di ogni confessione cristiana ogniqualvolta mi capita di toccare questo spinoso argomento, vorrei citare di seguito un breve passo tratto dalle pagine acute e profonde dell’ultimo testo pubblicato da uno dei maggiori esperti di storia delle origini cristiane, il professor Manlio Simonetti:

«Al fine di fondare su qualche dato concreto la nostra ricerca sulle primitive interpretazioni (…) del personaggio di Gesù, sarebbe utile identificare un nucleo di notizie, anche piccolo, sul quale la nostra documentazione possa apparire concorde: ma neppure questo è possibile, così non ci resta se non esaminare le varie interpretazioni»[1].

Sin dalle origini Gesù e l’evangelo che egli aveva annunciato vennero recepiti e reinterpretati secondo sensibilità diverse, a partire da contesti distinti e con finalità profondamente differenti: questo è un fatto, riscontrabile nelle fonti, non un’ipotesi di lavoro. Chi, piuttosto, di un’ipotesi insostenibile ha fatto una tesi indiscutibile sono gli integralisti cristiani, cattolici come protestanti, che continuano a propugnare un’unità teologica degli scritti neotestamentari inesistente, indice, soltanto, della chiara volontà di estromettere dalla chiese e, quel che è peggio, dalle coscienze ogni indizio di pluralità e di dissenso.

Purtroppo, però, questo atteggiamento di intransigente rigidità è riscontrabile anche nelle scritture ebraico-cristiane: e poiché tali scritture stanno notoriamente a fondamento di tutte le declinazioni confessionali della fede cristiana, non è raro che la loro ricezione, anziché pace, generi violenza. L’apostolo Paolo, in particolare, è spesso autore di affermazioni che, se messe fuori contesto, inducono con facilità al rifiuto della differenza, all’estromissione del dissenso: nello specifico, le parole tratte dall’epistola ai Galati che ho riportate si prestano a derive di tipo settario in seno a quelle chiese che si limitano a ripeterle di sana pianta. Ma, anche se analizzate più a fondo, le affermazioni di Paolo suonano come autoritarie e prevaricatrici: l’apostolo, difatti, non si limita a squalificare sensibilità diverse dalla sua, ma compie una duplice, discutibilissima operazione. In primo luogo si autoproclama corretto e legittimo interprete dell’evangelo di Cristo; poi rincara la dose e mette in chiaro, con una certa arroganza, che un altro vangelo semplicemente non esiste, poiché il suo modo di intenderlo e di annunciarlo è nient’altro che l’evangelo, l’unico ammissibile.

Non soltanto il fondamentalismo contemporaneo, ma anche l’ortodossia protestante, intimamente legata alla teologia paolina, si attesta su posizioni del tutto analoghe a questa: essa, difatti, tende a dimenticare con facilità che anche quella paolina rappresenta soltanto una delle possibili interpretazioni dell’evangelo di Gesù e la presenta invece come l’unica corretta. Ma questa pretesa di verità genera esclusione e violenza ed impedisce ogni tentativo di libera ricerca e di confronto con sensibilità, esperienze ed elaborazioni differenti.

Paolo, però, rincara ulteriormente la dose e afferma: «Se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (Galati 1:9). Non soltanto, dunque, il mancato riconoscimento dell’altro e della sua diversità, ma persino l’esplicita, irrevocabile condanna di ogni differenza. Anatema è parola che l’apostolo usa consapevolmente e che possiede un significato tutt’altro che blando: la tradizione ebraica, alla quale lo stesso Paolo appartiene e di cui fanno parte anche coloro che ricevono questa sua lettera, collega questo termine alla maledizione che ricade su tutto ciò che ha a che fare con gli idoli e con la religiosità cosiddetta «pagana», ma che sarebbe più opportuno chiamare «non israelitica»

Il fatto più sorprendente, però, è che qui Paolo non sta parlando di una tradizione diversa dalla propria, ma di quanti interpretano in maniera differente la sua stessa tradizione: la condanna inappellabile ricade su quanti si discostano dal suo modo di intenderla. Si tratta di un’eredità spiccatamente paolina che molte chiese hanno sovente fatto propria, concependo la propria interpretazione della fede e delle scritture come l’unica corretta. Su chiunque abbia dell’evangelo una visione diversa, sia anatema: parola che viene da anà tithemi, letteralmente «porre sopra». In definitiva, sia posto su di lei, su di lui, un segno: macabra stigmatizzazione di quanti insistono nel difendere il diritto alla diversità di opinione. Che venga messo su tutte e tutti costoro un segno, in modo tale che possano essere riconoscibili e, per ciò stesso, individuabili e messi ai margini: che poi, si sa, è la maledizione più efficace. Da questa marchiatura a fuoco, generatrice di estromissioni, soffocatrice della libertà di ricerca e di pensiero, creatrice del concetto nefasto di eresia, ho l’impressione che la maggior parte delle istituzioni ecclesiastiche sia ancora oggi restia a recedere.

Alessandro Esposito – pastore valdese

(5 settembre 2013)

NOTE

[1] Tratto da: Prinzivalli, E. – Simonetti, M. La teologia degli antichi cristiani, Morcelliana, Brescia, 2012, cit. p. 32.




Sabato 07 Settembre,2013 Ore: 20:21
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
La parola ci interpella

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info