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www.ildialogo.org Sifra e Pua, coraggio di donne,di ALESSANDRO ESPOSITO

Sifra e Pua, coraggio di donne

di ALESSANDRO ESPOSITO

Dal blog di Micromega

aesposito«E disse un re d’Egitto alle levatrici delle ebree, la prima di nome Sifra e la seconda di nome Pua: “Nel vostro far partorire le ebree, vedete sulle due pietre: se quello è un figlio, lo farete morire; se quella è una figlia, vivrà”. E rispettarono le levatrici il Dio e non fecero come parlò loro un re d’Egitto e fecero vivere i bambini» – (Esodo 1:15-17)

Ci troviamo all’inizio del libro dell’Esodo, del racconto che narra la nascita d’Israele come popolo attraverso la sua liberazione dalla schiavitù in terra d’Egitto. Il testo incomincia menzionando il timore di un nuovo re egizio di fronte alla moltiplicazione dei figli d’Israele: «Prendiamo provvedimenti nei loro riguardi – dice il faraone – altrimenti, in caso di guerra, si uniranno ai nostri avversari e combatteranno contro di noi». Chi conosce il seguito della storia, sa che si tratta di un timore infondato, poiché il neonato popolo israelita, in modo assai significativo, non prenderà le armi contro il suo oppressore, ma si limiterà a richiedergli di poter abbandonare il Paese: cosa che non potrà essergli concessa di buon grado, poiché lo schiavo, ieri come oggi, garantisce mano d’opera a basso costo e, di conseguenza, un maggior benessere con minore fatica al padrone. Il faraone, ad ogni modo, teme che questi sudditi possano ribellarsi e, a scopo precauzionale, impartisce un ordine perentorio. Lo rivolge a due donne, certo che queste obbediranno ai suoi dettami: del resto obbedire è ciò che le donne sono chiamate a fare in una società in cui è l’uomo a decidere in tutte le questioni importanti. Difatti, per la situazione che sta a cuore al faraone, l’ordine non può essere eseguito che dalle donne: «Tanto meglio – pensa – sono più deboli e, di conseguenza, più remissive e con minor spirito d’iniziativa». Il re nemmeno mette in conto l’eventualità che due donne, per di più di umile condizione, possano disattendere gli ordini ricevuti: si limita a comandare loro di agire secondo un determinato modo, quello che lui ha escogitato e che loro dovranno solamente realizzare, senza discussione.

Il nostro testo riporta i nomi delle due donne: e ogni nome, lo sappiamo bene, è scrigno che racchiude un significato. Sifra ha in sé la radice שפר (šefer), che allude alla bontà; ma possiede anche un’assonanza con ספר (sefer) che è scrivere, raccontare. Ciò che Sifra, «la buona», si appresta a fare, sarà ricordato perché narrato e scritto nel libro che racconta la genesi di Israele. Pua custodisce nel grembo la radice del verbo פעה (pa’ah), gemere e riecheggia il verbo פעל (pa’al), letteralmente «fare qualcosa». Pua, colei che è sensibile ai gemiti, dei bambini come delle madri, sarà capace di fare qualcosa per loro.

C’è un particolare, però, che non dobbiamo tralasciare: Sifra e Pua aiutano le donne ebree a partorire, ma non sono, esse stesse, ebree: sono egiziane e, in quanto tali, chiamate ad obbedire al loro faraone, che poi era una sorta di «dio in terra». Eppure qualcosa di ebreo ce l’hanno anche loro, poiché la parola עברית (‘ibrit) viene dal verbo עבר (‘abar) che significa attraversare: e quale figura ricorda di più il passaggio, l’attraversamento, di quella delle levatrici, delle donne che aiutano altre donne a partorire?

Sifra e Pua sono levatrici, le ostetriche dell’antichità, coloro che accompagnavano i nascituri nel passaggio più delicato, quello dalla tiepida penombra del grembo materno alla luce della vita, che all’inizio spaventa ogni neonato e gli ferisce gli occhi. L’attraversamento richiesto per passare dal riparo rassicurante del ventre materno all’avventura incerta e meravigliosa della vita è accompagnato dalla sapiente guida delle levatrici che, inginocchiate di fronte alle partorienti, le aiutano nel travaglio. Mi raccontava un’anziana che questo compito lo ha assolto che l’esercizio più difficile e delicato da imparare è quello che sembrerebbe il più naturale: il respiro. Quando si appresta a partorire, la donna deve apprendere a regolare il respiro, ad armonizzarlo con le spinte con le contrazioni: in questo veniva in soccorso la levatrice, che respirava insieme con la partoriente, all’unisono, per guidarla passo dopo passo verso un ritmo più cadenzato e pausato. Due donne che respirano insieme per dar vita ad un terzo respiro, a loro esterno eppure, al contempo, così intimo: è impossibile comprendere fino in fondo il legame che si crea in questa sintonia di fiati.

Quel che possiamo sapere dal nostro racconto è che si tratta di un legame talmente intenso e profondo da annullare la distanza etnica così come la differenza sociale. Nel respiro cercato insieme da partoriente e levatrice, non esistono più l’egiziana e l’ebrea, la schiava e la donna libera: esiste un legame di fiati, che nessun ordine maschile può spezzare. Al punto che le due levatrici hanno il coraggio che spesso manca a noi uomini (maschi): quello necessario a compiere un gesto di disobbedienza. Quel che ha più valore, però, non è la disobbedienza in quanto tale: non si tratta di esaltarla come una virtù, isolandola dal suo contesto. Apprendere la disobbedienza è fondamentale, ma il valore dell’azione ribelle lo si può desumere, soltanto, dall’ordine che ci si rifiuta di accettare e di eseguire. L’ordine che le donne avevano ricevuto richiedeva di sopprimere delle vite: e lo chiedeva proprio a chi la vita era abituata a generarla, a farla emergere come respiro dal respiro. Era l’ordine di un uomo e di un uomo di potere; dato, però, alle persone sbagliate, alle uniche che avrebbero dimostrato di possedere il coraggio necessario per disattenderlo: due donne, due levatrici. La muta complicità femminile, fatta di respiri condivisi, imparati insieme, si rivelerà un laccio più tenace, nella sua fragilità, del fiato del faraone, speso inutilmente per impartire un comando che, nella sua arrogante presunzione, non era stato capace di prevedere la disobbedienza.

Sifra e Pua, disobbedienti al faraone, sono però obbedienti al Dio: l’unico, per ciò stesso presentato con l’articolo determinativo nel nostro testo. Il Dio, quello che vuole la vita perché la dona, quello che le due donne hanno saputo scovare nel segreto di un respiro, nello spazio breve delle contrazioni, nel ritmo sincopato di quel travaglio che genera la novità. Non è il «loro Dio» e nemmeno quello delle loro partorienti: è il Dio di tutte loro, donne che generano la vita e che, per continuare a farlo, sono chiamate ad osare, sfidando lo strapotere di un uomo, esponendosi al rischio delle sue ritorsioni. Perché ciò avvenga servono Sifra, «la buona» e Pua, colei che dà ascolto ai gemiti: bontà e misericordia, attributi femminili del Dio che attendono di prendere corpo da mani di donna.

È necessario, difatti, «fare qualcosa», altrimenti bontà e misericordia rimarranno inefficaci, fiato che si perde nel vento. Ma due levatrici sono necessariamente nemiche giurate di ogni sterilità: ciò a cui mettono mano porta sempre frutto. Disobbediscono perché questo è ciò che hanno in potere di fare, il gesto che il potente non può impedire loro di compiere ma soltanto punire dopo che lo avranno compiuto. La responsabilità sta nelle loro mani, prima che in quelle del Dio. Tanto che il verbo usato nel nostro testo è un piel, forma verbale rafforzativa che nella lingua ebraica esprime la volontà del soggetto che compie l’azione: le due levatrici fecero vivere i neonati, fecero in modo che sopravvivessero, in un certo qual modo diedero loro la vita insieme con le loro madri, quelle madri con cui avevano respirato all’unisono, cospirando, alla fin fine, ai danni del faraone.

Il libro che noi chiamiamo Esodo, nella tradizione ebraica viene chiamato שמות (scemot) «Nomi»: sono questi, infatti, ciò che conta, ciò che si rivela capace di imprimere una direzione e, quindi, un senso alla storia. L’Esodo è, prima di ogni altra, la storia di Sifra e Pua, donne straniere che, con un atto di volontà figlio del coraggio di disobbedire, realizzarono la giustizia, permettendo ad Israele di sopravvivere. Sifra e Pua, bontà e misericordia che si realizzano con mano e intraprendenza di donna: aiuto inatteso, complicità insperata. Donne che comprendono che la salvezza che il Dio promette riposa nelle nostre mani e di là incomincia. Una salvezza realizzata da due donne familiari con la vita perché attente al respiro e alle sue vibrazioni. Una salvezza che nasce dal saper accompagnare, nel suo travaglio, il respiro dell’altra: quello che ci fa percepire, per un istante, la vita al di fuori di noi, donandoci così il coraggio – difficile ma necessario – di un atto di disobbedienza che nasce dalla complicità solidale tra storie e fiati di donna.

Alessandro Esposito – pastore valdese

(9 luglio 2013)




Mercoledì 10 Luglio,2013 Ore: 16:02
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Augusta De Piero Udine 11/7/2013 17.11
Titolo:levatrici ironiche e coraggiose
Bel commento.
Aggiungo una parte del passo non citata dove emerge l’ironia di due donne disarmate come strumento attraverso cui si realizza una solidarietà senza violenza. Fra sangue, cavallette e morte è un vero conforto!
15 Il re d'Egitto parlò anche alle levatrici ebree, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua, e disse: 16 «Quando assisterete le donne ebree al tempo del parto, quando sono sulla sedia, se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, lasciatela vivere». 17 Ma le levatrici temettero Dio, non fecero quello che il re d'Egitto aveva ordinato loro e lasciarono vivere anche i maschi. 18 Allora il re d'Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i maschi?» 19 Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egiziane; esse sono vigorose e, prima che la levatrice arrivi da loro, hanno partorito

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