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www.ildialogo.org POVERTA’: TRA PIAGA SOCIALE E VIRTU’ MORALE,di Aldo Antonelli

POVERTA’: TRA PIAGA SOCIALE E VIRTU’ MORALE

di Aldo Antonelli

(Da «In Dialogo» N. 100 – Giugno 2013)

Il Problema

Povertà: virtù morale o piaga sociale? Una scelta personale di vita o una condanna ? Ed ancora: una “Grazia” o una “Disgrazia”?

Non c’è dubbio che la parola, in sé, sia quanto mai equivoca e si presti, quindi, ai doppi, tripli giochi a seconda di chi la pronuncia, di chi la ascolta e del contesto nel quale essa viene usata.

Noi vogliamo liberarci da quella che don Tonino Bello chiamava la “Sindrome dei significati stravolti”, propria delle “parole multiuso” che, nella loro ambiguità spesso, troppo spesso, trasmettono la volontà del dominio e solo più raramente l'ansia della comunione.

Ed in effetti, se noi prendiamo i primi e/o i secondi termini delle predette opposizioni, diventa solare l’incongruenza degli uni e/o degli altri a veicolare tutta la pregnanza, in positivo e in negativo, delle rispettive realtà. Soprattutto se focalizziamo la nostra attenzione sulla povertà reale dei più dei due terzi della popolazione mondiale, notiamo l’incapacità dei termini usati (“Piaga sociale” – “Condanna” – “Disgrazia”) a significare la caratteristica più inquietante, quella che più ci mette sotto accusa, è cioè il fatto di essere non un evento naturale ma un prodotto storico del nostro mondo “evoluto”, così come si è andato strutturando nel tempo. Non a caso le menti più sensibili e le penne più accorte, parlando dei “poveri”, sono solite ricorrere ad un neologismo e preferiscono parlare di “impoveriti”.

La situazione

I dati di fatto ci dicono che dal 1960 al 2000 la quota del 20% più ricco della popolazione mondiale è cresciuta dal 70 al 90% del reddito globale, mentre la quota del 20% più povero si è ridotta dal 2,3% a circa l'1%. In parole povere, in questi ultimi anni i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri. Per di più o primi sono diminuiti e i secondi sono cresciuti. Oggi ci ritroviamo in un mondo con meno ricchi più arricchiti e molti più poveri ancor più impoveriti. Un fenomeno che non poteva sfuggire nemmeno alla coscienza attenta di Benedetto XVI che al numero 22 della sua enciclica Caritas in veritate denuncia a chiare lettere: «Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante».

Cui fanno eco le “puntualizzazioni” del teologo cileno Pablo Richard: «Nell'attuale sistema di globalizzazione neoliberale, la situazione del povero è mutata sotto molti aspetti. In primo luogo, ci sono più povertà di prima. Il loro numero si è moltiplicato. In secondo luogo, il povero è anche un escluso. In passato il povero era necessario, come forza lavoro o come consumatore. La morte del povero danneggiava il sistema. Oggi i poveri non contano né come manodopera, né come consumatori. Sono superflui».

Oggi, più che ieri, esiste un’isola di ricchezza in un mondo di povertà. Povertà, per di più, che viene intesa come un dato di fatto “naturale”, in dato di fatto scontato e non strettamente legato e dipendente dalla ricchezza dei pochi. Come di fatto è. Con una novità aggiunta: fino al secolo scorso la povertà era una realtà dipendente della ingiusta distribuzione delle ricchezze. Oggi la povertà è legata non solo alla ingiusta distribuzione della ricchezza ma al modo stesso di produzione della ricchezza. Di conseguenza, compito dello stato non è più e soltanto la equa ridistribuzione delle ricchezze ma quello di intervenire nello stesso processo di formazione della ricchezza, a salvaguardia dei diritti delle persone e contro lo strapotere autoreferenziale del capitale finanziario.

Dalla “Produzione del valore” alla “Estrazione del valore”.

A partire dagli anni ottanta, con l’avvento delle politiche liberiste di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher, recentemente scomparsa, nel paese codino degli Usa, abbiamo assistito, spesso anche collaborando, ubriachi del nuovo dictat “più Mercato e meno Stato”, allo smantellamento dello stato sociale, allo sventramento della “Politica” e all’intronizzazione del Liberismo più spinto che ha dato la stura a quello che poi sarebbe stato chiamato “turbocapitalismo”, globale e letale.

E’ uscito alle stampe appena due anni fa, nel 2011, un ottimo libro di Luciano Gallino, edito dalla Einaudi, dal titolo “Finanzcapitalismo”, ristampato quest’anno con il sottotitolo “La civiltà del denaro in crisi”. In esso Gallino compie un viaggio dentro «i deliri cinici, e a volte addirittura clinici, del mercatismo. Un viaggio che parte da un trionfo egemonico: un sistema economico basato sull'azzardo morale e sull'irresponsabilità del capitale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro. E che ci conduce a un capolinea drammatico: la completa svalorizzazione del lavoro, la devastazione delle risorse industriali e naturali, la desolazione di una massa di donne e di uomini che ormai non sono più "ceto medio", ma "classe povera"» (Massimo Giannini su La Repubblica dell’8 Marzo 2011).

In esso Gallino ricostruisce tutto il processo che ha cambiato i connotati di quel sistema che noi chiamavamo “capitalismo” e che tuttora, ingenuamente, continuiamo a chiamare con lo stesso termine.

A questo punto dovete permettermi di fare una lunga citazione. Scrive Massimo Giannini: «Gallino lo ricostruisce (il capitalismo ndr) a partire dal concetto, teorizzato da Lewis Mumford, delle "mega-macchine sociali: quelle grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come "componenti o servo-unità". Kombinat di potere politico, economico e culturale che hanno generato "mostri" nell'arco dei millenni: dalle piramidi egiziane costruite col sangue degli schiavi all'Impero Romano, dalla fabbrica di sterminio del Terzo Reich nazista all'universo concentrazionario del comunismo sovietico. Ora siamo alla fase più "evoluta": il "finanzcapitalismo", "mega-macchina" sviluppata allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, «il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli eco-sistemi».

E questa "estrazione di valore" è diventata il meccanismo totalizzante e totalitario che ormai abbraccia “ogni momento e ogni aspetto dell'esistenza”. Dalla nascita alla morte: come il vecchio Welfare, arrugginito e inservibile secondo la vulgata occidentale dominante, abbracciava un tempo l'individuo "dalla culla alla bara". Il salto di qualità è nel passaggio cruciale dalla "produzione" alla "estrazione" del valore. Si "produce" valori quando si costruisce una casa o una scuola; si "estrae" valore quando si impone un aumento dei prezzi delle case manipolando i tassi di interesse. Si "produce" valore quando si crea un posto di lavoro stabile e ben retribuito; si "estrae" valore quando si assoldano co.co.pro. mal pagati o si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario».

Si “produce valore”, aggiungiamo noi, quando si creano posti di lavoro nei servizi; si “estrae” valore quando si bypassa il lavoro automatizzando i servizi, abbattendo i costi di lavoro ed aumentandone il corrispettivo: per es. ai caselli autostradali.

Continua Massimo Giannini: «Se la "mega-macchina" del vecchio capitalismo industriale fordista aveva come motore l'industria manifatturiera, la "mega-macchina" del "finanzcapitalismo" ha come motore l'industria finanziaria. La prima "girava" grazie al lavoro, che generava reddito, diritti, cittadinanza. La seconda "gira" grazie al denaro, che genera altro denaro, e poi ancora denaro, e sempre e solo denaro. "Finanza creativa", abbiamo imparato a chiamarla in questa inebriante stagione di culto pagano per il dio mercato. Non ci siamo accorti che, nel frattempo, è diventata "finanza distruttiva"».

Secondo l’economia finanziaria il “lavoro” non è più una “ricchezza”, ma un costo da abbattere, possibilmente da “bypassare”: fare allegramente soldi con i soldi è stato non tanto il nuovo trend della prassi di investimento ma il dictat perentorio per le transazioni che hanno sostituito gli investimenti.

Una povertà rivoluzionaria contro la piaga della povertà disumana

La povertà più o meno strisciante continua ad essere protagonista in queste settimane. Aumenta il numero delle famiglie povere e diminuisce il loro potere di acquisto; mentre lo Stato riduce i servizi, toglie fondi al sistema sanitario e decurta sovvenzioni alla scuola.

La povertà rappresentava per il capitalismo finanziario di quest’ultimo secolo quello che i rifiuti rappresentano per il capitalismo moderno. Proprio come è impossibile accumulare continuamente capitale senza produrre povertà, così è impossibile farlo senza produrre rifiuti.

A questo punto emerge con evidenza la necessità di una resistenza, ancor più di una lotta al sistema in vista di una inversione che blocchi questa discesa infernale in una società sempre più diseguale, sempre più disparitaria e sempre più schiavizzata, nella quale i diritti diventano un lusso riservato ai pochi e la dignità una merce qualsiasi da sottoporre a contrattazione.

Agli effetti di una inversione di tendenza occorre rendersi conto, anzitutto, che spesso coloro che cercano di lottare contro la povertà sono gli stessi che la provocano, nel senso che pur reagendo alle conseguenze disastrose del sistema economico, fanno proprie le premesse che lo rendono necessario e lo mantengono in auge. C’è troppa gente in giro che ha la coscienza colonizzata da una propaganda sfacciata che scambia la Libertà per libertinaggio e la applica al mondo economico che invece dovrebbe stare sotto il dominio della Legge.

«Il paradosso della nostra epoca - ebbe a denunciare il cardinale Etchegeray in un prezioso libretto edito dalla Comunità di Bose nel 2000 - è che il mondo è sensibile al dramma dei poveri con una mentalità di ricco, mentre la chiesa vi si accosta con un cuore di povero. Donde il gigantesco equivoco esistente tra la povertà economica e quella evangelica. Come spiegare che si può conciliare una povertà da combattere con una povertà da abbracciare? Come far comprendere la ricerca spirituale di ciò che è senza prezzo in una economia sottoposta alla legge dei costi? Come far posto alla gratuità di un atto in una civiltà di mercanti? Nella società dei consumi, la beatitudine della povertà appare come un lusso o come un oggetto di derisione» (Roger card. Etchegaray: Che ne hai fatto di Cristo? Pag. 182).

Personalmente non sono tanto sicuro che la chiesa non sia, anch’essa, soggiogata da questo grande imbroglio…

Sarebbe bello, contro ogni opportunistica prudenza, se si riscoprisse da parte dei cristiani la loro vocazione profetica, quella di parlare, “sine glossa”, il linguaggio evangelico della schiettezza.

Come esempio voglio qui riportare un passo bellissimo tratto dalle omelie di Basilio di Cesarea (“Che cosa è tuo?” –Bose 2000; pp. 20-22)

«“A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?”, dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a lui e solo suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno, e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe bisognoso(…). Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito. Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare».

Se si coniugasse questo alto senso morale e lo sdegno di fronte agli accumuli e agli sprechi di oggi con le analisi critiche, tra i molti, di Karl Marx, Karl Polanyi, Serge Latouche e Riccardo Petrella, di certo l’alba per uno nuovo giorno non sarebbe distante.

Dovrebbe apparire chiaro nella coscienza dei credenti che i poveri li si ama solidarizzando con loro e con le loro lotte di liberazione mentre i ricchi li si ama combattendoli e facendo opposizione al sistema che legalizza l’illegalizzabile. Non sarebbe più possibile “amare” indistintamente, allo stesso modo, ricchi e poveri. Un amore, diciamo pure, “personalizzato”, “contestualizzato”, vedrebbe la Chiesa in rapporti diversi con le varie categorie sociali e con le singole persone, così come i genitori hanno rapporti di amore diversi con figli diversi.

«Quanto vorrei una Chiesa povera per i poveri»!

Che questo sogno di Francesco, Vescovo di Roma, non sia un richiamo a questo nuovo percorso che ci si apre, in vista di una “Liberazione” non più procrastinabile?

Ce lo auguriamo e, per quanto possibile, lo facciamo nostro.




Giovedì 06 Giugno,2013 Ore: 17:27
 
 
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