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www.ildialogo.org Noi, prigionieri del dubbio,di ALESSANDRO ESPOSITO

Noi, prigionieri del dubbio

di ALESSANDRO ESPOSITO

Dal sito Micromega.it

aespositoIn risposta al mio ultimo intervento, ho ricevuto dalle lettrici e dai lettori repliche assai pacate ed intelligenti, che mi hanno permesso di approfondire la riflessione e, congiuntamente, l’inquietudine che la percorre e la ingenera. In particolare vorrei soffermarmi sulle suggestive obiezioni rivolte alle mie considerazioni dal gentile signor Umberto, secondo il quale, cito, «la conoscenza di Dio non può avvenire attraverso la ragione (o lo studio)», giacché, prosegue, «la “conoscenza” di Dio è più un’esperienza […] avviene attraverso il cuore». Alla luce di queste premesse, conclude lo stimato lettore, conoscere Dio «significa amare. Chi ama ha trovato Dio».

Le osservazioni mi paiono pertinenti e, oltretutto, conseguenti con quello che, innegabilmente, costituisce il cuore dell’evangelo annunciato e vissuto da Gesù di Nazareth. Rilevo un solo vizio di forma nel ragionamento: anche l’esperienza dell’amore, come opportunamente la definisce il signor Umberto, è frutto di una connessione, intima, inscindibile, con la ragione, la quale, mediante l’intelletto, fornisce quelle condizioni attraverso cui ogni esperienza, ivi inclusa quella dell’amore, è resa possibile[1]. Non si tratta, naturalmente, di circoscrivere l’amore, di per sé, così come noi, incircoscrivibile, entro il perimetro asfittico del pensiero logico; si tratta, piuttosto, di riconoscere, assai più che di istituire, quel rapporto mutuo e fecondo che intercorre tra il nostro vissuto emotivo e la sua rielaborazione riflessiva: quando questo rapporto si incrina o, peggio, si infrange, si spezza quell’equilibrio delicato e dinamico che ci costituisce e finiamo per naufragare, smarrendoci nel labirinto inestricabile della nostra psiche.

Più perplessità desta in me l’ultima parte del bell’intervento del signor Umberto: «Concludere che la condizione dell’uomo è quella di un’ineluttabile inquietudine credo che significhi escludere dall’esperienza umana la dimensione sacra o mistica (da cattolico direi “divina”) la quale è capace di portarci oltre i dubbi sul senso della nostra vita». Le obiezioni che vorrei porre a questa affermazione sono essenzialmente tre:

1. Dal dubbio una ricerca di fede autentica non credo possa ritenersi esente: tale estraneità, difatti, finirebbe per commutarla in certezza apodittica e, pertanto, per dissolverla in quanto disposizione fiduciosa, necessariamente fondata sull’incertezza. Purtroppo mi capita di constatare come molti interpretino invece la fede non come ricerca necessariamente incompiuta, ma come approdo definitivo, «capace di portarci oltre i dubbi». Io, al contrario, sono profondamente persuaso che ogni prospettiva che prometta il superamento del dubbio sia illusoria e diseducativa, poiché non insegna alle donne e agli uomini a fare i conti con la nostra ineludibile provvisorietà. Ciò, a mio giudizio, rappresenta non l’inveramento, ma la contraffazione della fede, ridotta in tal modo a ricerca di quella sicurezza che uno sguardo onesto sulla vita non può in alcun modo consentire e men che meno garantire.

2. Ma al dubbio non può sottrarsi nemmeno l’amore in quanto esperienza pienamente umana, dove la mistificazione e l’equivoco sono costantemente dietro l’angolo. Ce lo ricorda, con la consueta profondità, Umberto Galimberti, quando scrive:

«Amore è cosa intricata, perché sempre ci si confonde e non si chiarisce mai se si ama l’altro o si ama la relazione, se si soddisfa il nostro bisogno di sicurezza o il nostro bisogno di felicità. Oppure si vuole la felicità, ma non i suoi costi […] Il camuffamento dei nomi fa chiamare “amore” quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi si è davvero, per il terrore di incontrare se stessi»[2].

L’amore come “soluzione” del dubbio che ci attanaglia perché ci determina non mi ha mai persuaso: al contrario, ha sempre alimentato la mi diffidenza. L’amore va accolto e vissuto nella sua costitutiva ambivalenza, che è poi l’amara radice della nostra umanità: dipingerne un volto luminoso, dimentico di quell’ombra che, inesorabile, lo accompagna, significa alimentare l’illusione nei riguardi della vita e del suo irreperibile senso.

3. Il problema di fondo, a mio giudizio, risiede nel ritenere risolto l’insolubile mediante il rimando a una dimensione che si pretende di sottrarre alla provvisorietà dell’umano che, se accolta con onestà, porta a comprendere l’ineluttabilità del fatto che «si brancola sempre nel condizionato»[3]. Disconoscere questa realtà comporta, a mio giudizio, l’impossibilità di cogliere l’essenza tragica dell’umano.

L’aveva invece colta e sviscerata a fondo uno spirito acuto quale Gesualdo Bufalino che, nella conclusione del suo romanzo Le Menzogne della notte mette in bocca al protagonista queste amare, abissali parole:

«Noi, gli uomini, chi siamo? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico? Se così è, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido […] Saremmo questo, noi, creature di lacrime?»[4].

Il dubbio, naturalmente, rimane.

Alessandro Esposito – pastore valdese

(17 gennaio 2013)

NOTE

1 Sull’indebita trasposizione dell’intimo convincimento che si può legittimamente avere circa l’esistenza di Dio sul piano di una – indimostrabile – oggettività (operazione a più riprese tentata da tanta cattiva teologia), ci mette in guardia Immanuel Kant: «I principi dell’intelletto […] devono essere semplicemente d’uso empirico, e non trascendentale, tale cioè che si spinga al di là dei termini dell’esperienza […] avendo essi per oggetto soltanto la possibilità dell’esperienza […]» (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 1991, pagg. 237-243). Quando ci occupiamo di Dio, prosegue Kant ci troviamo nell’ambito che egli definisce del trascendentale, ove assai sovente «accade che la necessità soggettiva di una certa connessione dei nostri concetti nell’intelletto venga considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé: illusione che è affatto inevitabile […] La dialettica trascendentale sarà paga pertanto di scoprire l’apparenza dei giudizi trascendenti, e di prevenire, insieme, che essa non tragga in inganno: ma che questa apparenza si dilegui e cessi di essere un’apparenza, questo è ciò che la nostra critica non può giammai conseguire» (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 1991, pag. 237). Ecco perché, sovente, ciò che rappresenta un convincimento intimo e radicato, naturalmente rispettabilissimo, finisce per trasformarsi indebitamente in presunzione di validità oggettiva.

2 Umberto Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2004, cit. pagg. 104-106.

3 Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 1991, pag. 394.

4 Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, Bompiani, Milano, 2001, cit. pag. 129.




Sabato 19 Gennaio,2013 Ore: 07:13
 
 
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