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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Sulle tracce dell’uomo Gesù: oltre le Scritture, i dogmi, la religione,da Adista Documenti n. 28 del 21/07/2012

Sulle tracce dell’uomo Gesù: oltre le Scritture, i dogmi, la religione

da Adista Documenti n. 28 del 21/07/2012

DOC-2461. ROMA-ADISTA. Nell’ambito dell’ancor giovane ricerca teologica diretta a riformulare radicalmente l’intera fede cristiana in un linguaggio che possa risultare comprensibile al mondo postmoderno, per salvarla così da una altrimenti sicura irrilevanza, il teologo e vescovo episcopaliano

John Shelby Spong

è sicuramente una figura chiave, proprio come lo il gesuita belga

Roger Lenaers

. È pertanto un grande merito della Massari editore, piccola casa editrice con sede a Bolsena, aver fatto conoscere in Italia le opere dei due autori, divenute vere pietre miliari in questo nuovo e appassionante viaggio teologico. Dopo la pubblicazione nel 2009 del libro di Lenaers

Il sogno di Nabucodonosor o la fine di una Chiesa medievale

(v. Adista nn. 44 e 93/09) e nel 2010 di quello di Spong

Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo

(v. Adista n. 94/10), sono usciti quest’anno altri due importanti libri degli stessi autori:

Benché Dio non stia nell’alto dei cieli

del teologo belga (di cui è possibile leggere un’ampia recensione su Adista Documenti n. 26/12) e

Gesù per i non religiosi. Recuperare il divino al cuore dell’umano

di Spong (Massari editore, pp. 430, 17 euro, acquistabile presso Adista, telefonando al 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi al sito). Un libro, quest’ultimo, che il vescovo episcopaliano riconduce a due fondamentali motivazioni: un profondo impegno verso Gesù di Nazareth, per scoprire che cosa della sua umanità ha consentito al popolo ebraico di realizzare attraverso la sua vita l’incontro con quel mistero ultimo che noi chiamiamo Dio e che permea tutto ciò che esiste, e un’altrettanto profonda alienazione «dalle forme e dai simboli tradizionali attraverso i quali il significato di questo Gesù è stato comunicato lungo i secoli», quelle formulazioni teologiche, cioè, che lo hanno dipinto «come un visitatore celeste che è venuto dal Dio sopra il cielo attraverso una nascita miracolosa» e che, completato il suo lavoro, quello di portare salvezza a un mondo decaduto, è tornato «a quel Dio attraverso un volo cosmico»: formulazioni rivelatesi, nella migliore delle ipotesi, vuote di senso alle orecchie delle persone del XXI secolo. «Io cerco – scrive Spong – un Gesù oltre le Scritture, oltre i credo, oltre le dottrine, oltre i dogmi e perfino oltre la religione stessa», molto oltre la definizione teista di Dio come un essere che si trova “lassù” o “là fuori”, pronto a ricompensarci o punirci in base alla sua divina volontà. Un Gesù come «porta d’ingresso alla meraviglia di Dio», al mistero della vita, dell’amore e dell’essere.

Non può non produrre sconcerto, in questo senso, il fatto che, per quanto sia oggi impossibile prescindere dallo studio critico della Bibbia, i membri del clero appaiano impegnati a sopprimere ogni conoscenza al riguardo «per paura che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo istituzionale». Come se la verità e Dio possano mai risultare incompatibili: «Ogni divinità che ha bisogno di protezione nei confronti della verità, da qualunque fonte provenga, è già morta».

Rimuovendo le incrostazioni del passato

Non è facile, tuttavia, per il credente, scoprire che «così tanto di ciò che è stato detto e scritto su Gesù non è affatto storia». Che, cioè, come Spong analizza in maniera attenta e accurata, Gesù è sì vissuto realmente in un particolare tempo e luogo (il teologo respinge in maniera decisa le argomentazioni di chi ritiene che Gesù stesso sia una creazione leggendaria), ma è nato in modo perfettamente normale a Nazareth, e non c’erano stelle, angeli, magi, pastori e mangiatoie. Che il padre terreno di Gesù non è una persona storica ma un espediente letterario e che Maria non era l’«icona della purezza verginale». Che anche i dodici apostoli sono «più simbolicamente reali di quanto non lo siano effettivamente», che Gesù ebbe anche delle discepole, che erano sempre con lui. Che, stando alle conclusioni del Jesus Seminar (un gruppo di 150 studiosi specializzati nell'ambito degli studi biblici, degli studi religiosi o in campi collegati), l’84% delle parole e una percentuale simile degli atti attribuiti a Gesù non sarebbero storici. Che non comandava alla natura di obbedirgli né restituiva la vista ai ciechi, l’udito ai sordi o la salute agli infermi, essendo i miracoli descritti nel Nuovo Testamento piuttosto dei tentativi per tradurre in parole abbastanza grandi la potente esperienza interiore vissuta dai discepoli, la loro scoperta della presenza di Dio nell’uomo Gesù. Che, sì, è stato giustiziato dai romani sulla croce, ed anche abbandonato dai discepoli, ma che tutta la descrizione della sua agonia non ha niente di storico, perché è stata costruita su narrazioni tratte dalle Scritture ebraiche e non dai racconti di testimoni oculari. E che dunque non c’è stata un’Ultima cena, né alcun atto di tradimento, né corona di spine, né ladroni, né tomba, né pietra fatta rotolare da un angelo, né un corpo risuscitato uscito dal sepolcro il terzo giorno, né ascensione in un paradiso collocato nell’alto dei cieli.

La verità è che, come spiega Spong, non sono stati gli eventi della vita di Gesù a soddisfare miracolosamente le aspettative e le profezie bibliche, ma è stata la sua vita, molto prima che i vangeli venissero scritti, a venire interpretata attraverso le Scritture e modellata sulla base delle immagini ebraiche. Un processo in cui i seguaci, ascoltando in sinagoga le scritture, «elaboravano i loro ricordi attraverso i vari elementi del loro culto comunitario finché l’esperienza di Gesù non si adattava loro e acquisiva un senso». Di modo che la domanda da porre riguardo ai vangeli non è se queste cose siano accadute o meno, ma che cosa ci fosse in Gesù «da portare i suoi primi seguaci a imperniare attorno a lui la storia sacra del loro passato ebraico» e perché la sua morte sia stata da loro vista come «un preludio a una vita ampliata». Ed è così che, spazzato via il linguaggio teistico con cui è stato comunicato il significato di Gesù, «ciò che emerge è il ritratto di una vita in cui ciò che è umano si apre al divino». Una vita così integra e piena da consentire di abbattere i sistemi di sicurezza tribale, le paure, i pregiudizi, le regole religiose e ogni altra barriera che impedisce e limita la nostra umanità, per aprirci a una nuova dimensione di ciò che significa essere umani. Allora, «Gesù non era divino perché possedeva una vita umana nella quale era penetrato il Dio esterno», ma lo era «perché la sua umanità e la sua coscienza erano così integre e complete che il senso di Dio scorreva attraverso di lui».

Allo stesso modo, se la storia della crocifissione è stata modellata in maniera da rendere la morte di Gesù analoga a quella dell’agnello pasquale, e collegata alla mitologia ebraica sulle origini della colpa umana, è invece assolutamente reale la profonda esperienza interiore vissuta dai discepoli dopo la crocifissione, al punto da tornare sui loro passi, fino a sfidare la persecuzione e il martirio, con una forza di convinzione tale «che nessuna paura o minaccia poteva ora separarli da quel Dio che credevano di aver incontrato in Gesù». Cosicché, «qualunque cosa sia stata quella che i primi cristiani hanno chiamato Pasqua, essa è reale».

Di seguito, ampi stralci del capitolo sulla croce come «ritratto umano dell’amore di Dio. (claudia fanti)

LA CROCE: UN RITRATTO UMANO DELL’AMORE DI DIO

di John Spong

(…) Che significato ha la croce? Come dev'essere intesa? Il vecchio schema di vedere la croce come il luogo in cui il prezzo della caduta fu pagato è chiaramente e totalmente inadeguato. Oltre a incoraggiare il senso di colpa, giustificando la necessità della punizione divina e causando un incipiente sadomasochismo che perdura con incessante tenacia attraverso i secoli, la tradizionale comprensione della croce di Cristo è diventata inefficace a ogni livello. Come ho fatto notare in precedenza, una divinità che viene in soccorso porta alla gratitudine, non all'espansione della nostra umanità. La costante gratitudine, che la storia della croce sembra incoraggiare, crea solo debolezza, immaturità e dipendenza. Fa sì che noi esaltiamo liturgicamente la grandezza di Dio, mentre accettiamo la miseria della vita umana e il costo per Dio di salvare gente come noi. Tuttavia è difficile leggere la storia di Gesù senza interpretare la croce come il più alto momento di rivelazione. Diventa quindi imperativo superare le spiegazioni dell’antichità per cercare di isolare l'esperienza che gli esseri umani ebbero con il crocifisso. È proprio questa esperienza, oserei dire, che ha sia ispirato le narrazioni della risurrezione sia dato forma all'eucaristia cristiana. Questo compito interpretativo chiede a noi di rimuovere l'immagine della divinità teistica alla cui volontà Gesù si dice sia stato obbediente fino alla morte, perché noi potessimo scoprire il potere di trasformare la vita che doveva essere presente nel crocifisso. (…).

Penso che non ci siano dubbi sul fatto che tra Gesù e i suoi seguaci più vicini ci fosse un legame particolarmente intenso. I suoi discepoli interagivano con lui a vari livelli. Ascoltavano il suo insegnamento; ne sentivano l'impatto su se stessi e lo notavano sugli altri. Le persone attorno a Gesù si chiedevano che diritto e che autorità avesse per fare ciò che faceva, ma nelle loro stesse domande c'era la prova eloquente della presenza di qualcosa alquanto differente e autentico in lui. I Vangeli catturarono questa reazione in versetti quali: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? [...] Non è costui, il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6,2-3). «Ed erano stupiti del suo insegnamento, egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,22). (…). Il potere che era in Gesù e l'effetto che lui aveva sia sui suoi seguaci sia sugli altri faceva inevitabilmente parte della sua presenza che i discepoli assorbivano lentamente e regolarmente nel corso dei giorni, delle settimane, dei mesi, forse persino degli anni del loro legame con lui.

I discepoli ebbero anche la possibilità di vivere all’interno della relazione che Gesù sembrava avere con Dio. Anche questo dovettero elaborare. Lui chiamava Dio «Abba», termine che denota intimità e comunione. Essi lo guardavano pregare. Forse lo sentirono anche recitare brani delle Scritture e confrontarsi con il loro significato. I discepoli provavano la sensazione che, amandoli, Gesù in qualche modo li inducesse ad amare. Egli li esortava a oltrepassare le barriere tribali che separavano gli ebrei dai gentili, lui stesso l'aveva fatto con una donna sirofenicia (Mc 7,24-30) e con un centurione romano (Lc 7,1-10). Sapevano che non era legato dal pregiudizio che gli ebrei avevano costruito nei confronti dei samaritani, delle donne e dei bambini. Tutti questi momenti erano esperienze di crescita per i suoi discepoli e le loro vite chiaramente si espandevano con esse, che fossero sempre felici o meno del risultato. Gesù sembra avere costantemente parlato loro di qualcosa chiamato il regno di Dio, che stava irrompendo nella storia dell'essere umano. Questo era, per lo meno, il tema dominante del modo in cui il suo insegnamento veniva ricordato. Forse i discepoli sentivano che in qualche modo la sua stessa vita fosse un segno di questo regno. Si chiedevano cosa significassero le parole «il regno di Dio»; si chiedevano anche in che modo la vita di Gesù si potesse collegare a questo regno.

Pare che i discepoli abbiano visto in Gesù una rara integrità. Ci raccontano che Gesù aveva in sé il coraggio di essere tutto ciò che doveva essere nelle circostanze più diverse. Il loro ricordo di Gesù lo identifica come uno libero dal bisogno di essere definito dai suoi amici o dai suoi nemici. Quella libertà era irresistibile. Sospetto che i suoi discepoli desiderassero possederla.

Gesù sembra anche essere stato profondamente presente ad altri. Egli visse, così pare, dentro ciò che Paul Tillich chiamava «l'eterno presente». Gesù coinvolgeva le persone a tal punto che quando qualcuno entrava in contatto con lui sembrava che il tempo si fermasse davvero. Chiunque Gesù incontrasse, che fosse il ricco e giovane uomo di legge o la donna vicino al pozzo, coinvolgeva la persona, come dicono i discepoli, in quella che potrebbe essere chiamata «l'intensità dell'eterno». Nel fare questo, la sua stessa presenza sfidava la gerarchia dei valori umani che assegna alle persone diversi gradi di valore. Ogni persona, per Gesù, sembrava possedere il potenziale per diventare integra, per essere investita di un valore infinito. Sembrava che le persone che lo incontravano si arricchissero per mezzo di quell'incontro.

Secondo la mentalità dell'epoca, quando la malattia e l’infermità venivano viste come segni dello sfavore e della punizione divini, allora Gesù abbracciava i malati, poneva le sue mani su di loro, lavava quelle parti dei loro corpi che si pensava portassero la maledizione dell'ira divina. Era anche ricordato mentre permetteva alla donna di strada di toccarlo, e lei gli aveva poi lavato i piedi con le sue lacrime per asciugarli poi con i suoi capelli (Lc 7,36-50). L'immoralità della donna era giudicata, dai capi religiosi, come un segno della sua ribellione contro le leggi di Dio. Le azioni di Gesù sembravano sfidare di continuo quella definizione di immoralità. Accolse nella cerchia ristretta dei suoi discepoli un esattore delle tasse, impuro a causa dei suoi rapporti con i conquistatori pagani degli ebrei (Mc 2,13-14). Se anche quest'uomo, che aveva usato la sua posizione compromessa per accrescere la miseria del suo stesso popolo conquistato, aveva un valore, allora chiaramente nessuna vita per Gesù era impossibile da trasformare. Gesù accolse nell'abbraccio del suo amore bambini senza potere che i suoi discepoli volevano respingere. Queste e altre azioni generose furono le cose che i discepoli videro di questo Gesù, le cose che ripensarono, le cose che li affascinarono e li attrassero e, in alcuni casi, risultarono loro perfino repellenti. Sempre, comunque, s'interrogavano su Gesù quando ognuna delle sue azioni li obbligava a riconsiderare i loro stessi valori. Vivere con Gesù doveva essere come vivere dentro un caleidoscopio eternamente cangiante.

Qualunque cosa Gesù pensasse veramente di Dio, quella realtà costituì una potente presenza nella sua stessa vita. Gesù, nel suo insegnamento, utilizzava per Dio una grande varietà di simboli piuttosto comuni, perfino banali. Dio era come un padre che accoglieva a casa il figlio prodigo (Lc 15,11-32). Dio era come un pastore che cercava la pecora smarrita (Lc 15,3-7), o come una donna che spazzava con cura finché trovava la moneta perduta (Lc 15,8-10). Il Dio che Gesù sembrava conoscere era uno che accoglieva tutti per ciò che erano (Mt 11, 28). Quelli che trovavano la strada per arrivare a Dio potevano essere fastidiosi come la vedova molesta che non smetteva di bussare alla porta finché tutte le sue necessità erano soddisfatte (Lc 18,1-8), o potevano essere come quelli che nelle profondità più segrete dei loro cuori trovavano un perdono così gentile e illimitato che coglieva il significato dell'eternità (Gv 8,1-11). I suoi discepoli dovevano aver preso parte a tutte queste esperienze.

Gesù sembrava più grande della vita per quelli che lo conoscevano meglio, e ciò li portò ad attribuirgli il potere di controllare le forze innanzi alle quali la maggioranza degli esseri umani si sente inerte. Non dobbiamo quindi sorprenderci dei racconti soprannaturali che nacquero attorno a lui, in un'epoca in cui il miracoloso era considerato comune. Probabilmente questo accadeva perché le persone a lui vicine erano totalmente e costantemente nutrite della profonda spiritualità che emergeva da lui, tanto da immaginare grandi quantità di ospiti che condividevano questo banchetto spirituale al quale c'era sempre più cibo di quanto ne potesse essere consumato o digerito, non importa quanto grande fosse la folla (Mc 6,35-44; Mt 14,13-21; Lc 9,10-17; Gv 6,1-14).

I discepoli, inoltre, percepivano Gesù come un uomo con una missione. Non erano certi di quale missione si trattasse, ma la sua realtà non fu mai messa in dubbio. Il mondo sembra sempre farsi da parte, le acque sembrano sempre aprirsi per colui che sa dove sta andando. L'idea che «la sua ora» non fosse ancora arrivata, o che infine arrivasse al tempo della crocifissione, è una costante chiaramente presente nelle narrazioni dei Vangeli (Mc 14,41; Mt 26,45; Lc 22,53; Gv 2,4 ). (…).

UN CONFLITTO INTERIORE

Tutti questi temi sembrano convergere nella storia della crocifissione di Gesù a Gerusalemme. Questo era ovviamente sia un importante sia un traumatico e devastante ricordo che sfidava molte altre cose che i suoi seguaci avevano associato a lui. La sua morte, nell'intensità del loro dolore, non sembrò loro altro che un profondo no divino espresso da un Dio esterno che giudicava il senso della sua vita. Un messia non poteva morire. Gli ebrei non potevano concepire un messia morto. Quindi, allorché Gesù morì, si pensò che tutte le associazioni che avevano fatto tra Gesù e il messia promesso fossero state infrante, presumibilmente per sempre. Il Gesù che aveva così profondamente combattuto le credenze della gerarchia religiosa era morto, e vergognosamente; la Torah chiamava «maledetto» colui che era stato appeso a un albero (Dt 21,23). I membri di questa gerarchia erano chiaramente i vincitori. Gesù era il perdente. I discepoli di Gesù dovevano farsi una ragione su quelle che sembravano conclusioni inevitabili. Se Gesù era morto, probabilmente il celeste Dio paterno non aveva ritenuto utile risparmiarlo. I discepoli dovettero ammettere che Gesù aveva avuto torto, che forse si era illuso; e se lui aveva avuto torto, lo avevano anche loro. «Ingannati», «fuorviati», «colpevoli»: queste erano le parole che erano costretti a usare riferendosi a se stessi.

Eppure questa conclusione non soddisfaceva i discepoli, poiché il loro conflitto interiore non si placava. La realtà della morte di Gesù continuava a scontrarsi con la realtà dell'esperienza della vita con lui. Come poteva Dio dire no al messaggio di Gesù, che era un messaggio di perdono e di amore? Come poteva Dio essere offeso da qualcuno, la cui vita aveva superato ogni divisione per rafforzare l'umanità di tutte le creature di Dio? Come poteva Gesù essere così profondamente un agente di vita e non essere anche un agente di Dio? Come poteva uno distribuire vita e amore così gratuitamente ed essere anche colpevole di un crimine capitale? I conti non tornavano e pertanto niente sembrava avere una soluzione. L'agitazione interiore e la tensione che la crocifissione causò nei discepoli di Gesù era palpabile, straziante e senza fine. Questa tensione irrisolta è una delle ragioni per cui, credo, ci fu un considerevole periodo di tempo tra la crocifissione, che era l'esperienza che causava la tensione, e la risurrezione, che era l'esperienza in cui la tensione si risolveva definitivamente. «Tre giorni» è il simbolo liturgico che sta a indicare tale periodo di tempo. (…).

Ciò che vediamo nei Vangeli, scritti almeno due, e forse persino tre generazioni dopo la tragedia della crocifissione, è il modo in cui queste tensioni vennero ricomposte. La morte di Gesù aveva trovato uno scopo. Era avvenuta, dice Paolo, «per i nostri peccati» e «secondo le Scritture». (…).

È stato molto tempo dopo la crocifissione che la morte di Gesù ha cominciato a essere paragonata alla morte dell’agnello pasquale. E fu anche in questo momento che la sua morte venne paragonata alla morte dell'agnello sacrificale di Yom Kippur, venendo quest'ultima intesa come un risarcimento richiesto da Dio per rimediare alla rovina della creazione e come un sacrificio di sangue che ripagava il prezzo della caduta. Nella connessione tra Gesù e l’agnello pasquale si affermò che il potere della morte era stato spezzato. Nella sua connessione con l'agnello di Yom Kippur, il senso dell'espiazione si affermò che era compiuto. La sua morte, compresa infine all'interno di queste interpretazioni simboliche, ora si diceva avesse il potere di strappare il velo del Tempio che aveva sempre separato il luogo santo, dove la gente si riuniva, dal Santo dei Santi dove solo Dio si pensava che dimorarasse (Mc 15,38; Mt 27,51; Lc 23,45). Questi furono alcuni dei simboli che trasformarono la morte di Gesù da intollerabile tragedia ad atto intenzionale di redenzione.

SMANTELLARE LA CORNICE ESTERNA

Tutta questa evoluzione nella comprensione di Gesù ebbe luogo all'interno del concetto teistico di Dio comunemente accettato. Questo Dio della creazione era stato offeso dalla disobbedienza umana. Questo Dio, che viveva oltre i cieli, richiedeva punizione e risarcimento. Quando la punizione divenne più grande di quanto un essere umano caduto potesse sopportare, allora il superamento dei peccati del mondo e il raggiungimento dell’unità con Dio divennero qualcosa che solo Dio stesso poteva realizzare. Così, in un infinito atto di grazia, Dio entrò nella storia attraverso la persona di Gesù, per mezzo di una nascita miracolosa. Dio dimostrò il potere divino nella vita di Gesù dando a questi la capacità di fare ciò che solo Dio poteva fare: perdonare i peccatori, curare le malattie, superare le distorsioni di un mondo caduto, manipolare le forze della natura come loro creatore, collocarsi tra vita e morte risuscitando i morti e uscendo dalla tomba in cui qualcuno aveva tentato di chiuderlo, e infine salire miracolosamente al cielo per completare il cerchio e offrire a Dio una creazione e un'umanità redenta. Questo divenne il modo in cui la storia di Gesù fu raccontata, accennato inizialmente nei Vangeli, e poi reso in modo più concreto e dogmatico nei credo e in seguito nelle dottrine e nei sacramenti della Chiesa. Le spiegazioni, tuttavia, assumono sempre la realtà della visione del mondo in cui si sono formate. Quando quella visione del mondo muore muoiono anche tutte le spiegazioni ad essa collegate. Se l'esperienza dell'incontro con Dio in Gesù viene identificata con una spiegazione che assume la visione di Dio tipica del primo secolo, anche cieli e miracoli inevitabilmente moriranno. Questa è la situazione in cui siamo oggi ed è per questo che è necessario liberare Gesù dai ceppi della visione religiosa di ieri, per offrire un ritratto di «Gesù per i non-religiosi».

La domanda adesso è un'altra: cosa ci rivela l'esperienza di Gesù sulla vita, su Dio, sullo scopo, sull'eterna ricerca dell'unione e su ciò che significhi essere una sola cosa con Dio? Solo se riusciamo a rispondere a questa domanda la croce potrà diventare un simbolo utilizzabile invece di un segno della natura sadica della divinità teistica, che ha richiesto il sacrificio del figlio perché fosse pagato il prezzo del peccato. Quando una simile teologia penetra nelle nostre liturgie, contribuisce alla degradazione umana e nutre i feticismi che i cristiani hanno sviluppato attorno al potere purificatore del sangue versato da Gesù. Questa cornice esterna - con il suo linguaggio di sacrificio, la sua immagine di un Dio violento e punitivo e con la sua definizione della vita umana peccatrice, caduta e spezzata, solamente capace d'implorare pietà - che è diventata fallimentare, dev'essere ora smantellata. Il nostro viaggio attraverso le pagine di questo libro ha tentato di fare proprio questo. L'ansia che molti provano deriva dal fatto che quando questa struttura viene smantellata non sembra rimanere niente. Se è proprio così, allora dobbiamo essere onesti con noi stessi e affrontare il fatto che il cristianesimo è morto e che è iniziata la storia di un mondo postcristiano.

Tuttavia, quale cristiano credente del XXI secolo, io non accetto questa conclusione. Il mio compito non consiste nel rianimare artificialmente i simboli del passato. Essi non sono, a mio parere, né degni né capaci di respirazione. Il mio compito è comprendere a fondo l'esperienza che ha dato vita a questi simboli, oramai datati e moribondi e quindi trovare le parole appropriate alla mia visione del mondo per trasmettere il potere dell'esperienza di Gesù. Non posso fare questo per tutto il tempo più di quanto abbiano potuto farlo i discepoli. Lo posso fare solamente per il mio tempo. Non posso dire a chiunque chi o cosa sia Dio. Né lo può chiunque altro, sebbene per secoli abbiamo preteso di fare proprio questo attraverso i nostri credo e le nostre dottrine. La realtà di Dio non può mai essere definita. Può solo essere sperimentata, e dobbiamo sempre riconoscere che anche questa esperienza potrebbe non essere altro che un'illusione. Il teismo è un'ulteriore umana e inadeguata definizione di Dio che dev'essere abbandonata.

Quando cerco di parlare della mia esperienza di Dio, posso farlo solo usando analogie umane. Gli insetti non possono dire a nessuno cosa sia essere come un uccello. I cavalli non possono dire a nessuno cosa sia essere come un essere umano. Gli esseri umani non possono dire a nessuno cosa sia essere come Dio. Ciò mi sembra elementare. Quindi concedetemi di parlare della mia esperienza con il linguaggio dell'analogia umana, poiché questo è l’unico linguaggio con cui posso parlare.

Sperimento che la vita è più grande di quanto io riesca ad abbracciare. Viverla pienamente mi porta oltre i limiti della mia coscienza umana. Posso, tuttavia, sentirne la dolcezza e contemplarne l’eternità. Quando lo faccio, io comunico con la Sorgente della vita che chiamo Dio.

Sperimento l'amore come qualcosa che è al di là di me. Non posso crearlo ma posso riceverlo. E quando l’ho ricevuto posso anche donarlo. Quindi l’amore è una realtà trascendente con cui mi posso impegnare e attraverso cui posso essere trasformato; posso crescere in una più profonda comprensione di esso e contemplare la sua fonte, che io chiamo Dio.

Sperimento di essere come qualcosa di cui io partecipo. ma il mio essere non si avvicina a esaurire il contenuto dell’Essere stesso. Sono inserito in qualcosa di molto più grande di me. L'essere stesso è inesauribile, infinito, indistruttibile. Quando tocco il Fondamento dell'Essere, credo di toccare ciò che io chiamo Dio. È attraverso la coscienza ampliata di queste esperienze trascendenti che guardo Gesù di Nazareth e affermo che nella sua vita io vedo cosa significhi la parola «Dio». La mia visione di Dio e anche del Dio che incontro in Gesù è una descrizione soggettiva di ciò che credo sia una realtà oggettiva.

UN DISTRUTTORE DI CONFINI

Ho cercato di capire Gesù come un distruttore di confini, come uno che chiama la gente a uscire dal cerchio dei propri sistemi di sicurezza. La sua era una vita che ha riconosciuto la realtà della paura che soffoca l'umanità, che costruisce mura di protezione, che crea pregiudizi che delimitano ed erige sistemi religiosi concepiti per dare sicurezza alla gente cronicamente impaurita. Camminare nel sentiero di Cristo è avere il potere di andare fuori e oltre questi vari sistemi umani di difesa. È camminare oltre tutte le forme religiose che legano la nostra umanità, per poter entrare nel mondo senza religione di una nuova umanità. È cercare la divinità non esternamente, ma come la dimensione più profonda di ciò che significa essere umani. È entrare nella divinità solo quando diventiamo liberi di donarci. È smettere di speculare su chi o che cosa sia Dio e attuare ciò che Dio significa. È guardare la pienezza dell'umanità di Gesù e vedervi la presenza del divino. «Dio era in Cristo» non è una dottrina che conduce alle teorie dell'incarnazione e della trinità; è piuttosto l'acclamazione di una presenza che porta a una integrità, a una nuova creazione, a una nuova umanità e a un nuovo modo di vivere.

Prendiamo ora questa esperienza di Dio, un'esperienza che confluisce in integrità, e guardiamo ancora una volta la storia della croce. La sua brutalità non è diminuita, perché la crocifissione era una forma brutale di esecuzione in un mondo brutale, ma il ritratto di Gesù tracciato dagli evangelisti diviene ancor più rivelatore di quanto la nostra pietà avesse già immaginato.

Non m'interessa che i dettagli della storia della croce siano storicamente accurati. Da molto tempo sono convinto che non lo siano, poiché, come ho già suggerito, i Vangeli sembrano essere documenti liturgicamente predisposti, non basati su resoconti di testimoni oculari ma su antiche fonti ebraiche. Tuttavia essi presentano un ricordo di Gesù di Nazareth, un ritratto che io trovo tuttora affascinante.

Guardiamo dapprima la storia di Gesù con cui ancora oggi apriamo la Settimana santa. Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme. C'è aria di festa e una grande folla. Il simbolo messianico preso da Zaccaria è ovvio (Zc 9,9-10).

Fa un ingresso da re ma senza i simboli del potere. Marcus Borg e John Dominic Crossan, nel loro libro The Last Week, mettono a confronto questa processione con quella di Pilato, che nello stesso momento giunge da Cesarea a Gerusalemme per mettere fine a ogni attività terroristica che possa verificarsi nel periodo di Pesach. Il potere non cavalca un asino! Il potere non è disarmato. I Vangeli ci dicono che molti stendevano i loro mantelli sulla strada al suo passaggio. Altri spargevano rami frondosi recisi in campagna. (…). La folla vuole incoronare Gesù come suo re. Questa è alta retorica, da far girare la testa. Niente è più seducente per un insicuro essere umano del dolce narcotico della lode umana. Gesù, la persona integra, non è tuttavia seducibile. Egli sa chi è; non ha bisogno dell'acclamazione umana per sentirsi integro. A lui non gira la testa. Egli procede.

La parata di Gesù avanza inesorabilmente attraverso la settimana mentre gli evangelisti descrivono quei brevi giorni di passaggio. Si snoda attraverso Betania, ritorna a Gerusalemme, nel Tempio dove avviene il confronto. Il Tempio è recuperato. Non dev'essere un rifugio di ladri riuniti per sostenere la religione istituzionale. Dev'essere una casa di preghiera per tutte le nazioni. Non ci devono essere barriere che separano le persone dal Dio onnipresente che permea l'universo e che non può essere limitato da un luogo sacro costruito dalle mani dell'uomo, un luogo che in qualche modo si dice che contenga tutto ciò che Dio è.

Durante questa settimana, i resoconti dei Vangeli ritraggono la tensione che sale. Viene raccontata la parabola nella quale le autorità religiose vogliono uccidere il figlio del proprietario della vigna. (…).

Poi Gesù affronta i confini religiosi dei suoi tempi e le regole religiose della sua tradizione. Suggerisce che essi tutti legano la nostra umanità e che nessuno di loro ci rende liberi di essere. Chi è sposato in cielo? I morti risorgono? Qual è il comandamento più grande? Gesù elude in parte tutte queste domande. Egli è a contatto con una visione diversa: le regole della terra non si applicano al cielo. Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi. L'amore è l'essenza dei Comandamenti. (…). Non si trova Dio nel potere ma nell'assenza di potere. Bisogna essere sempre pronti, perché Dio arriva inaspettatamente nella vita. Dio è amore illimitato e sconfinato. È un messaggio potente quello vissuto e detto da Gesù di Nazareth, nel modo in cui la gente ha cercato di ricordare quest'uomo.

Poi il dramma, con una specie d'inevitabilità divina, si muove verso la morte di Gesù. (…) Gesù è arrestato. È solo. È condannato. La sua vita si avvicina alla fine, ma guardate e osservate il ritratto che gli evangelisti dipingono di lui che muore: era stato tradito, ma amava il traditore. Era stato abbandonato, ma amava chi lo aveva abbandonato. Il suo arresto fu contrastato, ma chiese che i suoi difensori lasciassero cadere le loro spade. Fu accusato falsamente, ma rimase in silenzio di fronte ai suoi accusatori. Non c'era un atteggiamento difensivo in lui. Anche mentre veniva deriso e tormentato, amava coloro che lo deridevano e lo tormentavano. Fu frustato e amò i suoi fustigatori. Fu rinnegato e amò chi lo rinnegava. Fu crocifisso e amò i suoi assassini. Ostilità e rifiuto, abuso e morte, tutto ciò non diminuì la sua umanità.

Questo è un ritratto di un uomo pienamente umano che non ha bisogno di odiare o di ferire. Quando una persona viene uccisa ingiustamente, l'umana tendenza è quella di aggrapparsi alla vita, di adottare qualsiasi tattica per avere la possibilità di vivere un attimo in più. La dignità umana viene meno nella più antica delle imprese umane, la lotta per la sopravvivenza. Le vittime imprecano, lottano, sputano e combattono contro il loro destino. Quando questo non funziona, allora mendicano, supplicano, si lamentano e pregano. Qualsiasi cosa possa dar loro una possibilità di vita diventa un'opzione da cogliere, nel disperato tentativo di aggrapparsi all'esistenza. Questo, tuttavia, non è il ritratto della morte di Gesù dipinto dagli evangelisti, che tentarono di catturare la memoria dell’esperienza di Gesù. (…).

Dedichiamoci, per favore, a questa immagine. Io dubito che sia storicamente accurata, ma è certamente un ritratto del modo in cui l'essere di Gesù era ricordato ed è quindi piena della comprensione del carattere di Gesù e della natura della sua esperienza. La sua era una vita così integra e così libera, che non aveva bisogno di aggrapparsi a essa. Questa è l'immagine di qualcuno che sfuggì alla mentalità di sopravvivenza che caratterizza tutti gli esseri umani autocoscienti. Non si può donare ciò che non si possiede. Gesù possedeva se stesso., Gesù donò la sua vita. La croce non è il luogo dove la giustizia di Dio venne soddisfatta attraverso la sofferenza del figlio divino. La croce è il luogo dove colui che era pienamente vivo poté donare agli altri tutto ciò che era, e in questo atto rendere visibile tutto ciò che noi intendiamo con la parola «Dio».

All'umanità nella sua pienezza sono conferiti i segni e il significato di Dio. L'umanità piena fluisce nella realtà divina. La divinità diventa ed è la profondità ultima dell'umanità. Dio non è un potere soprannaturale opposto al mondo o all'umanità. Il significato e la realtà di Dio si trovano nell'esperienza dell'integrità umana che fluisce nei modi di dare vita attraverso tutto ciò che noi siamo. Dio è sperimentato quando la vita si apre all'alterità trascendente, quando è chiamata al di là di ogni barriera a entrare in un'umanità in continua espansione. L'esperienza di Gesù da parte della gente nel primo secolo è stata semplicemente quella di aver incontrato Dio in lui. «Dio era in Cristo» - dicevano - e lo diciamo anche noi, perché la vita, l'amore e l'essere fluivano dalla pienezza della sua umanità.

UN SIMBOLO DELLA PRESENZA DI DIO

Vista da questa prospettiva la croce non è un luogo di tortura e di morte; è piuttosto il ritratto dell'amore di Dio che è visibile quando si può dare tutto ciò che si è e tutto ciò che si ha. La croce diventa così il simbolo della presenza di Dio che ci chiama a vivere, amare ed essere. Si distingue per un amore che abbraccia le diversità umane di razza, tribù, nazione, genere, orientamento sessuale, essere mancino, essere destrimano, e ogni altra varietà che possiamo trovare nella vita. La chiamata del Dio sperimentato in Cristo è semplicemente la chiamata a essere tutto ciò che ognuno di noi è: una chiamata a offrire, attraverso l'essere della nostra umanità, il dono di Dio a tutti gli esseri umani, mediante la costruzione di un mondo in cui ognuno possa vivere più pienamente, amare più prodigalmente e avere il coraggio di essere tutto ciò che può essere. Questo è il nostro modo di vivere la presenza di Dio. Dio ha a che fare con la vita, con l'amore e con l'essere. La chiamata di Gesù quindi non è una chiamata a essere religiosi. Non ci chiama a sfuggire i traumi della vita, a trovare la sicurezza, a possedere la pace della mente. Tutte queste cose sono inviti a una idolatria da patto sulla vita. La chiamata di Dio attraverso Gesù è una chiamata a essere pienamente umani, ad abbracciare l'insicurezza senza costruire steccati di protezione, ad accettare l'assenza di pace della mente, come un requisito dell'umanità. È vedere che Dio è l'esperienza della vita, dell'amore e dell'essere che s'incontra ai bordi di un'umanità ampliata. E sicuramente ciò che intendeva l'autore del quarto Vangelo quando ha citato Gesù proclamare così il suo scopo: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (10,10).

La religione chiamata cristianesimo sta morendo, vittima di una visione del mondo in espansione. L'esperienza di Dio in Gesù, sulla quale il cristianesimo è stato costruito, è nuovamente all'alba e creerà col tempo nuove forme attraverso le quali questa nuova visione potrà vivere. Quando Gesù sarà stato liberato dalla prigione della religione, saranno possibili una rinascita e una riforma. Gesù per i non-religiosi comincia a essere intravisto. (...). Anticipo e aspetto la nuova esplosione di Gesù nella coscienza umana.

Articolo tratto da
ADISTA
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Martedì 17 Luglio,2012 Ore: 13:13
 
 
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