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www.ildialogo.org “Anche se può fare la sua bella figura quando si confronta con il conservatorismo, manca oggi al progressismo una adeguata teologia”,di Sergio Quinzio

A proposito di conservatorismo e progressismo
“Anche se può fare la sua bella figura quando si confronta con il conservatorismo, manca oggi al progressismo una adeguata teologia”

di Sergio Quinzio

… La linea più evidente che attraversa oggi il paesaggio cristiano è quella che divide – per usare i termini correnti – conservatori e progressisti. Questa linea è meno netta di quanto appare a prima vista: il pontificato conservatore di Pio XII presenta non trascurabili aspetti progressisti, per esempio nell'attenzione agli sviluppi scientifici e tecnici e alle trasformazioni della società industriale, e il pontificato progressista di Giovanni XXIII presenta non trascurabili aspetti conservatori, per esempio in un tipo di devozione molto tradizionale. In realtà, termini come conservatore e progressista sono piuttosto sfatti, e il pontificato di Paolo VI ha realizzato una specie d'incontro a metà strada. Tuttavia, la contrapposizione fra conservatorismo e progressismo rappresenta il criterio al quale si è costretti a ricorrere quando si vuol confrontare tra loro diverse interpretazioni cristiane.

In effetti tutti i secoli della chiesa hanno conosciuto in modi ovviamente diversi la stessa contrapposizione di atteggiamenti, anche se in tempi recenti lo scontro è ingigantito per la rigidezza delle formulazioni tridentine, che chiudevano la chiesa di ieri in mura di ferro di fronte all'incalzante storia moderna. Quelli che chiamiamo progressisti hanno sempre finito per aver la meglio su quelli che chiamiamo conservatori, a cominciare dal prevalere di Paolo sui giudeocristiani e dall'abbandono dell'ebraico e dell'aramaico per il greco e poi per il latino, e da tutti gli adeguamenti ben presto imposti dall'assunzione dell'eredità culturale greca e politica romana. È solo l'errore dell'ottica conservatrice a far apparire la storia della chiesa come se fosse la tranquillizzante non-storia di un monolitico sistema di immutabili certezze, e il vol-to di ieri come se fosse quello di sempre. Ma il modo delle vittorie progressiste, in un organismo millenario come la chiesa, è ogni volta l'incontro a metà strada – una metà strada che si sposta continuamente per l'affiorare di nuove esigenze – fra le opposte tendenze. La chiesa è una realtà storica, anzi è la madre della storia, che nasce in quanto consapevolezza della significatività dell'itinerario temporale nel momento stesso in cui gli è imposta la meta del regno di Dio.

La novità – e gravità – del momento attuale sta nel fatto che il corso della storia è giunto ormai, attraverso questo processo di reciproca penetrazione, a mettere in questione la sopravvivenza della cristianità, e cioè di un ordo christianus con una sua storicamente evidente istituzionalità, dalla quale promanino in modo più o meno diretto società rette sulla base di strutture dedotte dalla, o compatibili con la verità cristiana. Il contrasto fra conservatori e progressisti verte in definitiva su questo punto: c'è ancora e dev'esserci sempre finché dura la storia del mondo, è un bene necessario e irrinunciabile la cristianità? oppure non c'è già più, o è prevedibile e addirittura auspicabile che in un futuro più o meno prossimo non debba più esserci? Ragioni, è ovvio, ci sono a favore dell'una e dell'altra tesi. Ma è chiaro che l'affermazione del carattere perenne della cristianità è ogni giorno di più contraddetta dai fatti: sicché le posizioni conservatrici perdono continuamente terreno rifugiandosi sempre più negli interessi, anche soltanto psicologici, costituiti. Ma anche l'affermazione che la cristianità è finita o sta finendo o deve finire stenta a reggersi, è difficilmente compatibile con la fede. Per chi non è dotato di fiducia provvidenziali-stica in misura tale da far invidia al più ingenuamente trionfalista dei conservatori, è palese che una polvere di cristiani minoritari – a meno che non si sostenga per un breve tempo di prova, come fu al tempo dei martiri, in attesa di diventare maggioranza – non ha nessuna probabilità di durare nella storia. Sono ormai alla fine anche gli ebrei, miracolo unico e fondato su ben altri elementi di coesione. Una polvere dispersa di cristiani staccati da un passato che in gran parte ripudiano come irrigidimento istituzionale o addirittura come globale tradimento, circondati da un mondo sempre più estraneo alla fede, non può che perdersi al vento ricadendo nei luoghi più disparati, dall'impegno sociale totalmente profano all'evasione in esotici misticismi.

Anche se può fare la sua bella figura quando si confronta con il conservatorismo, manca oggi al progressismo una adeguata teologia. Il suo vero, e insolubile, problema è di difendere lo specifico cristiano da un generico umanismo elaborato riutilizzando vecchi avanzi pressappoco cristiani: amore, solidarietà, comunità, servizio, crescita, incontro nella persona del Cristo ecc. Per questa via, di quanto ci si è avvicinati ai non credenti di tanto ci si è allontanati dai credenti dei millenni passati, i quali hanno creduto che Gesù è Dio, che è veramente uscito dalla tomba e che anche noi come lui usciremo dalla tomba e vivremo per sempre con lui. Il cristianesimo così come è stato creduto nei secoli risulta allora appena una didattica prefigurazione mitica dell'umanismo, o al massimo come una sua sublime proiezione simbolica. Un soldo di coscienza critica basta per capire che la fine della cristianità è anche la fine del cristianesimo. Un sentimento di nostalgia, o di colpa, può nascondere questa evidenza, ma non può durare a lungo. Non resta che l'alternativa fra l'abbandono della fede, come almeno implicitamente hanno fatto fin dall'inizio del secolo i teologi che hanno visto nel cristianesimo un'oscura anticipazione di ciò che s'invera nell'oggi (o meglio nell'assai ipotetico domani) socialista, e un sincretismo che cerchi di salvaguardare i contenuti cristiani reinterpretandoli dal punto di vista mondanamente dominante. La seconda possibilità non offre che un modo più complicato per giungere allo stesso esito della prima. In entrambi i casi è la parola di Dio ad essere giudicata in base alla storia, anziché la storia in base alla parola di Dio, e in questo consiste precisamente la profetata fine della fede: “ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà forse la fede sulla terra?” (Lc 18, 8).

Se ci si solleva di un palmo dall'ottuso confronto che vede sostanzialmente buono il monolitico passato e cattivo il confuso presente, oppure buono il dialogante presente e cattivo il chiuso passato, ci si accorge che entrambe le posizioni, tatticamente opposte, appartengono in realtà a un'unica famiglia teologica, quella delle trionfali teologie incarnazioniste: senza neppure sospettare l'alternativa della theologia crucis, che è una teologia dura alle orecchie (Gv 6, 60) di chi porge ascolto alle voci del potere mondano, sia quello della vecchia istituzione ecclesiastica o quello della profana modernità, o quello di una qualunque loro intermedia commistione.

… Ogni teologia cristiana dev'essere, naturalmente, teologia dell'incarnazione e teologia della croce insieme. Ma questo non significa che ci si possa accomodare in una posizione equidistante fra Betlemme e il Golgota, o ulteriore. In definitiva, si tratta di comprendere la croce all'interno dell'incarnazione, come un suo particolare momento, oppure di comprendere l'incarnazione all'interno della croce, come suo esito, dunque come compimento del suo significato. Se la croce è solo un momento particolare dell'incarnazione, la croce è evacuata del suo scandaloso significato (Gal 5, 11), e non è più vero che, essendo fallita ogni speranza, “è per mezzo della follia del messaggio che Dio ha voluto salvare i credenti” (1Cor 1, 21); se invece la salvezza nella croce è folle, scandalosamente contraddittoria, la croce non può essere un momento che passa, ma è la stessa verità cristiana che imprime il suo terrificante sigillo su tutta l'incarnazione, la quale si manifesta cosi fino alla fine come incarnazione per la morte, come completa condivisione della mortale condizione dell'uomo da parte di Dio. Non una condivisione saggiamente, serenamente, provvidenzialmente programmata, ma una condivisione che tocca il fondo dell'assurdità e dell'orrore, perché il Figlio non è stato mandato per essere ucciso ma, cosa che si dimentica sempre, per essere riconosciuto Signore (Mc 12, 6).

… Se si tiene seriamente conto che la Scrittura si conclude con l'Apocalisse, che dunque la storia della salvezza si conclude con la distruzione apocalittica di ciò che Gesù era venuto a salvare, la storia dopo Cristo si rivela definitivamente come la continuazione della vicenda chenotica che va dall'emergere di una creazione che in quanto altro da Dio è già segnata dal peccato e dalla morte (1Pt 1,19-20) alla sua condanna nel diluvio, alla storia sempre tragica del piccolo popolo d'Israele al quale si è ristretto l'orizzonte della salvezza, fino all'abbassamento di Dio che abbandona la sua gloria per assumere la condizione di schiavo, e “si umilia di più ancora, fino alla morte, e alla morte su una croce” (Fil 2,7-8). La continuazione di questa strada è il corrompimento della fede cristiana fino a toccare il limite del nulla nella scristianizzazione (Ap 13,7) e nella finale consumazione del mondo. La resurrezione dei morti – nella quale ripetutamente Paolo compendia il senso ultimo, il nucleo irrinunciabile della fede (At 24, 15 e 21) – mostra la salvezza non come un itinerario magnificamente ascendente, ma come appartenente alla chenosi: Dio, il creatore e signore del cielo e della terra, ridarà ai suoi fedeli che con lui sono saliti sulla croce e scesi nella tomba la loro povera vita di uomini. “Ricostruiranno le antiche rovine, rialzeranno gli edifici devastati del passato, restaureranno le città in rovina, gli edifici devastati da secoli”(Is 61, 4). Sul trono dell'Apocalisse, annunciato come il leone vittorioso di Giuda, sale l'agnello sgozzato (Ap 5, 5-6). Come ha visto il visionario Blake, nell'eternità di vita permarrà pur sempre, unita in Cristo, l'eternità di morte: il dolore è incancellabile e perciò infinitamente consolabile.

La teologia della croce custodisce e patisce lo scandalo della povertà e dell'umiliazione del Signore, adorandolo come tale e non trasformandolo in una maschera pedagogica presa e subito lasciata. Ogni altra teologia è compromissione mondana (1 Cor 2, 2), che ha reso possibile il perdurare fino ad oggi, in qualche sempre più debole modo, di una fede che nessuno avrebbe potuto sostenere a lungo nella sua terribile nudità.

Sergio Quinzio

In La fede sepolta, Adelphi 1978, pp.91-95; 98-101;

Articolo tratto da:

FORUM Koinonia 302 (11 aprile 2012)

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Venerdì 13 Aprile,2012 Ore: 18:00
 
 
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