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www.ildialogo.org Lettera di Giacomo alle Dodici Tribų nella diaspora,di Elia Boccara

Una visione ebraica della Lettera di Giacomo
Lettera di Giacomo alle Dodici Tribų nella diaspora

di Elia Boccara

Un libro di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri


 Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri (a cura di), Lettera di Giacomo alle Dodici Tribù nella diaspora, Marietti 1820, Genova-Milano 2011, € 11,50

Lutero riteneva che la lettera di Giacomo/Yaaqov fosse un’Epistola di paglia. Ergendosi contro la Chiesa di Roma, il grande riformatore ne denunciava l’insegnamento che attribuiva un ruolo preponderante alle opere. Per cui egli esaltò l’apostolo Paolo, secondo il quale le opere si pongono sotto il segno di una peccaminosa autogiustificazione dell’uomo, invece di riporre nella grazia del Signore e nella fede salvifica in Cristo la propria autentica rigenerazione.

Nella traduzione delle lettera di Giacomo di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri leggiamo invece: «Quale sarebbe il vantaggio, fratelli miei, se qualcuno dicesse di avere la emunah, la fede ma non avesse le mitsvòt, le opere? Potrebbe forse la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella fossero nudi e privi del cibo quotidiano, se qualcuno di voi dicesse loro: “Andate in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non desse loro ciò che è necessario per il corpo, a che cosa servirebbe? Così anche la fede, se non ha le opere, è morta di per se stessa» (p. 86). È vero che nella Lettera ai Romani di Paolo leggiamo: «Nessuno sarà giustificato dinanzi a Dio facendo le opere della Torah» (Rm. 3,20), ma nella stessa Lettera Paolo aveva anche detto: «Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm, 2,5). E in Cor. 5,10 leggiamo: «Tutti dobbiamo comparire davanti al Tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene, sia in male». E allora ci si potrà chiedere: “Paolo si contraddice forse?” E cosa ci permette di distinguere tra le due predicazioni di Giacomo/Yaaqov e di Paolo?

Semplificando, credo che la risposta stia nello stesso commento dei due autori di cui ci occupiamo: Yaaqov si moveva in un ambito prettamente sinagogale, come del resto ha ben visto anche Chouraqui. Egli si rivolgeva alle Dodici Tribù della Diaspora: fratello di Yeshua/Gesù e capo della Comunità messianica, da Gerusalemme egli inviava un messaggio ai suoi correligionari, giudeo-cristiani, sparsi per il mondo. Credo che uno dei segreti che permettono di distinguere il giudeo-cristianesimo di Yaaqov dal cristianesimo a profitto dei gentili di Shaùl/Paolo sia di ricordare i diversissimi ambiti geografici e culturali dei loro rispettivi messaggeri. Yaaqov è fondamentalmente ottimista sulla possibilità dell’uomo di fare il bene, grazie al libero arbitrio di cui egli dispone. Per Paolo invece l’uomo è irrimediabilmente posto, fin dalla nascita, sotto il segno del peccato originale e ciò concerne in particolare i gentili ai quali egli si rivolgeva, cui, tra l’altro, non erano destinate le opere elencate dalla Torah (comunque, come egli fa notare nella lettera ai Galati, se si vuole osservare la Torah, bisognerebbe osservarla interamente e non accontentarsi della circoncisione, come era stato ordinato loro da alcuni missionari, non meglio precisati). Aggiungiamo che in Paolo persiste un profondo pessimismo circa la capacità dell’uomo di fare il bene, pur conoscendolo: «Non faccio ciò che voglio, ma faccio ciò che odio. Ora se faccio ciò che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me […]. La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm. 7,15-8,2), dove va precisato che la “legge del peccato e della morte” non è la Torah: qui è Paolo che parla del peccato, della struttura del peccato! Si potrebbe infatti pensare che Paolo si rivolge ai gentili i quali sono rimasti fuori dal dono della Torah, per non averlo a suo tempo accettato. Il suo discorso è comunque agli antipodi rispetto a quello di Yaaqov, i cui ascoltatori erano invece agli ebrei, seguaci sì di Yeshua, ma senza per questo deviare dai principi fondamentali dell’ebraismo, che ritiene l’uomo responsabile dei propri atti, e quindi meritevole, nella misura in cui riesce a superare i suoi istinti peggiori. L’ebraismo non ignora la debolezza della carne e l’esistenza in noi di tendenze negative, ma esso prevede la possibilità del pentimento e della teshuvà, il ritorno a Dio, seguito dalla riparazione dei propri torti nei confronti del prossimo: al quale spetta, in questo caso, l’obbligo del perdono.

È lodevole l’intento di Cassuto Morselli e di Maestri di salvare il carattere specificamente ebraico della Lettera di Yaaqov, comunque non eretico nell’ambito dell’ebraismo, nella misura in cui l’attesa del Messia faceva, e fa ancora, parte della fede ebraica (anche se forme più recenti hanno tendenza a parlare piuttosto di Tempi messianici). Il giudeo-cristianesimo, come essi sottolineano, è stato una grande vittima all’interno di quel disastro che fu per tutti gli ebrei la distruzione del Tempio. Le posizioni della nuova fede trionfante e quelle dell’ebraismo rabbinico si radicalizzarono, non lasciando spazio per atteggiamenti intermedi. Solo quest’ultimo secolo ci ha fatto assistere ad un movimento di riavvicinamento reciproco, tra le due fedi. L’interesse da parte di parecchi studiosi ebrei per il fenomeno Yeshua, collocato, come era doveroso, nell’ambito del variopinto ebraismo del suo tempo, trova un’eco in ambito cristiano, in cui ci si accorge ora, con ritardo, che Gesù era ebreo, arrivando anche ad affermare che egli “lo è per sempre”.

Elia Boccara



Mercoledė 21 Dicembre,2011 Ore: 14:43
 
 
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