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IL BENE E IL MALE

Dal libro “Giovanni Vannucci, custode della luce”


Non dobbiamo giudicare, perché non sappiamo a quale esposizione di luce la mela sull’albero matura
Facciamo crescere il bene che è in noi
Se provi a disegnare il fuoco, fai un bel quadro, però non ti ci scaldi. La diversità di padre Giovanni è tutta qui: altri disegnano splendide fiamme divine che Dio domina, con cui Dio condanna, lui semplicemente accende un piccolo fuoco. Dio diviene bello per questo: non comunica la sua forza, ma la sua presenza, non la sua implacabile giustizia, ma la sua minuscola tenerissima fiamma, che il vento scompiglia, senza mai spengere.
Che cos’è che ci blocca davanti a Dio? È l’immagine di un giudice supremo, implacabile, di fronte al quale non abbiamo via di scampo. Questa sensazione di onnipotenza ci induce a un atteggiamento passivo, a una prostrazione costante, a un culto del bene più come timore di fare il male che come adesione gioiosa alla forza dell’amore. È quanto è accaduto per generazioni di cristiani, è quanto avviene, in molti casi, nella crescita di ciascuno di noi. Il fuoco di padre Giovanni cuoce a fiamma lenta la rigidità di certe impostazioni: il Bene e il Male perdono la maiuscola, entrano nel gorgo delle nostre personali vite, diventano la nostra forza e i nostri limiti. Dio non è il giudice che premia o che punisce, ma il Padre che ci attende. E quel Padre non ci chiede di distruggere il male che è in noi, ma di valorizzare il bene, non di reprimere gli istinti negativi attraverso la loro fustigazione, ma di superarli con la forza delle passioni positive, con l’entusiasmo per la vita.
«Fermiamoci un momento a riflettere sulla parabola della zizzania» dice ai suoi allievi di Udine. Ma la porta è scostata, si può ascoltare.
Padre Giovanni racconta la parabola. Gli operai che seminano il buon grano nel campo del padrone. Il nemico che, nell’ora della sosta, vi getta la zizzania. E, mentre il grano cresce, e la zizzania lo insidia, la domanda che sale: «Vuoi che andiamo a estirpare la zizzania”?». «No - dice il padrone - aspettate la maturazione del grano!».
«Cosa vuol dire il Signore? - esordisce padre Giovanni -Il Signore vuol dire che il campo siamo noi: in noi c’è il buon grano e il grano cattivo. Il buon grano ci viene dalle mani di Dio e sono tutte le nostre possibilità di bene, di verità, di grandezza, di gioia, di vita, tutte le nostre possibilità di creare spazi di gioia e di canto. Questo è il buon grano che Dio semina in noi. Poi viene il nemico e getta altri semi che sono invidia, avarizia, gelosia, violenza: il grano cattivo. Cosa dobbiamo fare? L’uomo violento che è in noi dice: scendi nel campicciolo e comincia a strappare da te la cattiveria, l’invidia, la gelosia. Il Signore invece ci dice “non resistete al male”, cioè non opponetevi con durezza al male, perché opporre violenza al male porta questo risultato: il male diventa più violento e la violenza che nasce in noi nell’opporsi al male radica maggiormente in noi il male che volevamo espellere.
Cosa dobbiamo fare? Ammettete che uno di noi abbia una natura portata alla pigrizia, allora il proposito sarà questo: domani mattina mi alzerò prima degli altri. Per un pò ci riesce, ma dopo crolla, si trova più smarrito di prima; allora rinuncerà, perché questo difetto è ormai così profondo che non c’è più niente da fare. Questo è uno stato di abdicazione, di rinuncia che nasce dall’aver opposto violenza a un male che è in noi. Come dobbiamo fare a vincere la pigrizia? Un giorno il padre maestro vi dice: domani andiamo a Napoli, a vedere il porto, ad Amalfi; si parte alle tre di mattina. La mattina alle tre tutti sono puntuali, anche i più pigri. Come mai? Perché c’è una forza, un entusiasmo, un amore, c’è qualcosa che vi porta fuori da voi stessi. La nostra personalità è capace di tante cose se ha delle passioni in se stessa.
Cosa dobbiamo fare per vincere il male? Dobbiamo metterci nel cammino della vita come Dio opera nell’universo. Nell’inverno la terra è gelata, non c’è il verde, i rami degli alberi sono spogli; il pessimista rimane desolato e dice: qui non ci sarà più vita, moriremo tutti di fame e di freddo. Dio comincia a soffiare sulla terra luce e calore, poi alla fine tutta la terra riprende la sua vita e la primavera si fa bella e gloriosa, e si ha l’estate fertile di frutti. Ora questa attività gloriosa, vitale, che Dio ha verso il creato, la dobbiamo avere anche verso noi stessi. Come Dio visita la terra e la ricopre di bellezza, di luce, di fiori, così il nostro essere deve scoprire tutto ciò che c’è di vitale, di bello e di promettente in noi.
Guardiamo tutti sinceramente ai chicchi di grano che Dio ha seminato, cioè alle potenzialità che sono in noi, e impegniamoci a portarle avanti con gioia».
Il male è necessario all’ascesa
Dio non si preoccupa della nostra zizzania. Si preoccupa del nostro grano. Non ci vuole meticolosamente attenti a estirpare una per una le erbacce che vivono dentro di noi, ma passionalmente protesi a dar forza alla nostra messe.
La parabola proietta il cristiano, vento in faccia, verso la vita, lo invita ad abitarla con tutto il suo essere. La zizzania, e con essa tutte le espressioni del negativo, il male, il peccato, la tenebra, non devono essere affrontati lancia in resta, come in un’eterna crociata, ma accettati; il grano cattivo scomparirà da solo, saranno gli angeli di Dio a liberarcene, quando quello buono sarà abbastanza cresciuto.
Siamo messi alla prova dal male, certo, ma solo perché il male ci misura, misura la nostra capacità di crescere verso una dimensione più grande, più vicina all’incontro con l’amore divino. Non esiste un’entità negativa, è impossibile che esista, visto che Dio è amore; i diavoli con le frecce infuocate, gli inferni dove le anime dei dannati bruciano, vivono solo dentro ciascuno di noi, sono lo specchio delle nostre mancanze: «Dov’è l’inferno? È in noi. In ognuno di noi ci sono gli inferi, e negli inferi ci sono i demoni, e i demoni non vengono dal di fuori, vengono da noi, sono una parte importante del nostro essere, sono l’ombra del nostro essere».
Come il giorno non esisterebbe senza una alternanza di luce e di buio, così è impensabile un uomo senza ombra: anzi è quell’ombra che ci aiuta a conoscerci, a capire quale grado di consapevolezza abbiamo raggiunto: «Nell’intuizione dantesca - sottolinea padre Giovanni - il corpo di Lucifero è la scala lungo la quale si arrampica chi vuol rivedere le stelle».
Il male è necessario all’ascesa: è quella parte di noi che ancora non ha saputo salire verso Dio. Non a caso l’ultima parola che Cristo dice a Satana, secondo il testo greco, è la stessa parola che Cristo dice agli apostoli: non “vade retro”, ma vieni dietro a me, satana. Il diavolo non è destinato a rimanere diavolo: resterà così fino a quando non smetterà di basare tutto sul proprio egoismo, fin quando non si aprirà agli altri e comincerà a crescere.
Dio ci dice: non giudicare, ama
Male e bene sono due componenti della nostra natura, del nostro personale bagaglio: una forza che ascende, l’altra che resiste e noi come punto di incontro. È difficile capire dove comincia la luce e dove finisce l’ombra: a volte ciò che ci sembra negativo è una risorsa, a volte una nostra qualità ci rende così presuntuosi da diventare un difetto. Per padre Giovanni è astratto ogni tentativo di misurare ciò che è bene e ciò che è male per tutti. Neppure Dio lo fa. A maggior ragione, l’uomo non può mettere su una bilancia le virtù e i vizi degli altri. ‘Questo è peccato’, ‘Tu sei nel peccato’: il dito che morbosamente si alza a identificare chi ha sbagliato, non può, non deve essere il dito di un cristiano. «Cristo dice: Non giudicate; Cristo ci dice: Amate. E amandovi risolverete tutto, cambierete il mondo».
Il peccato ‘vero’, per padre Giovanni, non è tanto la mancata osservanza di regole, ma è tutto ciò che ci chiude nel nostro egoismo, che ci separa dagli altri. Peccato è dire ‘io sono nella verità e tu nell’errore’, ‘io sono nella giustizia e tu nell’ingiustizia’. Provo tristezza, dice padre Giovanni, nel vedere quanto la chiesa sia invece imprigionata in quest’idea del giudizio, quanto si perda nei meandri delle regole, delle precettistiche, quanto poi finisca per ossessionarsi se il peccato riguarda una sfera delicata come quella sessuale. Una chiesa chiusa in se stessa, attenta sempre a enfatizzare la forza del male, non aiuta l’uomo a sbocciare.
Un giorno proprio questi argomenti sono al centro di una discussione con un prete. «Ma guarda, padre Giovanni - gli dice questi - che nel messale è anche prevista una celebrazione per la conversione dei peccatori». «Non l’ho mai detta - ribatte padre Giovanni - e, semmai, la direi per me».
Possiamo tutti sbagliare. I nostri sbagli rivelano la nostra immaturità, la nostra incompletezza di uomini. Ci dicono chi siamo in quel momento. Ma non devono incidersi indelebilmente sulla nostra coscienza. Il peccato, lo sbaglio, può invece essere occasione di consapevolezza: l’adultera, se non avesse peccato, avrebbe incontrato Dio? Il figliol prodigo, se non avesse peccato, avrebbe compreso il valore dell’amore paterno? Gesù non marchia i peccatori con il sigillo del giudizio. Anzi, se c’è una preferenza nel suo amore è verso la pecorella smarrita perché la pecorella smarrita, abbandonando la comodità dell’ovile, si avventura a sperimentare fino in fondo la sua libertà e in questa sperimentazione matura e cresce forse di più di quelli che stanno tranquilli a proteggere le loro sicurezze.
Ritrovare il centro
II peccato è un bersaglio mancato, è una rotta che va di traverso. “Perdona settanta volte sette” dice il Vangelo per indicarci come si ritrova il giusto cammino. È un insegnamento faticoso: quella parola, perdono, non ci risarcisce, ha il sapore di una restituzione in fondo indebita, è una dura prova di magnanimità. E invece, suggerisce padre Giovanni, il perdono dovrebbe essere il gesto più naturale del cristiano: se il peccato è lo sbagliare direzione, il perdono è il ritrovarla, è l’andare verso il centro, verso Dio.
Il peccato divide, il perdono unifica. Il peccato è tenere per sé, il perdono è condividere. La natura, il creato vive solo in virtù di una costante donazione: noi viviamo perché le piante ci offrono l’ossigeno. Così perdonare è vivere come ci insegna la natura, aprendosi agli altri, respirando l’ossigeno che ci è offerto e donando il nostro, portando la nostra luce dove luce non c’è: «Se venite di notte in questa cappella e accendete il cero, cosa succede? Le tenebre vengono dissipate. Da cosa? Dalla luce che viene accesa su questo cero, dalla fiammella di questo cero. Il cero non si mette mica a giudicare le tenebre! Le dissipa. Il perdono non giudica le tenebre, le dissipa. Così noi siamo chiamati a portare la nostra luce, come un cero acceso, e a portarla con ancora più gioia laddove c’è più ombra, laddove le tenebre sembrano condensarsi, dove c’è un vuoto di vita, dove l’amore non basta».
Il perdono è un gesto di riconciliazione con la vita, di intensificazione della vita. Così la confessione non è, per padre Giovanni, un tribunale di penitenze, ma un luogo di perdono: «Quando confesso - dice - non sono lì per giudicare, sono lì per dire “Rialzati perché Cristo ha cancellato tutti i tuoi peccati, riprendi la vita”». Di fronte alla fatica di ogni uomo nel compiere il suo cammino di liberazione non servono espiazioni. Serve più amore.
Mentre studia l’interpretazione cabalistica del comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”, padre Giovanni si rende conto che quella frase si può tradurre anche in un altro modo: «Ama la non-luce, il puro male come te stesso».
L’ombra ci appartiene come la luce, e la forma di amore più grande è quell’amore che accoglie tutto, luce e ombra, bene e male. Amare le tenebre, i difetti, le debolezze, così come si ama la luce, la forza, la bellezza: è la forma di perdono più grande, la più difficile. Ma è anche quella che ci avvicina di più al centro. Alla verità. A Dio.


Lunedě 30 Maggio,2011 Ore: 11:40
 
 
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