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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Le ragioni di ogni speranza,di Gianni Mula

Fede e scienza
Le ragioni di ogni speranza

di Gianni Mula

Un dibattito su un tema quanto mai attuale. Gianni Mula risponde ad un articolo di Pert Atkins pubblicato su MicroMega (7/2010)


Ringraziamo Gianni Mula, professore ordinario di Fisica Teorica presso la Facoltà di Scienze dell'Università di Cagliari, per questa sua riflessione che prendo lo spunto da un articolo del prof Atkins pubblicato sull'ultimo numero di MicroMega che pubblichiamo dopo l'articolo di Mula.
Viviamo in un'epoca che ama presentarsi come scientifica, ma che è disposta a credere qualunque cosa raccontata dalla televisione. Che dalla scienza si aspetta, almeno in linea di principio, la soluzione di ogni problema, ma che ha dimenticato che il fondamento di ogni sapere, anche e soprattutto quello scientifico, è l'ammissione di non sapere. Che vive spesso con fastidio le religioni, come segno di miti ancora ingombranti ma fortunatamente passati, ma che assiste compiaciuta all'affermarsi della ricchezza come nuovo mito fondatore e legittimante della società.
Viviamo in un'epoca che dalle chiese cristiane non si aspetta niente di più di una devota adesione a comportamenti sociali di sostegno ai poteri costituiti. Un'epoca che si pensa come postideologica solo perché l'orizzonte del suo pensiero non va oltre il quotidiano e declina al servizio dei potenti di turno parole astratte come verità, libertà, onestà. 
In questo contesto il saggio di Peter Atkins che introduce il recente almanacco della scienza di MicroMega (7/2010), si presenta fin dal titolo come l’ennesima riproposizione della scienza come unico valore portatore di progresso. Il titolo, probabilmente redazionale, riecheggia La miseria dello storicismo di Popper, ma il filosofo ed epistemologo viennese se la pigliava con lo storicismo, e non con la storia. E prendersela con la fede, anziché con le religioni, non è davvero una grande idea, visto che anche credere nella scienza, o in qualunque altro tipo di valori, è una forma di fede. Comunque nel testo di Atkins il bersaglio dichiarato è la religione, aggredita sulla base di una visione della scienza che già mezzo secolo fa, ai tempi de Le due culture e la rivoluzione scientifica, mostrava abbondantemente i suoi limiti. Ma mentreC.P. Snow evidenziava una questione di fatto, e quando paragonava la conoscenza della seconda legge della termodinamica alla lettura di un’opera di Shakespeare lo faceva per reagire alla presunzione che la cultura umanistica costituisca la totalità della cultura, il Prof. Atkins, sulla base del fatto che solo la scienza è (per lui) fattore dimostrabile di progresso, auspica direttamente la sostituzione integrale della cultura umanistica con la cultura scientifica.
Il saggio di Atkins può però essere letto, magari al di là delle sue stesse intenzioni, come una rozza, ma onesta, riflessione sulle ragioni per cui si crede. Infatti sceglie di non parlare delle religioni come organizzazioni concretamente esistenti. Altrimenti dai roghi e dall’oscurantismo dei secoli passati all’attuale scandalo della pedofilia, per finire con le sette sataniche e il terrorismo fondamentalista, avrebbe avuto solo l'imbarazzo della scelta di quale obiettivo colpire. Vale allora la pena di accettare la sfida e di affrontarlo sul suo terreno, mettendo in evidenza i limiti dei suoi argomenti ma utilizzando la sua franchezza per provare a costruire un terreno d’incontro tra le due culture che permetta di capire le ragioni di ogni speranza.
Atkins parte dall’osservazione che "Mentre la scienza è meticolosamente oggettiva, e quindi una osservazione falsa viene rapidamente sottoposta a riscontro mediante sfilze di dati pubblicamente accessibili, la religione coglie dell'osservazione qualche frammento e, se questo tocca una corda emotivamente significativa, lo ingloba nella sua fabbrica di credenze." Oggi dire queste cose è una caricatura sia della scienza che della religione. Anzitutto il Prof. Atkins, forse troppo occupato a scrivere testi universitari di chimica quantistica generalmente molto ben accolti, non si è accorto che negli ultimi decenni del novecento la scienza ha cambiato paradigma. Il modello ideale di spiegazione scientifica è infatti passato dalla meccanica newtoniana alle scienze della complessità, e il metodo scientifico da lui esaltato come «frutto rigoglioso dell’intelletto umano, capace di dare a tutti la gioia di una vera comprensione» è diventato un oggetto d'antiquariato. Inoltre il prof. Atkins non si è neanche accorto che, dopo il Vaticano II, un analogo processo di trasformazione ha riguardato anche il bersaglio principale della sua polemica, la religione cristiana. Di conseguenza il suo saggio suona a vuoto, e non suscita risonanze né in campo umanistico né in campo scientifico.
Ad esempio da che cosa il Prof. Atkins trae l’affermazione che «mentre la scienza si affida ad esperimenti, la religione si affida a sentimenti»? Anzitutto è ormai consapevolezza comune a tutti i ricercatori che per fare un esperimento bisogna avere prima una teoria, altrimenti poi non si sa che cosa verificare. Inoltre, per quanto un corretto atteggiamento scientifico implichi l’essere sempre disponibili a modificare le proprie convinzioni, non esiste mai una sola maniera di leggere l’evidenza empirica. Ma soprattutto non è vero che sono gli esperimenti a sancire la verità delle teorie scientifiche. Altrimenti di fronte a un esperimento accurato i cui risultati siano in contrasto ad esempio col quadro teorico della termodinamica (cosa che capita con regolare frequenza) bisognerebbe buttar via la termodinamica. La prassi scientifica corretta è invece quella di verificare che, nel caso concreto dell'esperimento in discussione, siano effettivamente soddisfatti gli assiomi fondamentali della termodinamica, e cioè 1) che il sistema sia effettivamente in equilibrio, 2) che le variabili macroscopiche che caratterizzano lo stato di equilibrio siano sufficienti a caratterizzarlo completamente. Se non lo sono l’esperimento ci dice che il sistema non è in equilibrio (punto 1) o che è mal caratterizzato (punto 2). In nessun caso l’esperimento ci dà informazioni sulla verità della termodinamica.
Più in generale possiamo dire che la scienza, ogni scienza, si basa su teorie costruite a partire da una serie di assiomi. E la scelta degli assiomi non è mai un fatto puramente tecnico ma è anche un fatto culturale che rispecchia, e a sua volta influenza, l’intera comunità culturale al cui interno quella scienza fiorisce. Anche per quegli aspetti che Atkins riduce a sentimenti, e poi banalizza ulteriormente quando dice che «L’idea che vi sia uno scopo è soltanto un’ingiustificata proiezione dell’attitudine mentale umana».
In realtà anche Atkins, pur senza accorgersene, introduce nel suo discorso l’idea di scopo, quando parla del «progresso che la scienza ha fatto nell’arco di 300 anni, a fronte della totale (sì, totale) mancanza di progressi derivanti dal pensiero religioso in un arco di tempo dieci volte maggiore». Perché l’idea illuministica di progresso presuppone appunto che ci sia una meta da raggiungere e che quindi possa essere titolo di merito operare per avvicinarsi sempre più alla meta. E allora che differenza c’è, dal punto di vista meramente logico, tra la scienza e la religione cristiana che assume come suo obiettivo il «cercare il regno di Dio e la sua giustizia»?
Si potrebbe obiettare che a termini come il regno di Dio e la sua giustizia non corrisponde un significato empirico in qualche maniera oggettivabile senza far ricorso a scelte dipendenti dalla fede, e quindi soggettive. Ma la stessa obiezione potrebbe essere fatta al concetto di progresso scientifico: come si può stabilire che è meglio il progresso nel campo della fisica delle particelle elementari, o nella cosmologia, anziché nella biologia o nell’economia, senza far ricorso a criteri in ultima analisi soggettivi? Oppure, in ogni campo, ai fini del progresso è meglio sviluppare la ricerca fondamentale o quella applicata? E questa domanda non suona equivalente, dal punto di vista logico, a quella dei credenti cristiani che concordano sul rispetto della vita fin dalle sue origini ma si interrogano sul come sia meglio realizzarlo, se a partire da una rigorosa difesa dei principi di fondo, e quindi facendo del concetto di vita un assoluto e disinteressandosi dei problemi concreti delle donne che la vita generano, o operando per assicurare a tutti le migliori possibilità di sopravvivenza (compresa la possibilità di accogliere la vita che nasce)?
La difficoltà di fondo è che la verità assoluta non esiste se non come ipotesi fatta in relazione ad affermazioni soggettive nelle quali chi avanza l'ipotesi crede fortemente. Nulla quaestio sin quando si rimane a livello di ipotesi e soprattutto non si pretende l'assenso forzoso di nessuno. La situazione si complica se invece si cerca di formulare criteri oggettivi dai quali risulti che la scienza è strumento di progresso in quanto motore dello sviluppo tecnologico. Perché l’idea di progresso è molto più ampia di quella di sviluppo tecnologico e la posizione di Atkins di identificare le due idee è una sua scelta del tutto arbitraria, fermo restando invece il suo pieno diritto di credere (ma non di obbligare altri a credere) all’onnipotenza e alla competenza universale della scienza. La posizione di Atkins è quindi una forma di fede che ha gli stessi diritti di ogni altra, ma che è ovviamente lecito criticare come ogni altra, magari anche attribuendo a coloro che la condividono il «senso personale di insicurezza» che deriva dal non avere il coraggio intellettuale di accettare le limitazioni connesse all’evidente finitezza del genere umano.
Le critiche di Atkins potrebbero invece applicarsi a quanto dice la gerarchia della chiesa cattolica o a quelle chiese cristiane che sottoscrivessero la nota affermazione dell’attuale pontefice, fatta quand’era ancora cardinale, «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Questa affermazione in effetti lascia intuire che per Benedetto XVI l’esistenza della verità assoluta potrebbe essere un dogma di fede da intendere in senso letterale e da esemplificare in pratica con la struttura dogmatica della dottrina cattolica. Al riguardo, precisato che chi scrive non ha alcun titolo per parlare a nome della chiesa cattolica se non quello di essere, come si dice, persona informata sui fatti (sia da semplice fedele cattolico che da osservatore attento della teologia contemporanea), mi limito qui ad osservare che, pur con tutto il rispetto per Benedetto XVI, sia sul piano morale che intellettuale, è difficile pensare che quella sua pur legittima opinione possa mai essere tradotta in verità da proclamare ex cathedra ai sensi del dogma sull’infallibilità.
Detto questo rimane l’aspetto positivo della provocazione del saggio di Atkins, perché questo professore di chimica, pur con i limiti cui abbiamo accennato, ha affrontato in termini sostanzialmente civili un tema, quello delle ragioni per cui si crede in qualcosa, che dovrebbe essere centrale nel dibattito politico culturale contemporaneo, e invece è completamente assente. Il problema principale del nostro tempo è infatti l'incapacità di capirsi anche tra persone con le stesse storie culturali. Per cui accade che nel cuore dell'occidente secolarizzato si discuta accanitamente tra chi parla di postmodernità e chi parla di modernità incompiuta o tradita, senza mai realmente capirsi, neanche tra persone che leggono gli stessi libri e condividono la stessa condizione sociale. E di conseguenza ci si divide senza mai realmente capirsi anche su questioni concrete come il problema dell'immigrazione, o quello del terrorismo internazionale, per non parlare dei provvedimenti da prendere di fronte alla crisi economica.
Ci si divide senza una ragione reale perché, con la separazione tra la cultura umanistica quella scientifica, non c'è più un terreno comune di confronto su niente, e si finisce col separarsi semplicemente perché si crede in dei diversi, che siano il libero mercato o la lotta di classe, la scienza o il Dio di Gesù Cristo, l’ecologia o la propria tradizione. Ma l’aspetto più grave è che la separazione non avviene soltanto tra accademici di un tipo o dell'altro ma opera all'interno di ciascuno di noi, perché cos'altro è se non schizofrenia il sostenere la non oggettività della conoscenza scientifica pur accettando di dipendere, anche a rischio della vita, dagli ultimi sviluppi della tecnologia? E, inversamente, come si fa a sostenere, come fa Atkins, l'irrilevanza di ogni cultura umanistica rispetto al progresso scientifico e tecnologico e al tempo stesso dedicare una rilevante parte del proprio tempo alla confutazione dell’opinione contraria? Non sarebbe meglio per tutti se ciascuno smorzasse l’acredine personale (ancorché eventualmente giustificatissima) e si sforzasse di ragionare tenendo conto non solo del fatto che altri possono avere storie personali differenti, e quindi vedere differenti aspetti di uno stesso stato delle cose, ma soprattutto che non si può stabilire a priori qual è l’aspetto più giusto o più rilevante del tema in discussione? Il pretendere di stabilirlo al di fuori di un accordo preliminare con gli altri è di per sé ammissione di volontà di prevaricazione, e la prevaricazione è la risorsa di chi sa di avere torto.
Per uscire da queste difficoltà è forse utile analizzare un po’ più in profondità la trasformazione culturale che caratterizza la nostra società rispetto a quella di circa mezzo secolo fa. Nel campo della scienza si è passati dal paradigma newtoniano al paradigma della complessità. Si è passati cioè dalle certezze predittive garantite dalla meccanica di Newton alla ricerca delle chiavi di interpretazione (parametri d’ordine in linguaggio tecnico) che permettono di capire il funzionamento di sistemi complessi, cioè di sistemi con molte parti tra loro interagenti e non banalmente controllabili. La differenza tra i due paradigmi sta nel fatto che per il primo è sempre possibile, in linea di principio, fare predizioni oggettive sul comportamento di un sistema, mentre per il secondo queste predizioni sono sempre legate alla scelta, inevitabilmente soggettiva, del parametro d’ordine usato per costruire la descrizione al sistema.
Col nuovo paradigma si è passati dall’ipotizzare una natura ideale descrivibile da equazioni differenziali deterministiche (in cui gli effetti sono quasi sempre proporzionali alle cause che li hanno generati, e le eccezioni sono poche e vanno trattate caso per caso) all’accettare la natura com’è e non come ci piacerebbe che fosse. In questo nuovo paradigma il lavoro dello scienziato non è solo duro, come dice Atkins, ma, come lui non dice, non può portare a certezze assolute perché la scelta del parametro d’ordine non è mai univoca. Nel nuovo paradigma questa impossibilità è il prezzo da pagare per ottener il vantaggio incomparabile di aprire all’indagine scientifica campi impensabili e sostanzialmente intrattabili col paradigma newtoniano, come la biofisica o l’economia o le scienze sociali. Per fare un esempio facilmente comprensibile del significato di questa impossibilità ci possiamo riferire alle scienze economiche alle quali, da poco più di una diecina d’anni, si è aggiunta l’econofisica, cioè la scienza che interpreta i fenomeni economici alla luce del nuovo paradigma. Usando le tecniche dell’econofisica è impossibile nascondere la scelta del punto di vista, ma questa impossibilità non va vista come un limite bensì come la precondizione per arrivare a una comprensione globale dell’economia in tutta la sua complessità. Perché guardare alla crisi dal punto dei vista dei percettori di rendite finanziarie non è certo la stessa cosa che guardarla dal punto di vista dei produttori di beni reali, siano essi imprenditori o lavoratori dipendenti! E non è neanche necessariamente la stessa cosa vederla dal punto di vista delle piccole aziende o delle grandi aziende. Sfortunatamente l’econofisica non è ancora arrivata a sufficiente maturazione da poter condurre a predizioni affidabili, ma ha già dimostrato che la pretesa dell’economia neoclassica attualmente predominante di essere depositaria e titolare di un metodo scientifico di validità assoluta non è più sostenibile.
Si potrebbe pensare che l’impossibilità di adottare una metodologia puramente oggettiva sia solo una caratteristica di applicazioni al di fuori del campo tradizionale della fisica. Invece anche nello studio delle particelle elementari il metodo scientifico si è rivelato un’illusione, una meravigliosa illusione che ci ha aiutato a crescere, come le fiabe aiutano a crescere i bambini, ma che ora non serve più. Non serve più proprio come le fiabe non servono più, almeno non nella stessa maniera, quando si smette di crederci. Ormai persino fisici teorici tra i più autorevoli lo ammettono pubblicamente. Per dirla con le parole di Frank Wilczek, premio Nobel per la fisica del 2004 per aver contribuito a scoprire la libertà asintotica nelle interazioni forti, dire che è grazie al metodo scientifico che abbiamo risolto quei problemi è un po' come se dopo aver sparato un colpo, disegnassimo un cerchio attorno al punto colpito, e dicessimo che stavamo partecipando a una gara di tiro a segno e abbiamo centrato il bersaglio.
Ma allora, se non abbiamo più la garanzia dell’oggettività dei risultati che il metodo ci dava, come è possibile continuare a fare scienza? Guardiamo come la matematica, la scienza del vero per eccellenza, ha affrontato per la parte che la riguarda il cambio di paradigma. Attorno al 1900 il grande matematico tedesco David Hilbert aveva delineato un programma di ricerca che mirava a fondare l’intera matematica classica sulla logica, in modo che i suoi risultati fossero univoci e logicamente indubitabili. Molti matematici lavorarono a questo programma, sino a che all’inizio degli anni ’30 il matematico austriaco Kurt Gödel dimostrò, con i suoi teoremi di incompletezza, l’impossibilità di portarlo a termine. Ma i risultati di Gödel, (che stabilivano che non è possibile costruire un sistema assiomatico che sia completo, cioè in grado di provare tutte le verità matematiche all’interno di un dato ambito, e al tempo stesso tempo in grado di provare la sua coerenza, cioè l’impossibilità di formulare al suo interno affermazioni indecidibili), per quanto evidenziati con toni catastrofici da qualche matematico professionista in libri scritti per il grande pubblico (ad esempio quello di Morris Kline dal titolo eloquente “The loss of certainty”, La perdita della certezza) non hanno certo posto fine alla ricerca matematica, che è continuata a fiorire in tutti i campi. Nel campo dei fondamenti della matematica (che è solo un campo fra gli altri, non certo quello più fondamentale, né dal punto di vista storico né da quello applicativo) i teoremi di Gödel hanno stimolato l’approfondimento dei concetti di coerenza e completezza. Ad esempio, grazie al genio di Abraham Robinson, è stato possibile creare una nuova teoria matematica, l’analisi non standard, nella quale l’incompletezza degli assiomi viene usata come opportunità, e non come limite. È infatti proprio grazie all’incompletezza dei sistemi assiomatici della matematica che l’analisi non standard può usare un linguaggio più ricco di quello tradizionale per descrivere gli stessi oggetti della matematica tradizionale. È un po’ come l’aggiunta del colore alla televisione in bianco e nero: le immagini restano le stesse, ma è possibile fare distinzioni prima impossibili, e queste distinzioni possono ad esempio permettere di dimostrare in maniera semplice teoremi molto complessi da provare con le tecniche tradizionali.
Alla luce di queste considerazioni, che si possono agevolmente estendere a tutti i campi investiti dall’attuale esplosione delle scienze della complessità, possiamo chiaramente vedere che la conclusione trionfalistica di Atkins
 
«Se fossimo nel regno dell’Intelletto, la scienza sarebbe sicuramente collocata sul trono e qualsiasi alleanza della scienza con la religione equivarrebbe a contaminarla e sminuirla. Il compromesso, un accomodamento con la religione, è un’alleanza improponibile. Il metodo scientifico è un frutto rigoglioso dell’intelletto umano, capace di dare a tutti la gioia di una vera comprensione.»
 
è non solo ingiustificata, ma del tutto priva di significato. 
Tuttavia, e proprio a partire da questa conclusione pur del tutto insoddisfacente, proprio nell’onestà del rifiuto di un compromesso che sarebbe perdente per tutte le parti interessate, forse potremmo trovare un nuovo punto di partenza. E riconoscendo, e accettando come costitutive della condizione umana, le aporie epistemologiche legate al vedere scienza e religione come due culture separate e non come due parti diverse di una medesima cultura, imparare dal successo del paradigma della complessità a considerare le differenze e le limitazioni della scienza e della religione come ricchezze e opportunità. E potremmo quindi uscire da quella contrapposizione statica tra ragione e fede che ci sta conducendo alla schizofrenia e aprirci alla comprensione della realtà dinamica della vita, nella quale il presente, nella sua evoluzione, è condizionato certamente dal passato ma anche dalle aspettative sul futuro.
Potremmo così affrontare i problemi reali che la società contemporanea ci pone, il rapporto fra libertà e democrazia, i problemi di convivenza tra etnie e culture differenti, i problemi di distribuzione, inquinamento ed esaurimento delle risorse naturali. E trovare soluzioni magari sempre provvisorie ma sempre condivise, nel rispetto dei diritti di tutti, e chiamando ciascuno a rendere conto dei suoi doveri.
Ma dovremmo anche, e forse soprattutto, superare all’interno di ciascuno di noi i dualismi che ci impediscono di dare un senso unitario alla nostra vita. E, nel silenzio di una pace interiore conquistata col superamento del dualismo tra ragione e fede, potremo finalmente riscoprire insieme la base comune di ogni speranza, cioè le ragioni per cui di fronte al problema del suicidio, il problema che all’inizio de Il mito di Sisifo Albert Camus pone come unico problema filosofico serio, la nostra scelta è a favore della vita.
Gianni Mula 

Di seguito il testo dell'articolo di Atkins pubblicato

MISERIA DELLA FEDE
 
Secondo un luogo comune molto diffuso la scienza deve occuparsi del mondo fisico mentre la religione di quello spirituale. La scienza può spiegare il 'come', mentre alla religione spetta la più ambiziosa analisi del 'perché’. Ma questa 'divisione dei compiti' non ha ragion d'essere: la scienza è molto più titolata della religione a occuparsi dei 'problemi ultimi' e a sgombrare il campo da questioni del tutto senza senso. 
Peter Atkins 
Alcune persone ritengono che il campo d'azione della scienza sia limitato a una sorta di «mondo fisico» mentre la religione si occupa di quello «spirituale». In altri termini, mentre la religione tratterebbe le grandi questioni dell'essere, la scienza tratterebbe quelle piccole. Un ateo concorderà sulla prima parte di questa affermazione, cioè che l'ambito della scienza è il mondo fisico, in quanto ritiene che non esista altro tipo di mondo e che la spiritualità sia una pia illusione generata da un cervello fisico. Lo stesso ateo probabilmente riterrà che la religione ha chiaramente fallito nel dare risposte alle grandi domande e sospetterà che alcune di esse siano comunque senza senso.
Diversità tecniche
Due caratteristiche fondamentali distinguono la scienza dalla religione. Una è il suo modo di operare: il suo fare affidamento su esperimenti pubblicamente accessibili, in contrasto con la religione che si affida a introspezioni personali. Mentre la scienza si affida ad esperimenti, la religione si affida a sentimenti. Mentre la scienza è meticolosamente oggettiva, e quindi una osservazione falsa viene rapidamente sottoposta a riscontro mediante sfilze di dati pubblicamente accessibili, la religione coglie dell'osservazione qualche frammento e, se questo tocca una corda emotivamente significativa, lo ingloba nella sua fabbrica di credenze. Altra caratteristica distintiva della scienza è la sua attitudine mentale: la sua visione ottimistica per cui la struttura fondamentale della realtà possa essere scoperta e resa comprensibile. La religione invece parte dal pessimistico assunto che l'origine prima sia intrinsecamente inconoscibile e che il cervello umano sia troppo debole per giungere a una sua piena comprensione. Perciò, la scienza rispetta le capacità intellettuali umane mentre la religione le disprezza.
Esistono molti altri modi possibili per descrivere le differenze tra scienza e religione. Così, gli scienziati sono scavatori che estraggono la semplicità dalla complessità. Essi percepiscono, e apprezzano, le proprietà terribilmente complesse, e spesso di una sbalorditiva bellezza, del mondo che li circonda, ma scavano in profondità per scoprire da quali semi tanta complessità è scaturita. Sono sì spaventati, ma non intimiditi: riconoscono quanto il mondo sia complicato, e specialmente il cervello umano, ma ricercano sistematicamente le fonti di tale complessità.
La ricerca alla radice delle cose per scoprire la semplicità di fondo è impresa molto difficile e ha bisogno di essere condotta con immaginazione unita a prudenza: l'immaginazione per individuare un percorso e la prudenza per trovare conferma nell'osservazione. Anche il percorso inverso, dalla semplicità scoperta su fino al mondo delle manifestazioni apparenti, è molto difficile, perché gli elementi semplici non sono collegati in una sequenza lineare che va dalla fonte ai fenomeni manifesti, ma sono interconnessi in una rete estremamente complessa per cui un evento in un dato luogo può determinare conseguenze praticamente imprevedibili altrove. In breve, la scienza è un lavoro veramente duro.
La religione, al contrario, è immaginazione svincolata dalla prudenza. Invece di estrarre il semplice che è alla base del complesso, direi che la religione accumula complessità sulla semplicità: il suo scopo sembra essere quello di nascondere l'inconsistenza del suo approccio attraverso la confusione mentale. Essa ricerca la complessità (cioè Dio) come causa e spiegazione. Si muove per libere interpretazioni argomentate spesso in modo stringente e ammirevole con grande erudizione e sapere dottrinale, ma che una volta esaminate con attenzione si dissolvono, rivelandosi delle opinioni dettate dal pregiudizio. In breve, la religione, per quanto riguarda la comprensione, è veramente facile. Con ciò non intendo dire implicitamente che una vita religiosa sia facile: tutt'altro, perché può essere, ma non sempre lo è, una vita di grandi restrizioni.
 
Semplicità
Ma è giusto che il raggiungimento della semplicità sia lo scopo di una spiegazione? E cos'è poi la semplicità? Una semplicità piena è raggiunta quando le sue proprietà non richiedono ulteriori spiegazioni. La cartina di tornasole per affermare che è stata raggiunta la semplicità ultima è il riconoscimento che non è più necessario ipotizzare un ulteriore meccanismo perché una data entità acquisisca un comportamento: è l'entità stessa a determinare il proprio comportamento. Quindi, la semplicità dal punto di vista scientifico deve essere una semplicità potente, in grado di incidere sulla complessità del mondo. Anche questo è in forte contrasto con la ricerca della conoscenza in senso religioso, dove ciò che si desidera è giungere a conoscere, perlomeno nell'accezione emozionale del termine, la potente complessità che si afferma essere l'origine di tutto. Un Dio è la definitiva «antisemplicità»: una complessità al di là di ogni comprensione, un'entità che già per definizione è fuori di ogni comprensione. In altri termini, un Dio è sinonimo di fallimento intellettuale, il pessimismo estremo, 1'antitesi della fiduciosa, ottimistica forza che guida la scienza.
Un segno del raggiungimento della semplicità è dato dall'eliminazione di una legge di comportamento. Molta scienza consiste nell'esaminare un'entità, identificarne uno schema comportamentale, e riassumere tale comportamento nei termini di una legge (per la scienza una legge non è un comando cui si debba obbedire, ma il riepilogo dell'insieme dei comportamenti osservati, come nella legge del moto di Newton). Comunque, un passo avanti verso la semplicità è dato quando si può mostrare che la legge è una naturale conseguenza dell'intrinseca natura dell'entità: a quel punto la combinazione «entità+legge» è sostituita dalla sola «entità». Come esempio molto semplificato di come una proprietà intrinseca spieghi una legge percepita, prendiamo la propagazione della luce. La luce viaggia in linea retta. Più precisamente, il percorso di un raggio di luce attraverso un mezzo è tale che il tempo del suo passaggio è il minore possibile (questa è la versione semplificata del «principio di minor tempo» di Fermat). Come fa un raggio di luce, allora, prima che si metta in moto (o quantomeno nel suo primo istante di viaggio) a conoscere il percorso che, una volta terminato il viaggio, si rivelerà essere il più breve di tutti quelli possibili? Una volta che ci siamo resi conto che la natura intrinseca della luce è un'onda, un tale comportamento si spiega perfettamente. In breve, la luce intraprende tutti i percorsi tra il punto di partenza e quello di arrivo; tuttavia, tranne pochi, tutti i percorsi hanno dei vicini che interferiscono tra loro in modo distruttivo, nel senso che nel loro punto terminale la cresta di un'onda coincide con il ventre di un'altra, così in quel punto mediamente si azzerano. I pochi percorsi che non interferiscono in questo modo sono tutti vicini ad una linea retta, per cui le onde che viaggiano lungo tali percorsi arrivano tutte con le loro creste e ventri per lo più in fase (tale risultato può essere espresso matematicamente con precisione). Quindi un osservatore è portato a concludere che la luce viaggi in linea retta. L'aspetto importante è che dove sembra che una legge governi un comportamento, esso si rivela essere il naturale prodotto di una totale anarchia: la luce viaggia in ogni direzione senza ostacoli, ma solo i percorsi molto vicini alla linea retta sopravvivono in modo da essere osservati. Ecco un esempio in cui un'osservazione casuale sembrerebbe richiedere sia un'entità sia una legge che ne regoli il comportamento, ma la scienza dimostra che solo l'entità è necessaria, dal momento che la legge emerge senza ulteriori imposizioni.
Questo esempio illustra come la conoscenza scientifica riduca la complessità del mondo e faccia diminuire il bisogno di un Dio che crea e controlla. Esiste l'opinione che Dio abbia avuto bisogno di imporre leggi comportamentali all'universo al momento della sua creazione. Il fatto che le leggi emergano effettivamente da e siano manifestazioni di un'anarchia di fondo elimina tale funzione. Un altro punto di vista religioso è che Dio sia il guardiano universale del comportamento, che sia eterno e onnipresente in modo da garantire che le leggi siano rispettate, con l'eccezione di quando è richiesto un vistoso miracolo. Anche in questo caso una serena riflessione scientifica dimostra come il concetto di Dio sia totalmente inutile.
 
Il campo d'azione della scienza
Il metodo scientifico non ha nulla di difficile - essenzialmente è l'applicazione del senso comune, che si spinge fuori nel mondo per effettuare su di esso osservazioni controllate, assicurandosi che i risultati di uno scienziato possano essere replicati da un altro, accertandosi che qualsiasi scoperta si adatti allo schema strutturale di altre scoperte, ed essendo onesti. In contrasto con quanti per disposizione d'animo religiosa, o puramente poetica, la pensano decisamente al contrario, vorrei far notare che questo metodo per giungere a capire le cose è illimitato nel suo ambito. Grazie alla scoperta di questa tecnica alquanto semplice, il genere umano sembra aver trovato un modo piuttosto ovvio di raggiungere una conoscenza vera di qualsiasi cosa lo interessi, inclusi quegli aspetti dell'esistenza che le religioni hanno considerato materia di loro esclusiva competenza. Comunque, nell'esercitare il suo potere di rispondere a domande profondamente problematiche, la scienza deve distinguere tra quelle apparentemente reali e quelle puramente inventate. Tra queste ultime, naturalmente, ce ne sono molte considerate con attenzione e ritenute profondamente significative dalla religione.
Quali sono le grandi questioni dell'essere, e fin dove possiamo aspettarci che la scienza giunga a dare ad esse una risposta? Al riguardo il mio obiettivo è semplicemente separare la realtà dalla fantasia. Tornerò più avanti su ciò che definisco realtà.
Una prima domanda riguarda l'origine del tutto, cui la religione ha tentato di rispondere, o almeno di fornire un'interpretazione allegorica, attraverso la creazione di miti. La domanda è forse reale, in quanto certamente sembra esserci qualcosa qui la cui origine sembra aver bisogno di una spiegazione. Classificherò la domanda come reale e ne tratterò fra breve. Una seconda grande domanda è il problema del perché noi esistiamo, la nostra finalità cosmica. Questa è lilla domanda di fantasia. Non esiste la benché minima prova che questa domanda abbia alcun senso. Questa domanda è stata inventata da gente che dà per scontata la questione ritenendo che l'universo debba avere uno scopo dal momento che esiste, e non riesce a concepire la possibilità che uno scopo non ce l'abbia proprio. Secondo me vi è qualcosa di grandioso nella visione secondo cui l'universo se ne sta lì semplicemente sospeso, completamente senza scopo.
Alcuni diranno che liquidare così certi temi è superficiale e che il fatto che la scienza faccia questo con una domanda tanto profonda, come fosse un non senso, è il segno di come tale domanda sia fuori della sua portata. Sarebbe una critica valida se soltanto esistesse la più piccola prova che l'universo effettivamente abbia uno scopo. Non c'è il benché minimo indizio di tale prova. L'idea che vi sia uno scopo è,soltanto un'ingiustificata proiezione dell'attitudine mentale umana. E facile capire perché molti possano pensare che un'entità tanto vasta e complessa debba esistere per uno scopo, dato che nell'esperienza umana le entità più vaste e complesse sono state fatte per un qualche scopo, fosse anche totalmente futile. Invece sono infiniti gli esempi di costruzioni senza finalità (le lune di Marte, per citarne alcune) e, senza alcuna prova che l'universo di fatto abbia uno scopo, l’unica posizione razionale da adottare è quella dell'assenza di scopo. È della massima importanza per un ateo scientificamente avveduto non farsi intimorire da quanti impongono un loro preconcetto sull'universo e poi gridano «superficiale!» quando la scienza rifiuta di perder tempo con il loro preconcetto.
Un'altra grande questione considerata da molte religioni come centrale e come loro riserva privata di informazioni è la natura della vita ultraterrena. La scienza nega che esista. In primo luogo e soprattutto, non c'è alcuna prova di un tale stato di esistenza. C'è, di sicuro, un grande e disperato desiderio che esista una vita dopo la morte, ma desiderare è una cosa, la realtà un'altra. Le nostre attuali cognizioni circa l'attività fisica del cervello e della sua capacità di generare complicate e a tutt'oggi relativamente misteriose proprietà note come «coscienza», e in particolare il senso di sé, spazzano via senza alcun dubbio la fantasia che un qualche tipo di funzione (cioè l'anima) possa persistere in assenza del supporto fisico del cervello. L'intera impalcatura del dibattito sulla vita ultraterrena, con annesse fantasie speculative e non provate quali la reincarnazione, la trasmigrazione, il purgatorio, l'inferno e il paradiso, le resurrezioni (non i risvegli dal coma), o i fantasmi, crolla non appena si accetta l'idea che una cosa simile non esiste.
La credenza in un aldilà si alimenta non di qualche prova ma della psicologia legata a controllo e paura, e inoltre mette un'arma di controllo nelle mani di coloro che mirano a invadere la vita privata altrui con minacce che possono incutere timore, ma non possono essere verificate. La credenza in una vita dopo la morte è un balsamo per quanti non riescono ad accettare la prospettiva del proprio annichilimento. E non va dimenticato che di tutte le fantasie diffuse dai religiosi nel proprio interesse, questa credenza è forse la più pericolosa, e non solo perché limita il godimento del pre-aldilà (ovvero, la vita stessa), ma perché si dimostra essere una potente fonte di ispirazione e ricompensa per quanti uccidono in nome della religione o soltanto per soddisfare la propria sete di sangue.
Un'altra grande questione dell'essere verte sulla natura di Dio e in particolare sulla Sua (di Lui, di Lei, di Esso?) esistenza. Può la scienza fornire lumi, centrale com'è la domanda per la maggior parte delle religioni? Di sicuro, la cosa presenta vari tipi di sfide. Una è invitare la scienza a provare che Dio non esiste. Cosa sicuramente impossibile, perché nella sua onnipotenza potrà sfornare inganni illimitatamente. Un Dio onnipotente ha il potere di nascondere Se stesso in modo assoluto. Però la sfida non è per nulla leale, sotto vari aspetti. La teiera di Bertrand Russell è una ben nota allegoria in merito, quando afferma che è impossibile smentire l'affermazione secondo cui esiste una teiera in orbita tra noi e Marte. Ma il punto no dale è perché si dovrebbe chiedere a uno scienziato di fornire la prova negativa di tale asserzione? Un'asserzione più elaborata dovrebbe essere conseguente a una meno elaborata. Ovvero, la visione atea del mondo primitivo (senza bisogno di affermare l'esistenza di un Dio) dovrebbe essere il punto di partenza di ogni dibattito, e se un teista vuole indurci a cambiare idea, allora spetta a lui l'onere della prova. A uno scienziato non si dovrebbe chiedere una prova negativa: è il religioso che dovrebbe fornire una prova positiva.
 
Per mia esperienza, le persone religiose sono poco inclini ad accettare questa argomentazione, non solo perché le pone in una posizione scomoda ma perché a loro modo di vedere la prova è la rivelazione e tale prova certa in loro possesso non può essere trasmessa di seconda mano, ma deve essere frutto di un'esperienza diretta e personale. Uno scienziato, anche se non è ateo, dovrebbe guardare un tale atteggiamento con grande sospetto, perché è ben noto come il pregiudizio, la pressione sociale e i condizionamenti culturali generali possano influenzare il giudizio della gente. Un ateo sarà risoluto nel sostenere che una prova debba essere condivisibile per essere accettata e non riterrà sufficienti intuizione e sentimenti.
Che i miracoli siano stati riferiti e attribuiti alla mano di Dio non costituisce una prova. I miracoli sono di tre tipi. Ci sono eventi apparente mente miracolosi (quasi sempre, comuni guarigioni) che ad un controllo 9 più accurato presentano spiegazioni semplici e naturali. Poi ci sono eventi apparentemente miracolosi che si rivelano essere false dicerie e non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni (tranne forse indagare lo stato mentale dell'imbroglione o dell'imbrogliato). Mi viene in mente qui David Hume e la sua notazione, secondo la quale c'è sempre una ragione in più per credere che la notizia di un miracolo sia falsa, che non per credere al fatto che sia davvero accaduto. Il terzo tipo di miracoli, che potremmo chiamare 'miracoli duri', non hanno una spiegazione naturale e poiché implicano una trasgressione delle leggi naturali sono veramente miracolosi. Miracoli di questo tipo non si sono mai verificati.
Le religioni poi pensano di avere la sovranità esclusiva sulle questioni etiche. Non si può negare che il comportamento personale e sociale sia effettivamente un problema, e quindi lo classificherò come reale e tratterò più avanti quel che la scienza ha da dire al riguardo.
A questo punto della selezione abbiamo due questioni reali (l'origine del tutto e l'etica) e un mucchio di fantasie (scopo, aldilà, esistenza di Dio, miracoli). E ora che ignoriamo le fantasie e ci occupiamo della realtà rimasta.
 
Le origini
Le religioni si sono occupate a lungo del problema della cosmogenesi, le origini del tutto, ma se escludiamo il valore di puro intrattenimento di alcune piacevoli allegorie, esse non hanno fornito alcun chiarimento di sorta. Alcuni negano che una religione si regga o cada a seconda di quanto abilmente contribuisca a rispondere a questa primaria questione dell'essere, altri invece la vedono come forse l'estremo esercizio dell'onnipotenza divina, la creazione di un universo completamente nuovo, presumibilmente da un nulla assoluto (ma plausibilmente dai resti arrugginiti di un precedente tentativo fallito). Neanche la scienza può spiegare l'insorgenza di un universo senza un intervento esterno (ma neanche con esso), però si sta avvicinando sempre più a risolvere quella che forse è la questione più grande di tutte.
Un segno del progresso che la scienza ha fatto nell'arco di 300 anni, a fronte della totale (sì, totale) mancanza di progressi derivanti dal pensiero religioso in un arco di tempo dieci volte maggiore, è l'essersi avvicinata al momento più prossimo alla creazione che essa possa raggiungere. Con la formulazione della teoria della relatività generale di Einstein (la sua teoria della gravitazione), la scienza ha dimostrato che è possibile ripercorrere a ritroso con sicurezza la storia del nostro attuale universo fino ai millisecondi successivi all'evento che si ritiene suo punto d'origine. Possiamo fare osservazioni sperimentali sull'universo risalendo fino a circa un milione di anni dopo la sua formazione (guardando a grandi distanze, dalle quali la luce ha impiegato miliardi di anni per raggiungerci). Di fatto, osservazioni anche contemporanee, quali l'indagine dettagliata della radiazione di fondo a microonde, quel che resta del Big Bang, possono servire a inferire la natura degli eventi che hanno accompagnato la formazione dell'universo. Con un grado di sicurezza decrescente, possiamo tracciare a ritroso la storia dell'universo fino a circa 10-41 secondi dal suo inizio, sebbene eventi tanto prossimi all'origine siano altamente speculativi, in quanto più ci avviciniamo ad essa tanto più incerto diventa estrapolarne teorie fisiche correnti. Quest'ultima notazione però non deve essere interpretata come l'indicazione che la scienza sta perdendo colpi e andando oltre le sue capacità. Tutto quel che significa è che essa procede con prudenza e che ricorre a un patrimonio di teorie che si amplia incessantemente. La pazienza è un aspetto straordinario e di vitale importanza per la scienza. Gli scienziati sono dei conservatori rivoluzionari: gettano ponti sul mare dell'ignoranza usando immaginazione e abilità, ma le loro costruzioni hanno basi solide radicate nel sapere e controllate ad ogni passo. Non sono da loro gli impetuosi voli di immaginazione, talvolta poetici, emotivamente carichi, così tipici delle religioni, voli che sono pura fantasia sebbene una volta rivestiti con cura si presentino bardati da dottrina.
Di fatto, e sebbene non sia strettamente pertinente alla nostra discussione, uno degli aspetti più rilevanti della cosmologia è che le osservazioni sulla Terra fatte nei laboratori si sono rivelate applicabili all'intero universo. Sebbene alcuni scienziati abbiano ipotizzato che le costanti fondamentali potrebbero essere diverse in regioni lontane dello spazio e del tempo, tutte le prove fornite dall'osservazione indicano una sua omogeneità strutturale. E inoltre, le teorie cosmologiche dipendono in modo decisivo dal fatto di conciliare teorie e osservazioni, relative sia all'infinitamente piccolo (le particelle fondamentali) che all'infinitamente grande (l'universo intero): non c'è indicazione più valida che la scienza sia una strada sicura verso la conoscenza che vedere come questi due grandi fiumi di sapere, che sgorgano da fonti tanto diverse, si mescolino in modo costruttivo. Nel complesso, invece, i grandi fiumi delle religioni quando si incontrano lo fanno in modo distruttivo, generando conflitti anziché rafforzare la comprensione.
C'è poi un'altra componente della grande questione cosmologica: non semplicemente cosa accadde all'inizio, ma come tutto è iniziato? Su questo la scienza attualmente ha ben poco da dire. Sono state fatte ipotesi, ma sono poco più che riflessioni e a stento le si possono distinguere da quelle della religione. Tuttavia ci sono alcuni punti che vale la pena rimarcare. In primo luogo, tutte le ipotesi scientifiche mirano alla definizione di un universo determinatosi in forma autonoma, senza bisogno della mano di un creatore. In secondo luogo, sebbene non siano che ipotesi, si collocano tutte all'interno di una matrice scientifica, il che suggerisce - niente di più - che la scienza sarà in grado di volgere la sua attenzione verso un così grande problema. In terzo luogo, sappiamo sempre di più degli eventi e della composizione dell'universo nei suoi primi stadi da questo lato del punto zero, così che diventa sempre più chiara la zona intermedia tra i due lati del punto zero (ovvero, la zona intermedia tra quando non c'era nulla e quando ci fu almeno qualcosa di molto primordiale). In quarto luogo, un'attenta analisi di quel che c'è in questo universo rivela che di fatto esso è molto più semplice di quanto suggerirebbe un'indagine casuale, e che il come sia iniziato è un problema meno drammatico di quanto potrebbe sembrare a prima vista.
La composizione semplice dell'universo è un punto di tale importanza da meritare una piccola digressione. Quando pensiamo all'universo in modo scientifico, scopriamo che in un certo senso si tratta di una combinazione di opposti. Così, c'è una carica elettrica positiva e una negativa, e la quantità totale di carica positiva presente nell'intero universo osservabile coincide esattamente con la quantità totale di carica negativa. Allora si potrebbe ingenuamente dire che la Creazione non riguardò la creazione della carica elettrica, ma soltanto la separazione della non -carica (un aspetto del nulla) nei suoi opposti. Lo stesso dicasi per il momento angolare (una misura di grandezza del moto circolare). Il momento angolare totale dell'universo sembra essere pari a zero, ma ci sono un'infinità di casi di momenti angolari locali (una ruota che gira, per esempio). Quindi, prima della Creazione non esisteva momento angolare (altro aspetto del nulla), e dopo di essa non esiste ancora un momento angolare totale: il momento angolare in senso orario si è semplicemente separato da quello in senso antiorario e ci appare come un moto circolare locale.
Questa argomentazione può estendersi anche ad altre proprietà: l'energia, per esempio. Basta guardarsi in giro e vediamo che c'è una gran quantità di energia in circolazione, tanto che per un qualsiasi Creatore deve essere stato un compito estremamente arduo rifornirne il cosmo in modo armonioso e abbondante. Ma lo scienziato guarda il mondo con un occhio più acuto. Di sicuro esiste una gran quantità di energia derivante dal moto di oggetti e una gran quantità imprigionata sotto forma di massa (secondo Einstein massa ed energia sono equivalenti, essendo la massa una misura dell'energia contenuta in una regione), compresa la pressoché incalcolabile massa totale di tutte le galassie. Eppure, esiste anche un apporto negativo all'energia totale, quello derivante dall'attrazione gravitazionale tra le galassie. Ci sono buone ragioni per supporre che questo massiccio apporto energetico negativo totale annulli in massima parte (forse completamente) il massiccio apporto energetico positivo, e che l'energia totale dell'universo potrebbe essere vicina (e di fatto uguale) a zero. Se questa ipotesi fosse corretta, il compito del Creatore non sarebbe stato quello di fornire grandi quantità di energia, ma soltanto di separare la non -energia (altro aspetto del nulla) in apporti positivi e negativi.
Tali speculazioni potrebbero non avere senso. E poi ci sono altri importanti elementi costitutivi dell'universo che attualmente sono quasi del tutto sconosciuti (come l'enigmatica materia oscura che pare pervada tutto lo spazio). Cionondimeno essi mettono in evidenza il fatto che la scienza sta progressivamente semplificando il compito di spiegare l'inizio dell'universo e dando la speranza che un giorno sarà possibile dar conto autorevolmente del fatto che tale inizio avvenne in modo autonomo, completamente dal nulla.
Nel processo di raggiungimento di una tale spiegazione, la scienza sta già ampliando la nostra concezione di ciò che esiste. Così le attuali (e talvolta fragili) teorie sull'universo primordiale, alcuni aspetti delle quali hanno il supporto dell'osservazione, già indicano in via provvisoria qualcosa: che questo universo non è che uno dei tanti. Se così fosse, ci sarebbe una possibile risposta a un'altra travagliata questione: perché il nostro universo sembra così adatto alla vita. Il cosiddetto problema della «sintonia fine» evidenzia come anche piccole deviazioni delle costanti fondamentali (quali la carica di un elettrone) dai loro valori attuali avrebbero catastrofici effetti sulla materia, nel senso che le stelle brucerebbero troppo in fretta per produrre gli elementi base della vita, i sistemi planetari non sopravvivrebbero abbastanza a lungo da consentire l'evoluzione di esseri coscienti, e così via. Ci sono tre possibili soluzioni a questo problema. La spiegazione religiosa è che esso dimostra la benigna mano di Dio, che sceglie le costanti fondamentali con saggia preveggenza e benevolenza (per il nostro genere, almeno). Poi ci sono le teorie scientifiche, più impegnative intellettualmente. Una dice che qualsiasi universo deve realizzarsi con la nostra combinazione di costanti, e che è solo una fortunata coincidenza che tali valori abbiano favorito la nostra insorgenza. Una alternativa sostiene che un universo possa giungere ad esistere con tanti diversi valori per le costanti fondamentali. Tuttavia, poiché esistono tanti universi, forse un numero infinito, deve essercene sicuramente almeno uno tra i tanti (come noi abbiamo trovato) che ha la combinazione di valori favorevole per la vita. Sebbene innumerevoli universi possano sembrare uno spreco e più impegnativi del concetto di un singolo Dio, non fatevi ingannare: un casuale mucchio di innumerevoli particelle di polvere è pur sempre meno organizzato di una divinità onnipotente (o persino di una divinità con quasi nessuna potenza). Si è dato ampio spazio alla determinante questione se un Creatore sia stato implicato nella creazione e, sebbene siano molti a considerare la questione secondaria rispetto alla dimensione spirituale della religione, molti rimangono sconcertati dal solo fatto che esista un universo, e le religioni hanno cercato di dar loro risposte. La posizione scientifica è che si sta lavorando sodo per fornire una spiegazione verificabile attraverso l'osservazione dei primi istanti dell'universo e che un giorno sarà possibile spiegare il suo inizio senza dover invocare un atto di creazione.
 
La spiritualità
Il principale argomento usato contro l'universalità della scienza è che ha miseramente fallito nel contemplare la spiritualità. Non si può negare che la religione sia stata di straordinaria importanza nello stimolare grandi espressioni artistiche, ma questo non è un argomento valido per 1 sostenere l'esistenza del soprannaturale. Che dalla religione siano scaturite grandi forme d'arte (come di grande sofferenza) è un segno del profondo impatto che i concetti religiosi hanno sulla mente umana, un impatto probabilmente tanto forte in virtù del fatto che i cervelli sono stati modellati dall'evoluzione in modo da credere, o semplicemente perché l'impatto culturale della religione è fortissimo.
Fallisce la scienza quando volge il suo sguardo verso l'interno? Il problema della coscienza è di un tipo ben diverso da quello cosmologico e quasi certamente sarà chiarito in modo completamente diverso. Laddove la cosmogenesi sarà espressa nei termini di una teoria matematicamente formulabile, la nostra comprensione della coscienza sarà espressa probabilmente nei termini di una sua simulazione da parte di un qualche tipo di apparecchiatura computazionale (non necessariamente un computer digitale, ma qualcosa di simile). Probabilmente è fuorviante pensare che esisterà mai una «teoria della coscienza» allo stesso modo in cui esisterà una teoria della cosmogenesi. Ci sarà, sicuramente, la comprensione di specifiche funzioni, come è già avvenuto per quanto riguarda la percezione, la cognizione e la memoria, ma non c'è bisogno di cercare né volere una «teoria» globale della coscienza, qualunque essa possa essere. Inoltre, potrebbe rivelarsi difficile simulare le conseguenze extraneuronali di un ambiente chimico complessivo, mutevole e adattabile quale quello neuronale, e ci potrebbe sempre essere il dubbio che la forma di coscienza che è stata simulata non sia in realtà proprio l'analogo della nostra coscienza. Una volta scoperta una forma di coscienza, si può potenziarla; però magari potremmo non riconoscerla come una forma superiore di coscienza e scambiarla erroneamente per stupidità, così da buttar via quanto fatto prendendolo per un fallimento.
Sia come sia, per quanto riguarda la presente discussione, una volta simulata una forma di coscienza, possiamo effettuare una quantità di esperimenti ed esplorare vari aspetti del gusto per il bello, e di tutte le altre qualità che riteniamo prettamente umane. Per esempio, potremmo effettivamente scomporre il nostro gusto del bello in componenti elementari. Ciò non è del tutto aldilà di ogni speranza e possiamo illustrarlo considerando certe analogie tra il peculiare fascino della sezione aurea e l'eufonia delle corde in ambito musicale: i lati di un rettangolo aureo sono nella stessa proporzione esistente tra le frequenze della nota superiore e di quella inferiore in una terza maggiore. Potremmo essere di fronte alle prime fasi della scoperta di una relazione tra una percezione gratificante e le proprietà di risonanza del nostro circuito neuronale.
Il concetto di spiritualità ovviamente va ben oltre i confini della bellezza e può esservi incluso il senso dell'agire morale. Può la scienza gettar luce sulla moralità, o dobbiamo cedere il campo alla religione? A quanti non piace l'idea che le libertà personali debbano essere violate dalle decisioni di un qualche grande vecchio tribale (come un papa o un mullah) e limitate in nome di raccolte di antichi racconti popolari e miti noti come «sacre scritture» di una marca o di un'altra, sarebbe d'aiuto se certi aspetti del comportamento umano e il concetto di «bene» fossero rischiarati da un pensiero oggettivo. Scopriremmo allora che cosa è intrinseco alla nostra natura e che cosa invece ci viene imposto da coloro il cui desiderio è controllarci.
Siamo ancora lontani dal capire la nostra natura intrinseca, ma le indagini scientifiche sulle origini di un comportamento, come indicato ampiamente dall'antropologia e dalla psicologia, sono vieppiù illuminanti. In breve, ci sono contributi evolutisi geneticamente, che rappresentano la trascrizione del nostro lungo viaggio attraverso la storia evolutiva e che mostrano le cicatrici delle lotte per la sopravvivenza dei nostri antenati. E poi ci sono le componenti del comportamento derivanti dalla nostra capacità di riflettere, con cui i nostri grandi cervelli sono in grado di valutare le conseguenze delle nostre azioni (per il bene o per il male). Capire profondamente l'interazione tra questi due aspetti ci fornirà una comprensione molto più profonda del nostro comportamento e di quello altrui che non l'appellarsi all'autorità di antiche scritture.
Infine, ed è un altro aspetto della precedente considerazione, non c'è da stupirsi se percezione e riflessione in alcuni casi sfocino in concezioni religiose. Uno dei campi più affascinanti della ricerca scientifica è capire perché gente peraltro intelligente ancora crede negli dei in generale e in un Dio in particolare. E facile capire perché alcuni grandi pensatori, e scienziati, del passato fossero devoti credenti, dato che si trovavano sotto una considerevole pressione sociale e non avevano avuto accesso - e come avrebbero potuto del resto - agli enormi progressi del sapere scientifico del secolo scorso. Che Isaac Newton fosse un fervente religioso non è un argomento accettabile per i moderni scienziati, poiché visse mentre la religione esercitava un saldo controllo sulle menti. Molti intellettuali discendenti di Newton sono pure stati ferventi credenti, ed ancora oggi alcuni eminenti scienziati restano convinti dell'esistenza di un Dio e pensano che i vari libri sacri siano in qualche misura una guida affidabile di conoscenza. Perché vi siano ancora scienziati che aderiscono a un credo religioso rimane un mistero, ma del tipo che potrebbe essere risolto da un'appropriata indagine psicologica. Presumibilmente la spiegazione include un senso personale di insicurezza. Per uno scienziato non credente però suscita rammarico il fatto che altri scienziati non abbiano il coraggio intellettuale di accettare che il Naturale non ha bisogno del Soprannaturale.
 
Credere
Alla base di tutta questa discussione vi è, evidentemente, la questione del credere. Ammetto che è una mia indimostrata credenza che la scienza possa illuminare tutte le grandi questioni dell'essere e ammetto di credere nella sua onnipotenza e competenza universale. Queste credenze sono molto meno pretenziose di quelle caratteristiche della religione, la cui giustificazione si potrà trovare soltanto dalla altra parte della tomba.
Non credere in un Dio è un punto di vista molto più primitivo (nel senso di più semplice) che credervi, proprio allo stesso modo in cui non credere che una teiera orbiti tra la Terra e Marte è più primitivo del credere che ve ne sia effettivamente una. L'obbligo di fornire una prova deve riguardare quanti credono a una spiegazione più elaborata dell'esistente piuttosto che quanti ritengono che, col tempo, e alla luce dei suoi attuali successi, la scienza tirerà fuori una spiegazione semplice del fatto che l'universo con i suoi attributi e processi, che tutti gli aspetti del comportamento umano compresa la credenza che esista un Dio, e che l'emersione stessa dell'universo sono tutti il prodotto naturale di eventi causalmente correlati. Sono loro a dover dimostrare che la loro ipotesi più elaborata sia essenziale. Finora nulla in ambito scientifico ha richiesto l'intrusione di un qualsivoglia sentore di Dio.
Vi è un ultimo punto che vale la pena sottolineare. L'ateismo rappresenta il trionfo dell'illuminismo. Un ateismo attento al progresso scientifico rispetta il potere dell'intelletto umano di lottare per e conseguire nei modi opportuni la conoscenza. La scienza rispetta l'essere umano. La religione, malgrado le sue affermazioni in senso contrario, lo disprezza, asserendo che sotto l'aspetto intellettuale è semplicemente troppo debole. Se fossimo nel regno dell'Intelletto, la scienza sarebbe sicuramente collocata sul trono e qualsiasi alleanza della scienza con la religione equivarrebbe a contaminarla e sminuirla. Il compromesso, un accomodamento con la religione, è un'alleanza improponibile. Il metodo scientifico è un frutto rigoglioso dell'intelletto umano, capace di dare a tutti l'opportunità di provare la gioia di una vera comprensione.
 
(traduzione di Laura Franza)


Marted́ 09 Novembre,2010 Ore: 22:53
 
 
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