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www.ildialogo.org IL DIO DI STEPHEN HAWKING,di Pedro Miguel Lamet

IL DIO DI STEPHEN HAWKING

di Pedro Miguel Lamet

Lo scienziato più mediatico di tutti i tempi, Stephen Hawking, ha sentenziato che Dio non ha creato l’universo, assicurando in The Grand Design che il Big Bang, cioè la grande esplosione iniziale dell’universo è stata “una conseguenza inevitabile” delle leggi della fisica e che il cosmo “si è creato dal nulla”, secondo quanto è dato leggere negli estratti del libro pubblicati dal quotidiano The Times.

In questo lavoro, firmato insieme al fisico statunitense Leonard Mlodinow, egli confuta l’ipotesi di Isaac Newton, convinto del fatto che l’universo non poteva nascere dal caos a partire dalle mere leggi della natura e che pertanto doveva essere stato creato da Dio. Hawking non ritiene più possibile conciliare la causa della fede con la comprensione scientifica dell’universo.

La tesi di Hawking, uno scienziato che per il suo modo di affrontare la malattia e i suoi numerosi bestseller, come Breve storia del tempo (1988), viene conquistando le prime pagine dei giornali, ha suscitato, come c’era da attendersi, le più varie reazioni. Bisogna tener conto che colui che fino a poco meno di un anno fa occupava la Cattedra Lucasiana di Matematica dell’Università di  Cambridge, la stessa di Newton, non nega l’esistenza di Dio, ma quella di un Dio creatore.

Il problema della relazione tra scienza e fede viene da lontano, come indicano i casi notissimi di Galileo e Darwin nei campi della Fisica e della Biologia, come pure le difficoltà di altri autori più vicini a noi, come può essere il gesuita Pierre Teilhard de Chardin. L’ateismo scientifico ha inizio soprattutto nella seconda metà del XIX secolo e oggi ci si divide tra quanti ritengono compatibili Dio e la scienza e quanti no.

In ogni caso, come ricorda il mio amico e compagno Ignacio Núñez de Castro (gesuita e docente di Biochimica e Biologia Molecolare dell’Università di Malaga, ndt), scienza e teologia seguono metodi diversi. Costituiscono due forme di pensiero che godono di piena autonomia e, utilizzando metodi distinti, non possono arrivare ad incontrarsi e a dialogare. Il metodo ipotetico-deduttivo, proprio delle scienze sperimentali, secondo Karl Popper, è molto diverso dal metodo proprio di ogni riflessione sul fenomeno religioso o sulla fede in un Dio trascendente. Quanti difendono il patto di non aggressione diranno: “si limitino gli scienziati a dar conto dei fatti, si limitino i teologi a dar conto del senso”. Vale a dire che spetterebbe alla Scienza parlare del “come” dei processi o fenomeni, soltanto in modo descrittivo, e spetterebbe alla Teologia ricercare le cause ultime o, altrimenti detto, il “perché” e il “per cosa”.

Núñez de Castro sostiene che, “in primo luogo, si debba abbandonare ogni conflitto proprio di altre epoche: né la moderna epistemologia continua a mantenere idolatrie come quella dello scientismo o falsi assoluti come il cosiddetto ateismo scientifico, né la moderna teologia, cosciente della sua debolezza come scienza storica, intende conservare posizioni che possano condurre all’errore o alla superstizione. Siamo pienamente convinti del fatto che tutte le visioni totalitarie, provengano dagli scienziati o dai credenti, manchino di plausibilità al momento attuale”.

Esiste poi il problema del linguaggio di apologeti da salotto che cercano di spiegare la fede biblica con terminologia scientifica, affermando per esempio che la teoria del big-bang può identificarsi con l’atto creatore di Dio, con il “sia la luce” del Genesi (Gn 1,3), o che la cosiddetta morte termica dell’universo può essere la manifestazione del fine escatologico in una specie di apocalissi materiale.

Núñez de Castro ritiene che la scienza possa contribuire a purificare il nostro concetto di Dio. La scienza attuale, nei suoi grandi rami della fisica e della biologia, ci offre una serie di supporti intellettuali per arricchire l’immagine di Dio, per quanto in questo dialogo con la scienza si sia consapevoli che nessun legno mondano, per quanto nobile sia, è adatto ad intagliare questo nuovo volto di Dio. Ricadrà sempre sull’essere umano il mandato biblico di non costruire immagini definitive di Dio (Dt 5,8). Ma la visione del mondo che le scienze ci offrono ci aiuterà a purificare la nostra immagine di Dio e la sua relazione con il mondo, cioè a promuovere una nuova concezione dell’azione creatrice di Dio in un universo dinamico ed evolutivo, sebbene coscienti del fatto che nessuna immagine sarà definitiva: già San Tommaso ci avvertiva che un errore riguardo alle creature può condurci ad a una falsa immagine di Dio (“nam error circa creaturas redundat in falsam de Deo sententiam”, Summa contra Gentiles, Liber 2, C 3, nº 6).

Io non concepisco un Dio fuori di me e dell’universo come se da una nube avesse deciso di creare il mondo. Einstein, per esempio, era profondamente religioso, ma non credeva in un Dio personale. Quando parla di religione si riferisce a un essere profondo e ispiratore che anima il mondo. Forse per questo Hans Küng afferma che Dio va oltre tutte le categorie del personale e dell’a-personale e che dovremmo chiamarlo transpersonale.

In poche parole, lo scienziato, come chiunque, deve sperimentare un vuoto, un mistero che è dietro tutte le cose. E per questo non c’è bisogno di ricorrere alla fisica quantistica o ai buchi neri. Un bambino che nasce supera tutte le coordinate dei suoi genitori: ha vita propria, sentimenti propri, quello che chiamiamo anima, un non so che che ci supera. Quest’anima è anche in un terremoto, che è espressione di una Terra dotata di vita propria, o nel calice di un fiore, nella complicata struttura di un insetto, nell’immensità del firmamento.

D’altra parte tutto questo lo diciamo a partire dalla nostra dimensione spazio-temporale. Quando, grazie a un risveglio interiore, ci si rende conto che si è solo la manifestazione nel tempo di un Non-Tempo, ossia dell’eternità, si comprende che Dio supera queste visioni antropomorfe del dio-architetto o del dio-orologiaio. Quando i mistici parlano del nulla, della notte o del vuoto evocano questo Essere totale in cui  “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”, al di sopra di ogni caricatura. Si va oltre la pellicola e si resta con la luce, il fuoco che c’è dietro, che abita tutto ed è prima e dopo e il presente di ogni manifestazione.

Di modo che a me sembra che il signor Hawking, riferendosi al Dio creatore, si richiami a un concetto di divinità molto infantile. In base a questo, tutto chiaro, assolutamente d’accordo. Per quanto anche così dovrebbe spiegarmi questa questione del nulla. No?

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da ADISTA Doc. n.76 



Martedì 12 Ottobre,2010 Ore: 17:38
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/10/2010 18.22
Titolo:IL DIO DI GESU' COME DI DANTE DI GALILEI E KANT VUOLE ESSERI UMANI MAGGIORENN...
IL DIO DI GESU' COME DI DANTE DI GALILEI E KANT VUOLE ESSERI UMANI MAGGIORENNI ....

PER VACCINARSI DA TENTAZIONI ATEE E DEVOTE, LEGGERE E RILEGGERE KANT. Un contributo e una esortazione per cominciare. Una nota sulla "Storia universale della natura e teoria del cielo"

STEPHEN HAWKING SCONVOLGE IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DELL' "UOMO SUPREMO" DEI VISIONARI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA EUROPEA:

http://www.ildialogo.org/filosofia/documenti_1283506440.htm


di Federico La Sala





Continuare a dividere la vita e le opere di Immanuel Kant in due, la fase “precritica” e la fase “critica”, è - storiograficamente - un ‘delitto’, solo un modo per impedir-si e negar-si la comprensione della unitarietà della sua riflessione (scientifica e filosofica, teologica, politica, antropologica, ecc.) e le caratteristiche inedite della sua stessa soggettività. Basta prendere in considerazione solo una delle più importanti opere degli inizi, per comprendere quanto sia necessario e vitale togliere i paletti tra le due fasi.

La “Storia universale della natura e teoria del cielo ovvero Saggio sulla costituzione e sull’origine dell’intero universo secondo i principi newtoniani ” è l’opera di un Autore (pubblicata anonima, nel 1755, a Koenigsberg) che ha appena compiuto trentuno anni. Già solo il titolo dà da pensare - e molto! Se poi si considera che nella dedica (al di là della retorica del caso e del tempo) “A Sua maestà Serenissima e Potentissima / Al Mio Signore / Federico/ Re di Prussia (...)”, “L’Autore” si dichiara addirittura “per tutta la vita” e “con la più profonda devozione, umile servo” della “Mia Reale Maestà”, emergono altre indicazioni - e si aggiungono altre complicazioni (per una lettura più attenta!).

Nell’opera, dopo la “Prefazione” e l’indice del “Contenuto dell’intera opera”, segue la “Parte Prima”, che è titolata “Abbozzo di una costituzione delle stelle fisse ovvero molteplicità dei sistemi stellari” ed è accompagnata da un motto, ripreso dal “Saggio sull’uomo” di Alexander Pope: “Volgi lo sguardo al nostro mondo, scorgi la / catena d’amore che lega la terra al cielo”.

Sono due versi famosi sovraccarichi di storia e di teoria - al passato: per il richiamo ai primi versi del canto I - “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove” - e, all’ultimo verso del canto XXXIII del “Paradiso” di Dante - “L’amore che muove il Sole e le altre stelle”; al futuro: per il richiamo al prezioso lavoro di Arthur O. Lovejoy, “La Grande Catena dell’ Essere” (“The Great Chaim of Being. A Study of a Histoy of an Idea”, del 1936). La cosa non è affatto di poco conto: nella “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel tentativo (nel saggio) di Kant di andare oltre Newton - sia dal punto di vista scientifico sia filosofico-teologico, Pope accompagna Kant fino alla fine. La “Conclusione” dell’opera - non è male ricordarlo e tenerlo presente - è intitolata: “Il destino dell’uomo nella vita futura”.

Il messaggio è abbastanza chiaro. Chi scrive, parla da uomo a uomo e da sovrano a sovrano e invita (se stesso e) il suo stimato “Signore / Federico / Re di Prussia” ad andare avanti e oltre sulla strada della scienza (Newton) e della saggezza (Pope) - con Newton e con Pope, senza separarli e senza assoggettare l’uno all’altro! L’indicazione di Galilei (se pure mai citato) è tra le righe ed è al fondamento del discorso di Kant: non confondiamo i “due” Libri e non confondiamo “come va il cielo” con “come si va in cielo”!

Quanto questa indicazione di Kant fosse carica di futuro e tuttavia difficile da seguire, lo dimostra subito Hegel nel 1801, con la sua “Dissertatio de orbitis planetarum” (cfr.: Hegel, Le orbite dei pianeti, a c. di Antimo Negri, Laterza, Bari 1984). Dopo pochi anni dalla morte di Federico II di Prussia, e con Kant ancora in vita (muore nel 1804), egli dimentica e stravolge la lezione di Keplero (che aveva accolto la lezione e riconosciuto a pieno la vittoria di Galilei, con un più che significativo “Vicisti, Galilaee!”), ne riprende la vecchia indicazione di coniugare geometria platonica e Santissima Trinità cattolico-imperiale e lo arruola contro la nuova scienza, contro Newton e contro lo stesso Kant.

Il ‘Napoleone’ della ’nuova’ filosofia tedesca e della ’nuova’ monarchia prussiana si prepara alla grande galoppata con la sua sostanza-soggetto. Nel vero-intero della sua “Fenomenologia dello Spirito” e della sua “Scienza della Logica” dell’Assoluto non solo la “libertà dei pianeti” ma anche e soprattutto la libertà degli uomini sarà ‘messa a posto’. Chi scrive e parla ora non è più un uomo (e un sovrano) che parla e scrive ad altri esseri umani (e sovrani), ma è la stessa Anima del mondo: Dio si è riconciliato con il mondo, con se stesso, e ora parla “da solo a solo”. Come già il giovane Holderlin, Hegel si avvia a diventare il teorico ateo-devoto del nuovo Cristo - dell’Uomo supremo, alla Emanuel Swedenborg!

Nella “Prefazione”, “L’Autore” della “Storia universale della natura e teoria del cielo” dimostra come la “dedica” non sia una retorica esagerazione e quale sia il senso del suo omaggio a Federico II. Consapevole e signore di sé, egli mostra con determinazione e con lucidità non solo di essere fuori dalla stato di minorità e di sapersi servire della propria intelligenza, ma anche di sapersi collocare coraggiosamente fuori dal mondo e di saperlo ‘ricreare’, senza cadere nel delirio né dal lato del materialismo (“che pone il mondo a caso”) né dal lato dell’idealismo (che pone il mondo agli ordini dei miracoli di Dio).

Se la si analizza con attenzione, la “Prefazione” è un vero e proprio “discorso sul metodo”, su come procedere coraggiosamente sulla strada del sapere (“Sapere aude!”). Egli, infatti, presenta il suo lavoro con una modalità già tutta sua e tuttavia carica di risonanze galileiane (del Galileo del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”) e mostra con brillantezza come si possa - procedendo con l’analisi delle ragioni di opposti paradigmi (in questo caso, del meccanicismo con il suo acritico fideismo materialistico e ateistico e del finalismo idealistico con il suo acritico fideismo devoto nel “disegno divino”) - andare avanti (come anche da indicazione baconiana: “plus ultra”) sulla strada della rivoluzione copernicana e, al contempo, dare “una accoglienza favorevole” alla sua ipotesi “sulla costituzione e sull’origine meccanica dell’intero universo secondo i principi newtoniani”, sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista filosofico e teologico.

Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare - con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e - cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, “Introduzione”, a: I. Kant, Storia universale ..., cit., p. 12). Per Kant, la situazione è pericolosissima - sia sul piano teologico (e politico) sia sul piano scientifico!

E così, ora, “L’Autore” riprende la parola e si rivolge a chi lo legge (e lo ascolta). Questo l’inizio: “Mi sono posto un compito che, sia per le sue difficoltà interne, sia per quel che concerne la religione, potrebbe suscitare fin dall’inizio un pregiudizio sfavorevole in gran parte dei lettori. Scoprire il sistema che tiene unite le grandi membra del creato, derivare dallo stato primordiale della natura la formazione degli stessi corpi celesti e l’origine dei loro movimenti avvalendosi delle sole leggi meccaniche è impresa che sembra superare di gran lunga le possibilità della ragione umana. La religione, d’altra parte, muove una grave accusa alla temerarietà di chi osa ascrivere alla natura abbandonata a se stessa simili effetti, in cui scorge, a ragione, l’immediata presenza della mano dell’Essere supremo, e teme di trovare nell’audacia di tali riflessioni un’apologia dell’ateismo”.

E continua, rassicurando, precisando e incoraggiando: “Sono ben cosciente di queste difficoltà, ma non mi scoraggio. Sento tutta la forza degli ostacoli che mi si oppongono, ma non desisto. Sulla base di una modesta congettura ho intrapreso un viaggio molto rischioso e già scorgo i promontori di nuove terre. coloro che avranno il coraggio di proseguire nella ricerca ne calcheranno il suolo e proveranno il piacere di dare a esse un nome”.

E chiarisce ancora relativamente al suo stile, al suo modo di procedere scientifico, e alle sue convinzioni religiose (al di là del timore della censura):
- “Non ho definito il piano di quest’impresa, se non dopo essermi posto al sicuro rispetto ai doveri imposti dalla religione. Il mio zelo si è raddoppiato quando, a ogni nuovo passo, vedevo diradarsi le nebbie tenebrose che sembravano nascondere dei mostri e, al loro dileguarsi, emergere la maestà dell’Essere supremo nel suo più vivo splendore. Poiché ora so bene che queste mie fatiche non meritano alcun rimprovero, voglio esporre lealmente tutto ciò che qualcuno, in buona fede o anche per debolezza d’animo, potrebbe trovare scandaloso nei miei piani e sono pronto a sottoporlo al rigore dell’Areopago ortodosso [l’autorità della chiesa luterana di Prussia] con la schiettezza propria di chi ha un modo di pensare onesto” (cfr. I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, Bulzoni Editore, Roma 2009, pp. 39-40).

Kant non ha alcun dubbio sulla strada intrapresa e già fatta (una cifra che ricorre in tutte le sue opere fino alla fine): “(...) è proprio la concordanza che riscontro tra il mio sistema e la religione a innalzare serenamente le mie convinzioni al di sopra di tutte le difficoltà”.

Egli ne è più che certo: la sua linea teorica ha radici saldissime nella tradizione già di Galilei, di quella tradizione critica europea, che sa ben coniugare la lezione socratica (“so di non sapere” e “unicamente sapiente è Dio”) con la libertà e la sovranità evangelica (del figlio di Dio, Cristo, che è come Dio ma che sa e insegna che “solo Dio è buono”).

Al contrario, la convinzione di Kant (come già di Galilei), infatti, è che “i difensori della religione non fanno buon uso delle loro ragioni e, anzi, perpetuano la polemica con i naturalisti, porgendo loro il fianco senza necessità” (op.cit., p. 40); e, poco oltre, insiste e avverte: “Se qualche benintenzionato, per salvare la buona causa della religione”, vuol mettere in discussione la capacità “delle leggi universali della natura, finirà per porsi in imbarazzo da sé e con la propria maldestra difesa fornirà al miscredente l’occasione per trionfare” (op. cit., p. 41).

E invita a riflettere e a non aver paura della sua ipotesi sull’origine meccanica dell’intero universo: “ La materia che si va determinando in virtù delle proprie leggi universali o, se si vuole, secondo una meccanica cieca, produce effetti e condizioni così vantaggiose, che sembrano rivelare il progetto di una mente superiore. [...] Questi effetti non si producono per caso o per coincidenza, dato che con altrettanta facilità potrebbero risultare nocivi, vediamo invece che le loro leggi naturali li costringono ad agire in questo e in nessun altro modo. Come considerare allora tale armonia? Come è possibile che elementi di diversa natura, venendo in contatto tra loro riescano a produrre concordanze e bellezze così perfette - persino a vantaggio di esseri come gli uomini e gli animali, situati in certo qual modo fuori dall’ambito della materia inerte - se non in quanto essi sono riconducibili a una origine comune, ossia a un Intelletto infinito, nel quale furono concepite le proprietà essenziali di tutte le cose?” (op. cit., pp. 42-43).

A chi gli può dire che difendere il suo sistema “significa difendere a un tempo anche le idee di Epicuro, con le quali esso presenta molte affinità”, Kant pazientemente spiega: non voglio contestare il fatto “che le teorie di Lucrezio, o dei predecessori di Epicuro, Leucippo e Democrito presentino molte somiglianze con le mie” (op. cit., p. 44), ma finora - precisa e puntualizza - “è rimasta nell’ombra una differenza essenziale tra la presente cosmogonia e quella antica, una differenza che permette di trarre conseguenze opposte”.

E, continuando, così chiarisce: “Le dottrine appena menzionate, concernenti la generazione meccanica dell’universo, attribuivano l’origine di tutto l’ordine che vi si può percepire al puro caso, al quale era dovuto un incontro di atomi così felice da dar vita a un tutto ben ordinato. Epicuro, poi, fu talmente audace che pretese persino che gli atomi deviassero dal loro movimento rettilineo senza alcuna causa determinata, ma solo per incontrarsi tra loro. Tutti gli altri, portando quest’assurdità alle estreme conseguenze, sono arrivati ad attribuire a questo incontro cieco l’origine di ogni creatura vivente, facendo così derivare la ragione dalla non-ragione”.

Al contrario, nella mia concezione - prosegue Kant - “la materia è sottoposta a determinate leggi necessarie. Dal suo stato di totale dissoluzione e dispersione, io vedo svilupparsi un tutto bello e ordinato, e ciò in modo interamente naturale. E tutto questo non avviene per caso o fortuitamente, ma necessariamente, in virtù di proprietà naturali della materia. In tal modo, non siamo forse indotti a chiederci perché la materia debba esser sottoposta proprio a quelle leggi, che hanno per fine un ordine così vantaggioso? È mai possibile che tante cose, ciascuna delle quali presenta una natura autonoma rispetto alle altre, si siano disposte da sé proprio in questo modo, che ha dato vita a un tutto ben ordinato? E se così accade, non è questa una prova irrefutabile della loro comune origine prima, che altro non può essere se non un supremo Intelletto onnipotente, in cui la natura propria a ogni cosa è stata concepita secondo un intento unitario?” (op. cit., 45).

Come si può vedere da questi brevi cenni, in questo suo avanzare problematico e dialogico (di una soggettività che non mira a nessuna astuta idealistica o materialistica sintesi dialettica!), Kant si mostra uomo maturo e sovrano: e da cosmologo parla ai teologi e da teologo agli scienziati e ai filosofi. Ai teologi mostra l’epocale importanza del lavoro di Newton (le leggi universali della materia e “il cielo stellato” vanno insieme!)) e fa capire chiaramente quanto “umana, troppo umana” sia la concezione del loro “disegno divino” e del loro “Dio”.

A questi, infatti, “L’Autore” dice: “Si è soliti rilevare e ammirare nella natura l’armonia, la bellezza, i fini e la perfetta rispondenza a essi dei mezzi. Tuttavia, mentre da un lato si esalta così la natura, dall’altro si cerca nuovamente di svilirla. Quest’ordine magnifico, si dice, le è estraneo (...) La sua armonia rivela invece l’intervento di una mano estranea che con un saggio disegno ha saputo sottomettere dall’esterno una materia priva di qualsiasi regolarità. Ma a ciò - prosegue Kant - rispondo che se anche le leggi universali della materia sono conseguenza di un disegno divino, esse evidentemente non possono avere altra destinazione che quella di concorrere a completare il piano che la somma sapienza si è proposto, e se così non fosse, non cadremmo forse nella tentazione di credere che almeno la materia e le sue leggi universali siano indipendenti e che la potenza saggissima, la quale ha saputo fare di esse un uso tanto glorioso, sia certamente grande ma non infinita, certamente potente ma non del tutto sufficiente?” (op. cit., pp. 40-41).

Agli scienziati e ai filosofi illustra quanto sia importante andare oltre Newton, liberare il sistema del mondo da quell’ingombrante macigno che è l’ipotesi demiurgica newtoniana, avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza e uscire dallo stato di minorità (il “Sapere aude” e “la legge morale” vanno insieme!): “Pur ammesso, si dirà, che Dio abbia dotato le forze della natura di un’arte segreta, che ha consentito a esse di sviluppare autonomamente, a partire dal caos, un ordinamento perfetto dell’universo, è mai possibile che l’intelletto umano così debole di fronte agli oggetti più comuni, sia capace di sondare le proprietà nascoste di un piano tanto vasto? Tentare un’impresa del genere equivarrebbe a dire: Datemi soltanto della materia e io vi costruirò un mondo”.

E spiega che la direzione del suo lavoro è quella più promettente, “quella che permette di risalire alle origini nel modo più facile e sicuro; e afferma che, “fra tutte le cose della natura di cui si ricerca la causa prima, quanto si può sperare di comprendere a fondo e con pieno affidamento è proprio l’origine dell’universo, la formazione dei corpi celesti e le cause dei movimenti” (op. cit., 47).

Così procedendo, Kant si porta non solo “oltre Cartesio e ben oltre il prudente Newton” (cfr. Giacomo Scarpelli, op. cit., p. 13) ma anche - in compagnia di Leibniz e dei suoi “principi della natura e della grazia” (1714) - ben oltre le illusioni dei deliranti apologeti (sia materialisti sia idealisti) della società chiusa dell’”uomo supremo”. Da uomo e filosofo, il “cinese di Koenigsbeg” - come Nietzsche lo definisce, alludendo evidentemente all’affinità con Leibniz - non era e non “rimase un fisico anche come metafisico critico” (come pensa Karl Lowith, proprio a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel suo “Dio uomo e modo da Cartesio a Nietzsche", sulla falsariga dei suoi amici idealisti e heideggeriani)!

Kant, al contrario, sapeva benissimo - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, bisogna scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (come scrive Dante), per accedere alla sovranità di sé, alla conoscenza dell’“uomo”, e alla conoscenza del “mondo” e di “Dio”! Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg: “Solo un dio ci può salvare”!

Federico La Sala (01.10.2010)

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