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www.ildialogo.org Il Vangelo, i cristiani e i conflitti sociali,di Aldo Bergamaschi

Il Vangelo, i cristiani e i conflitti sociali

di Aldo Bergamaschi

Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia che sul far del giorno uscì di casa a fissare l’opre… dopo aver concordato a un danaro la giornata, mandò gli uomini nella vigna… Presentatisi quelli della undicesima ora, ricevettero ciascuno un danaro. Quando fu la volta dei primi, questi pensavano di riscuotere di più; ma ricevettero anch’essi un danaro.”

(Matteo 20,1-16)

“O questo Padre è ingiusto o è tutta sbagliata la nostra economia. Un cristiano che si sforza costantemente di appianare, giustificandoli, i dissidi esistenti fra le scelte sociali e il Vangelo, anziché sforzarsi di adeguare le scelte sociali al Vangelo, è un facchino, mal retribuito, a servizio dell’ingiustizia.

Non esiste una interpretazione “tradizionale” della parabola dei lavoratori della vigna. Essa, infatti, non si presta a facili catture terrenistiche e sconvolge perfino il radicalismo dei più arditi pionieri della uguaglianza. Quello che fa paura non è tanto il dislivello, qualora iniziasse da un piano di sicurezza sociale, quanto il dislivello che inizia da una insufficienza a vivere en homme e termina con un tetto molte volte più volte sufficiente a vivere.

Tutte le parabole offendono il buon senso di molte persone; questa parabola irrita il sistema nervoso di tutti coloro che presumono di essere persone di buon senso.

Esiste un dislivello fra natura e cultura. Natura è il dato, Cultura la lettura del dato. Natura è, ad esempio la spiga del frumento, cultura il pane. Natura è l’homo homini lupus, cultura é la legge che disciplina la convivenza. Sono questi i due iter che ci presenta la storia, a meno che l’intervento del logos sulla natura non sia tale da correggerla in qualche punto specifico.

Se lo Stato vuole preservarsi dalla più grave malattia che è quella discordia permanente di cui la rivolta è un capitolo latente e ricorrente, deve guardarsi "da una troppa dura miseria di una parte dei suoi cittadini, come dall'eccessiva ricchezza". Il Legislatore (e cioè la ragione) deve porre un limite sia all‘una che all'altra. Platone quantifica senza equivoci, per uscire dal circolo vizioso delle belle parole: "Chi più ha deve dare a chi meno ha", ammesso che questo sia il livello massimo di giustizia raggiungibile nei “gruppi umani” guidati dalla “religione”.

Ecco come la “ragione” secondo Platone, deve accomodare le cose mediante le leggi. Le leggi devono essere fatte dal Parlamento, ma anche questi e fatto di parti sociali. Come si fa a dare lavoro a tutti quando il capitale disponibile è tutto divorato dalla classe dirigente?

Platone stimola la nostra ragione; non propone la rivoluzione leniniana, ma vi suggerisce il modo per evitarla. Occorre riportare gli estremi del reddito al numero quattro, ossia "il Legislatore permetterà che la fortuna del più ricco sia raddoppiata, triplicata e anche quadruplicata rispetto a quella del più povero, ma non di più”. Questo è il socialismo liberale di Platone, diversamente il Parlamento potrà emettere qualche “leggina” per dare lavoro "utile" ai giovani, ma si aggiungerà un altro misero scalino alla gia troppo squilibrata piramide salariale.

Prima sfrondate le vostre buste paga e le portatele al livello indicato da Platone, poi potrete, per legge, colpire la meritocrazia e il capitale privato impazziti. La proposta è inoppugnabile a lume di ragione.

Nasce allora una domanda maliziosa: tutti quei denari che superano il limite del numero quattro, previsto da Platone, dove e come sono spesi dai singoli? Risposta: quei denari sono spesi per i bisogni cosiddetti "astratti" i quali, a giudizio di Schopenauer, sono pressoché infiniti. E questi bisogni sono considerati, da chi li mette in essere, legittimi e leciti; anche perché non c'è uomo che non ne coltivi almeno una decina nel proprio cervello. O l’uomo si da delle leggi e le osserva o non sarà diverso dalle fiere più selvagge.

Ed eccoci alla prima cosa “difficile": "comprendere che un'arte politica che sia veramente tale, non deve badare agli interessi privati ma a quelli di tutta la comunità. L'interesse comune, infatti, è ciò che lega internamente gli Stati, quello privato invece li lacera". Difficile da capire che deve essere in buone condizioni ciò che è di interesse comune, piuttosto che ciò che è di interesse privato.

Nella concezione cristiana del lavoro non ci si deve sottoporre al tirocinio o alla fatica per arrivare a strappare l’ultimo premio di quell’albero della cuccagna che è la tabella delle retribuzioni con tutti suoi “ricami”; ma per sviluppare i talenti ricevuti da Dio mettendoli al servizio del prossimo, nella comunità umana.

Dopo 2000 anni di cristianesimo non siamo riusciti a superare la “legge” di Platone, siamo sempre infantilmente alla ricerca dell’uomo della Provvidenza..

Aldo Bergamaschi



Luned́ 11 Giugno,2012 Ore: 16:03
 
 
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