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www.ildialogo.org Fukushima e Libia: cogliere il momento,di Enrico Peyretti

Fukushima e Libia: cogliere il momento

di Enrico Peyretti

Epoche
Con Fukushima possiamo arrivare alla fine dell'era nucleare, con la guerra di Libia alla fine dell'era della guerra. Potremmo ottenere l'una e l'altra uscita, se entrassimo nell'era della consapevolezza dei limiti, della scienza dell'ignoto imprevedibile (che aumenta col sapere), e se arrivassimo a imparare che la guerra, uccisione decriminalizzata e giustificata con la politica, è proprio l'antipolitica.
La guerra non è un fenomeno naturale, non è un destino, non è la violenza personale di Caino, ma una istituzione umana con una precisa origine storica individuata dai paleoantropologi, e quindi possiamo proporci di superarla e abbandonarla nella storia. Con tutto l'apparato strutturale e culturale che la costituisce e la promuove, non è fisiologia della vicenda umana, ma autonegazione dell'umanità.
Questa guerra di Libia
Sulla guerra di Libia, insieme ad una quantità di voci indignate, angosciate, impegnate, ascolto anche considerazioni realistiche, giustificatrici, che sono serie, ma pongono comunque angosciosi interrogativi, se non ci manca sensibilità umana.
Secondo tali considerazioni, in casi come questo, più che problemi di principio sono in gioco strategie concrete: come quando di fronte ad un sequestro si discute se intervenire con blitz della polizia o adottare altre strategie. Secondo queste opinioni, la discussione non può portare a delegittimare a priori l’uso della forza.
Invece, mi pare di dover osservare che i problemi di principio sono centrali anche in un tale caso: per frustrare il sequestro la polizia non può semplicemente mettere in conto molti morti (in qualche caso in cui è avvenuto, l'ingiustizia è evidente), ma deve cercare di salvare il massimo di vite umane. E' dunque questo principio, collocato nelle concrete circostanze e possibilità, che regola le strategie.
Polizia e guerra
Inoltre, c'è una differenza (spesso volutamente occultata) tra forza e violenza, quindi tra polizia e guerra. Sono differenti i fini e i mezzi: la polizia deve contenere e ridurre la violenza, la guerra deve accrescere la violenza per poter essere efficace, cioè per vincere. La polizia ha armi leggere come minaccia per il caso estremo, la guerra usa armamenti sempre insaziabilmente più distruttivi. Abbiamo visto e rivisto che l'uso moderato di tali armi è o illusione o ipocrisia. Lo strumento domina la mano. E spesso anche la mente. 
Possibile che non si sappiano costruire strumenti di polizia, anche forte ma non distruttiva fisicamente e simbolicamente in estensione indefinita, come è sempre ogni guerra (anche questa)?
In realtà, sono gli stati nella loro pretesa "sovranità" (superiorem non recognoscens) che non vogliono attrezzare una polizia della comunità dei popoli. Così, non hanno mai attuato l'art. 47 dello Statuto, e le operazioni di peacekeeping sono rimaste prerogativa di potenze o di coalizioni, che rappresentano le fazioni forti e non la comunità e il diritto dei popoli.
L'Onu, per suo Statuto, può usare la forza ma non può autorizzare alcuna "guerra", essendo istituita proprio per "salvare le future generazioni da questo flagello" (prologo dello Statuto).
Bisogna capire i limiti della realtà, delle contingenze strette del momento, la logica dell'urgenza (dopo tanto ritardo!), dello stato di necessità nel soccorrere le vittime, della riduzione del danno, ma non si vede alcuna cultura politica - salvo la nonviolenza positiva e attiva, solitamente relegata tra le utopie impossibili, a torto perché ha notevoli esperienze storiche - che si impegni nella ricerca istituzionale di un controllo dell'ordine mondiale con metodi di polizia civile, senza l'offesa e la distruttività della guerra. E' vero tuttavia che la nonviolenza deve sviluppare le azioni di disobbedienza civile alla politica bellica, come seppe fare, per esempio, con l'obiezione di coscienza all'obbligo militare.
La guerra continua ad accendersi perché gli stati la accettano, la preparano, la commerciano e persino la celebrano come unico mezzo nei conflitti acuti, perché si ritengono insubordinati all'umanità, unica legittima sovrana nel decidere il destino comune, indivisibile. Inoltre, la diffusione e l'evoluzione degli armamenti ha determinato il fenomeno della "guerra privata", di bande e cellule, più o meno ideologizzate (vediamo anche il ritorno dei pirati), che riportano la guerra alla fase precedente il monopolio statale.
Il passo
Il passo che la cultura politica deve fare (e che è prospettato e cercato solo nelle culture alternative) sarebbe abbandonare la divisione, consacrata da Carl Schmitt, dentro-fuori, amico-nemico, che, mentre identifica gli stati, fonda il mortale diritto di guerra ancora da essi preteso ed esercitato, e perciò divide e strazia il corpo unico dell'umanità.
Certamente, per quanto largamente imperfetta, l’ONU è da tenere preziosa perché è l’unico abbozzo di istituzione che superi la concezione che demanda ai singoli stati l’uso della forza, che in realtà è violenza, perché esercitata senza limite superiore. Questa è la guerra che l’art. 11 della nostra  Costituzione "ripudia": così la Repubblica italiana si è impegnata al divorzio tra stato e guerra, e nessuna responsabilità internazionale le permette di partecipare a coalizioni di guerra.
L'Onu è questo abbozzo, e il pensiero universalista della pace nonviolenta ne rappresenta lo sviluppo.
Alternative
In una situazione di violenta ingiustizia (motivo addotto per questo intervento in Libia) l’alternativa all’azione di guerra, che usa armamenti aggressivi e distruttivi, non è certo l'assistere impotenti allo strapotere di un dittatore.
 Chi giustifica, anche con amarezza, questa guerra, ritiene che non avessero concreta praticabilità le alternative: forte insistente e tempestiva iniziativa diplomatica, pressioni economiche, fino alla “invasione” di personale civile preparato alla solidarietà con la popolazione e alla mediazione tra le parti.
In ogni caso, è da giudicare severamente la politica internazionale, e quella italiana in specie, perché hanno a lungo, fino ad oggi, per bassi interessi, aiutato, onorato e abbondantemente armato quel dittatore a cui ora fanno la guerra, dei cui crimini si sono fatte preventive collaboratrici. E perché non hanno capito per tempo che ci sono e si possono creare mezzi politici e civili, se si vuole agire in modo positivo sulle crisi: per esempio costruendo progressivamente una comunità economica e culturale del Mediterraneo, fino a Israele e Palestina, che ingloberebbe poteri e conflitti locali in un sistema di maggiore respiro e scambio, favorevole alla naturale e non imposta diffusione dei metodi democratici, come è avvenuto in Europa, e come dimostrano le istanze migliori di queste rivoluzioni arabe; per esempio istituendo o riconoscendo i "corpi civili di pace" che oggi si costituiscono spontaneamente e agiscono in zone di conflitto (dalla Palestina, alla Colombia, Guatemala, Kosovo, ecc., operano le Peace Brigades International, l'italiana Operazione Colomba, generose iniziative che la politica ufficiale ignora). Questo si deve cercare, se non si vuole affidare la "giustizia" alla cecità omicida delle armi, che sempre colpiscono, nel presente e nel futuro, i civili più dei dittatori, gli oppressi più degli oppressori.
Oggi l'uranio impoverito per lo più usato nelle bombe avvelena i corpi e il terreno seminando cancro negli anni venturi (già previsti 6.000 casi in Libia dallo scienziato Massimo Zucchetti). Sono morti anche soldati italiani che hanno maneggiato questa roba.
Primo: reagire
E' ovvio che l'alternativa alla guerra non è mai l'inerzia. L'inerzia colpevole di ieri non giustificherebbe l’inerzia di oggi. La tradizione della nonviolenza obbliga anzitutto a non-rassegnarsi alla violenza. Chi conosce Gandhi sa che egli vede, in casi estremi, persino il "dovere di uccidere". Subire violenza (altra cosa è patirla con forza) è collaborazione passiva. E' meglio reagire con violenza che subire, e così deve fare chi non conosce e non crede nel potere umano nonviolento. Ma può imparare che la lotta nonviolenta è più efficace e non solo più giusta. Primo: reagire. Secondo: scegliere la lotta nonviolenta invece che violenta. La violenza a volte (non sempre) vince, ma non "funziona" mai. La nonviolenza non sempre vince, ma "funziona" sempre, ha sempre un'efficacia profonda per il futuro.
Ora, il giudizio politico e morale deve essere severo, quando la politica, che pretende il potere di guida e di decisioni per la collettività, non solo non è preveggente, ma costruisce oggi i danni di domani, che poi presumerà di poter giustificare con lo stato di necessità.
La tracotanza
Il problema nucleare e quello della guerra sono accomunati dalla "ubris" (tracotanza, pre-potenza) umana, eretta a cultura diffusa e progetto di vita, esaltata nelle persone poste al potere, a scapito della ragionevolezza. Il mito pericoloso e alienante di questa decadenza della modernità, è la super-potenza, l'ideologia folle del "sempre più". E' lo sviluppo instabile in altezza, come la torre di Babele, invece che in orizzontale e in avanti, nella giustizia distributiva e riparativa, nell'attuazione dei diritti umani universali, nella responsabilità verso i posteri.
Il tempo attuale mostra, a chi vuol vedere, che la super-potenza è super-debolezza, perché scatena effetti fuori controllo. La sapienza antica e futura è fare senza strafare, è la cultura del limite nel nostro pianeta limitato, come limitati siamo tutti noi. Condanniamo le dittature, ma esercitiamo dittatura sulla realtà.
Decidere senza uccidere
La politica è l'arte sociale di porre atti di vita e togliere atti di morte, di prevenire con la parola, la ragione, la trattativa, e anche l'immaginazione creativa, il pericolo o la scintilla di violenza tra gli umani, o contro la natura di cui viviamo.
La forza morale e la forza della semplice verità fattuale possono, prima della costrizione fisica, ricondurre alla convivenza sufficiente chi sta per violarla. Così Gesù fermò i violenti della morale assolutista, pronti a lapidare l'adultera, col semplice forte vero richiamo alla condizione comune di peccatori: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra" (Vangelo di Giovanni 8). Questa verità disarma, conduce al riconoscimento. Gesù che salva l'adultera è un modello massimo, ma non è affatto l'unico nell'esperienza quotidiana. Perché non potrebbe diventare esperienza sociale e politica?
La democrazia è il diritto di tutti di partecipare (anche a rischio di eleggere un autocrate), è contare le teste invece di tagliarle (che è già molto), ma proprio per questo è decidere senza uccidere, né dentro un confine statale né fuori. O la democrazia diventa globale, planetaria, come i diritti umani, oppure non vive davvero. O si emancipa dal disumanizzare il nemico e legittimarne l'uccisione - atto finale di ogni esercito - oppure regredisce a forma vuota.
La politica deve attingere all'essenziale dell'umano per essere giusta. Può farlo, deve farlo. Ci volessero anche secoli, è ciò che vogliamo fare.
Enrico Peyretti, 21 marzo 2011


Marted́ 29 Marzo,2011 Ore: 16:51
 
 
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