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www.ildialogo.org Mille passi o uno solo, ma nella direzione giusta. Si chiude il cantiere Cipax sui beni comuni,da Adista Documenti n. 22 del 09/06/2012

Mille passi o uno solo, ma nella direzione giusta. Si chiude il cantiere Cipax sui beni comuni

da Adista Documenti n. 22 del 09/06/2012

DOC-2444. ROMA-ADISTA. Si è concluso con una riflessione del filosofo Roberto Mancini, docente di filosofia teoretica all'Università di Macerata, il Cantiere 2011-2012 del Cipax dedicato al tema dei beni comuni come «via alla pace giusta», primo e decisivo punto all’ordine del giorno dinanzi ad una crisi globale a cui ci si illude di far fronte anche attraverso la privatizzazione di ogni servizio pubblico. Un tema affrontato nel corso dei diversi incontri del Cantiere secondo una prospettiva di volta in volta religiosa, economica, etica, giuridica e formativa, o anche nell’aspetto più concreto della gestione, dal punto di vista più specificamente teologico della destinazione universale dei beni e, infine - nell’ultimo incontro del 10 maggio scorso, sempre nella sede della Comunità di San Paolo - nei suoi risvolti filosofici, che Mancini ha sviluppato a partire da una convinzione di fondo: l’assunzione di responsabilità in rapporto ai beni comuni comporta il risveglio dall’irrealtà imposta dal male, inteso come costruzione di un ordine rovesciato della realtà. Una costruzione che, a seconda delle epoche, può chiamarsi religione, politica, Stato, impero, ma che oggi va individuata nel “mercato globale”, quel «gigantesco videogioco delle borse e del denaro» a cui ci siamo assuefatti, accettando passivamente il mito che lo costituisce, quello della competizione come fondamento della coesione sociale. È contro quest’ordine rovesciato che, sottolinea Mancini, Gesù di Nazareth indicava alle persone «la bontà della realtà», conducendole al di fuori della coltre di illusioni, di deliri, di angosce in cui si dibattevano: la realtà, cioè, della loro fraternità, «la realtà della presenza di Dio, invisibile eppure sperimentabile all’interno delle relazioni d’amore». Così, contro l’irrealtà del mito capitalista dell’essere umano competitivo “per natura”, la prospettiva dei beni comuni richiede il ritorno a quella realtà il cui fondamento, afferma Mancini, va individuato nell’infinita comunità dei viventi, anche al di là del confine della vita visibile («perché non ci sono due vite - spiega -, ce n'è una sola), una comunità «che noi non possiamo spezzare con le nostre identità particolari, fossero anche identità cristiane».

Di seguito ampi stralci dell’intervento di Roberto Mancini, tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore. (claudia fanti)

RITORNO ALLA REALTÀ

di Roberto Mancini

Sono grato per questa possibilità di riflessione, che in fondo è un po' come un’esperienza di preghiera. Pregare, per me, significa ritornare al cuore della realtà, riconoscendo che una via d'uscita esiste, che il negativo che si vuole fronteggiare non è onnipotente. L’economia, le borse, le guerre possiedono certo una grande forza, ma diventano veramente potenti solo quando mettono radici nella rassegnazione dei popoli.

Io credo che il grande messaggio che le generazioni adulte sono chiamate a trasmettere a quelle nuove sia proprio che la realtà si può cambiare. È vero che esistono vittime, sofferenze, fatiche, iniquità, ma questo non vuol dire che siamo autorizzati a rassegnarci: ci è richiesto, al contrario, uno sforzo di lucidità. E mi pare che questo sforzo riguardi soprattutto il tema dei beni comuni, che vuol dire uscire dalla logica dell'utile privato per collocarsi, con più o meno consapevolezza, in un altro orizzonte, abbracciando una prospettiva di vita che abbia al centro il bene, questa parola così screditata. (…).

Assumere l'ottica dei beni comuni vuol dire allora, prima di tutto, recuperare il senso della realtà. Perché è così importante la parola “realtà”? Perché il male non è un'anomalia, non è un'eccezione, ma è la costruzione di un ordine rovesciato della realtà che vuole sostituire a questa la sua irrealtà. Lo spiega benissimo Martin Buber nel suo libro Immagini del bene e del male. Elsa Morante e Hanna Arendt parlavano anch’esse di irrealtà.

ASSUEFATTI ALL’IRREALTÀ

Per gli economisti dominanti - 9 professori di economia delle nostre università su 10 (il decimo è stato isolato) - non ha alcun senso pensare a un'alternativa alla dittatura delle borse, delle agenzie di rating, degli scambi commerciali, perché non esiste per loro altra realtà che il mercato. Ci siamo così assuefatti all’irrealtà, quella del gigantesco videogioco delle borse e del denaro. La realtà, però, è costituita dalle persone, dalle piante, dagli animali, dalla terra, dal cielo… Questa è la realtà. E, quando si ritorna alla realtà, si spezza la coltre di astrazione che ci copre e si ritrovano le persone, si ritrova se stessi.

È possibile recuperare il senso della realtà riconoscendo che la realtà non è neutra, non è ambigua, ha dentro di sé una sorta di vocazione. Pensiamo a come i Vangeli raccontano della predicazione di Gesù di Nazareth: senza effetti speciali, senza grandi discorsi, eppure con un richiamo continuo alla realtà rivolto alle persone che erano perse nell'irrealtà.

In alcune epoche l’irrealtà si chiama religione, in altre politica, partito, Stato, impero. Nel nostro tempo si chiama “mercato globale”. A seconda delle epoche, insomma, esistono sistemi organizzativi della società che si prestano meglio a veicolare le dinamiche del male. Sono quelli in cui la potenza dell'automatismo è più forte, quelli che spezzano la relazione tra le persone - l’attuale modello ci dice per l’appunto che il fondamento della coesione sociale è la competizione -, quei sistemi che generano irresponsabilità, perdita della realtà (Marx parlerebbe di alienazione).

Gesù di Nazareth indicava invece alle persone la realtà, cercando di accompagnarle al di fuori della coltre di illusioni, di deliri, di angosce, affinché ritornassero ad ascoltare la realtà: la realtà della loro fraternità, la realtà della presenza di Dio, invisibile eppure sperimentabile all’interno delle relazioni d’amore. Gesù richiamava la bontà della realtà.

LA COMUNITÀ DEI VIVENTI, FONDAMENTO DELLA REALTÀ

In questo percorso, il primo dei beni comuni è la vita. Ma non quella intesa in senso biologico o in senso moralistico come fanno le autorità ecclesiastiche quando dicono: “Ah, l'eutanasia!”, “Ah, Eluana!”, “ah, l'embrione!”, “ah, la difesa della vita!”. Una vita sterilizzata tutelata al pre-inizio della vita biologica e al confine con la morte, in mezzo mai. In mezzo - la disoccupazione, le guerre, la discriminazione, la persecuzione degli omosessuali, ecc. – si può fare tutto. È solo nel pre-inizio e alla fine che la vita diventa sacra.

Intendiamo per vita la comunità dei viventi – anche al di là del confine della vita visibile, perché non ci sono due vite, ce n'è una sola, una su un versante visibile e una su un versante invisibile -, un'infinita comunità che noi non possiamo spezzare con le nostre identità particolari, fossero anche identità cristiane. Entrare nella prospettiva del bene comune vuol dire recuperare l'ottica di questa infinita comunità dei viventi, imparando a guardare diversamente non solo i nostri simili, ma anche gli animali e le piante. Secondo l'antica saggezza cinese, l'essere umano è quel mediatore che deve celebrare il matrimonio tra la terra e il cielo. Che è un modo poetico di cogliere il senso di questa infinita comunità.

Questo primo bene comune che è la comunità a cui tutti apparteniamo è il fondamento di quella che chiamiamo realtà. È risvegliarsi a ciò che Aldo Capitini chiamava la “compresenza dei morti e dei viventi”. O forse “degli scomparsi e dei viventi”, perché in questa prospettiva la morte non è la destinazione della vita.

IL BENE, UN’ESPERIENZA CONCRETA

Ma io non posso evocare i beni comuni o pensare di agire per tutelarli se non recupero anche una coscienza della mia esperienza del bene, al singolare. Eccola allora questa parola poco credibile. Tutte le culture distinguono tra il bene e il male. A questa distinzione noi non possiamo rinunciare, dobbiamo solo sorvegliarci quotidianamente per non cadere in due errori>

Il primo errore è il fanatismo, il fondamentalismo, cioè l’identificarsi con il bene. L'essere umano non è il bene, l'essere umano è relazione con il bene, che lo si chiami Dio, vita, o anche, se si è allergici a prospettive metafisiche, “la catena di atti d'amore delle generazioni precedenti”. A me basta che ci si metta d'accordo sul fatto che il bene esiste: ogni volta che noi compiamo un atto di bene, vuol dire che lo abbiamo ricevuto da una fonte, da una forza superiore. Qui sta la vera differenza: una persona sradicata da questa fonte può essere sbattuta di qua e di là, mentre una persona che ha la capacità di aderire a questa fonte può esprimere la sua umanità anche contro il regime più aggressivo. Il primo errore è quindi quello di identificarsi con il bene, traducendo l'alternativa reale, concreta, tra bene e male in quella tra buoni e cattivi. (…). Sappiamo che il confine è labile e che nessuno mai è la personificazione del male. C'è un appunto di Kafka nei Diari in cui si legge: «Perché ci fosse il male, ci volle il serpente». L'uomo da solo non bastava, non poteva essere lui a impersonare il male. (…).

Il secondo errore è quello di relativizzare completamente tali riferimenti, come fossero pura retorica, come se del bene non fosse possibile parlare. Invece è importante imparare a discernere in tutte le situazioni, coltivando il bene, aiutandolo a nascere, e cogliendo il male concreto, per evitare di collaborare, magari in perfetta buona fede, con un sistema iniquo. Del resto, basta constatare gli effetti concreti del male: la sofferenza, la menzogna, la dispersione, l’incapacità di collaborare, la disperazione… Come si fa a non vederli?

Il bene, dunque, non è un concetto teorico. In fondo, nonostante l'ambivalenza delle culture, c'è in esse un filo conduttore di sapienza che ci dice: 1) il bene esiste e bisogna distinguerlo dal male; non c'è tra i due una differenza quantitativa, sono proprio radicalmente eterogenei; 2) il bene non è un concetto ma un'esperienza concreta nelle relazioni con gli altri.

Non esiste un bene privatizzabile. In fondo, l'espressione “beni comuni” è ridondante. È chiaro che sono comuni, intendendo con ciò “condivisi”: non si può mai stabilire una proprietà privata sul bene. Laddove ci fosse un frammento di esperienza di bene già lì esisterebbe la sua condivisione. È come il pane: è necessario spezzarlo, non è possibile tenerlo intero.

UN SISTEMA PATOLOGICO

L'importante è allora coltivare e rendere visibili quelle esperienze di relazione col bene che possono liberare le persone da quel sigillo tipico dell'esperienza del male che è la disperazione. Disperazione vuol dire: tu non solo subisci una negatività, ma non credi più che ci sia un'alternativa. Il tuo orizzonte è completamente chiuso. E gli esseri umani, quando sono ridotti alla disperazione, sono pronti a credere alla falsità che si esiste per sopravvivere. Ecco, un sistema che riduce gli uomini e le donne a competere per sopravvivere è un sistema patologico. Proprio come questa società di mercato. Attenzione al genitivo, è un genitivo letterale: la società il cui proprietario è il mercato.

Ciò vuol dire che dobbiamo stare attenti non solo alla crisi, ma alle risposte nei confronti della crisi. Come mai il mercato, che per sua natura dovrebbe essere libero, è irriformabile? Avete mai sentito un governante parlare di riforma del mercato in quanto tale? Mai, è una bestemmia. Si ha il pudore di non citare la “mano invisibile”, ma la concezione è ancora quella in base a cui il mercato produrrà crescita e grazie alla crescita tutti potranno in qualche modo riemergere.

L'unica riforma del mercato che viene invece addirittura enfatizzata, come condizione senza la quale non ci potrà essere crescita, è quella del mercato del lavoro. Il che vuole dire che ai giochi di questo mercato non è possibile porre alcun freno, ma bisogna invece introdurre un sistema di regole sulla tutela del lavoro, e per ridurla, non per assicurarla, in modo che il gioco del capitale sia il più libero possibile. In altre parole, è l'umanità che deve adattarsi sempre più alla logica del mercato. Quella è la realtà e la realtà non si tocca.

Appare chiaro che, in prospettiva, una risposta adeguata alla crisi non è tanto una risposta tecnica, di orientamento di politica economica da parte di questo o quel governo, quanto una risposta giuridica. Il mercato, cioè, dovrà essere riportato all’interno di un quadro di regole internazionali che i governi saranno obbligati ad accettare. (…).

Dal momento che il meccanismo non discende dagli dei, non viene da Marte, ma deriva pur sempre dalle nostre scelte, se noi arrivassimo a un consenso politico per un regolamento complessivo su scala internazionale - non solo nazionale o dell’Unione europea - di questo grande meccanismo globale, la potenza negativa del mercato avrebbe fine.

Non a caso, quando il mercato vuole radicalizzare la sua logica, la prima cosa che fa è quella di cambiare le regole. Il mercato ha bisogno del supporto del diritto, per sancire per esempio l'abolizione dell'articolo 18. E questo è un punto di debolezza del sistema, perché quella leva è possibile rovesciarla, è possibile usarla in tutt'altra direzione. Solo che oggi si sente solo parlare di rigore, di crescita, di equità.

Il rigore sappiamo tutti cosa vuol dire. Quanto alla crescita, si usa la stessa parola per indicare cose diverse. Per la gente comune, crescita vuol dire trovare lavoro, potersi sposare, accendere un mutuo per comprare casa. Ma per gli economisti, gli speculatori e i governi la crescita è un'altra cosa: vuol dire non solo l'aumento almeno al 3% annuo della produttività di manufatti, ma anche la possibilità di incrementare la riproduzione dei capitali.

Infine l’equità, non a caso al terzo posto. Se, una volta realizzato il rigore e dato input alla crescita secondo i dogmi degli economisti ortodossi, avanza una briciola, allora si pensa all'equità. Ma l'equità, come metodo del governare democratico, doveva essere al primo posto: il criterio e il metodo perché il rigore sia secondo equità e perché sia l'equità a crescere, non il Pil.

L’ESSERE UMANO, COMPETITIVO PER NATURA?

L’altra risposta che richiede il capitalismo è una risposta spirituale, intendendo per spiritualità la relazionalità profonda della vita, l'esperienza della fonte, del senso che in qualche modo assumiamo e sul quale ci orientiamo.

Immaginate il capitalismo come una struttura a tre livelli. Un livello di superficie: le banche, le borse, le aziende, le imprese, quella che noi chiamiamo l'economia. Un livello centrale che è dato dall’aspetto culturale, da una mentalità che fa presa sulla vita quotidiana delle persone. Un livello più profondo che è quello del mito. E questo spiega come non bastino a delegittimarlo tutti i disastri concreti evidenti che provoca, i suoi immensi guasti sociali, a cominciare dal fatto che 40-50.000 persone muoiono di fame ogni giorno.

Secondo Draghi, il modello sociale europeo è ormai superato. Ma cos'era il modello sociale europeo? Era l'idea del farsi carico delle esigenze della vita umana, in modo che il singolo non venisse lasciato solo, l'idea che ci fosse una comunità sociale solidale con i singoli, in maniera che non venissero abbandonati nella giungla. Affermare che questo modello è superato vuol dire proprio esasperare la logica che considera l'umanità semplicemente come un esubero. (…).

Il capitalismo è il mito dell'uomo competitivo per natura. Quando si dice “per natura” in relazione all’essere umano, non bisogna mai crederci, perché basta fare la verifica su se stessi, sulla propria straordinaria complessità. Chi dice che la natura umana è cattiva - homo homini lupus - sta solo isolando e assolutizzando un elemento. Non è un'analisi onesta. Questo è il mito del capitalismo: che ognuno sta solo sulla terra, che deve combattere per sopravvivere, che, se vuole sopravvivere, deve sconfiggere gli altri. (…). Perché tutto è scarso: il tempo, l'amore, i beni. E, se i beni sono scarsi, non possono essere comuni, ma devono essere conquistati da coloro che hanno più capacità competitiva. In realtà, la scarsità, in buona parte, non è della terra, bensì è prodotta da un sistema iniquo di utilizzazione e ripartizione delle risorse: è una scarsità politica, non una scarsità reale. Secondo il mito, invece, le risorse sono scarse, gli esseri umani sono cattivi e bisogna quindi lottare per vivere. E la gente si adatta a questo meccanismo, neppure sfiorata dall'idea che esista un’altra possibilità.

La ripresa della via dei beni comuni è complessa e delicata. E non basta dire “abbiamo vinto il referendum sull'acqua”. Si fa presto, soprattutto in un Paese come l'Italia, a cancellare i risultati di un referendum. L'alternativa tra politica e antipolitica è falsa. Il punto non è questo, ma è quello di riaprire in maniera organica una via di alternativa.

AL CENTRO, L’INTEGRITÀ DELLA PERSONA

(…). Se si abbandona la presunzione europea e ci si confronta con le altre sapienze antropologiche, si scopre una ricchezza che suscita da un lato la consapevolezza della propria ignoranza e dall'altro il senso della bellezza dei percorsi umani di autocoscienza. Non si tratta di lasciare la propria identità per entrare in quella dell'altro, ma di aprire la propria identità, facendola risalire all’universalità della condizione umana e trovando, nel dialogo tra le diverse sapienze antropologiche, il dato comune che esse presentano. Non parlo di “dialogo tra culture”, perché “cultura” è un termine ambiguo. Pensiamo solo a quanto maschilismo sia presente nelle diverse culture del mondo. Il dialogo tra le culture non va idealizzato, perché anch’esse, come direbbe Ernesto Balducci, hanno bisogno di conversione, come le religioni. Le culture hanno lati di luce e lati di ombra. Sicuramente c’è, in tutte, la centralità dell'integrità della persona. Integrità vuol dire che, se si è scissi, se il proprio cuore è da una parte e la propria mente dall’altra, non si è se stessi. Bisogna affrontare questa unificazione, che, nelle diverse sapienze, viene identificata a tre livelli.

Il primo livello è quello dell'armonizzazione di tutti i nuclei di soggettività presenti nella persona: cuore, ragione, coscienza, corpo. Il secondo è quello interiore della lotta tra il bene e il male, ma dentro di noi, non contro un altro dipinto come cattivo. (…). Il terzo, sottolineato da alcune culture, come ad esempio quella shintoista giapponese, è dato dall'unità con i morti, quella che Capitini chiama la “compresenza”: abbiamo più cura della vita quando impariamo che la vita non finisce, che le persone scomparse restano in dialogo con noi. Questa è una cosa a cui nessuno crede, e che invece assicura una capacità di partecipazione alla vita del mondo liberata dall’angoscia di morte. Tutto ciò viene espresso dalle sapienze del mondo con la parola “adesione”. Vuol dire che non possiamo realizzare il bene se non aderiamo a una fonte di bene che diventa la nostra energia. Non a caso tutte le culture parlano di un'energia cosmica, divina, a cui attingere. (…). Per i cristiani, si tratta di aderire a quel modo di amare che si è rivelato in Gesù di Nazareth, cioè all’amore di Dio. Attingere a quel modo di amare ci trasforma.

In alcune culture, più che nella nostra, si riconosce che questa presenza positiva è già presente dentro di noi e non dobbiamo andare a cercarla chissà dove: bisogna solo riscoprire la propria capacità di ospitare questa forza, la propria capacità di adesione a questa fonte di bene. È questo il primo elemento del ritorno alla realtà.

Il secondo elemento è la ricostruzione di una nuova comunità umana, senza poter contare contare su modelli del passato: non possiamo guardare alla cristianità medievale, al socialismo reale, alla teocrazia o a chissà che. Dobbiamo guardare in avanti. E in questo percorso è importante anche l'inedita convergenza di antichissime sapienze e il loro rinnovarsi. Quello che tutte le culture chiamano “condivisione”. Il bene, cioè, è intrinsecamente comune, cioè condiviso, non privatizzabile. Condivisione vuol dire imparare a ricevere: se veramente impari a ricevere non potrai che liberamente ricomunicare. Se ricevi e trattieni, vuol dire che sprechi quello che hai ricevuto. La parabola evangelica dei talenti non rappresenta l'elogio dell'istituzione bancaria, di chi fa fruttare il talento, ma significa che quello che hai ricevuto lo ricevi veramente se lasci scorrere questa corrente di bene in modo che, attraverso di te, raggiunga gli altri. (…).

Il terzo elemento è quello dell’armonizzazione. Noi siamo relazione. La parola “relazione” esprime la fragilità, l'imperfezione, la distanza. Pensiamo alla relazione tra persone: presuppone la distanza, non comporta una fusione. Gli psicologi dicono che la simbiosi, la fusione, è patologica: non è che due mezze persone ne fanno una, bisogna proprio che siano due persone distinte. (…). Allora, nella relazione con se stessi, con gli altri, con la società, con la natura - e, per chi è credente, con Dio - si ha la responsabilità di condurla ad una forma armonica. Nella vita interiore, l’armonizzazione è la lotta di cui parlavamo prima contro le tendenze distruttive, nella vita sociale è l'impegno per la giustizia.

A proposito di giustizia, vorrei citare il filosofo statunitense John Rawls, il quale ha un'intuizione geniale, in contraddizione con quella parola del lessico della competizione che è “meritocrazia”: il merito come giusta causa per abbandonare l'altro che non ha meritato qualcosa. Secondo Rawls, la giustizia non è distribuire meriti e colpe, premi e sanzioni. Questi riferimenti restano, naturalmente, altrimenti arriveremmo a non distinguere, per esempio, tra il carnefice e la vittima. Ma devono essere relativizzati. La giustizia vera, cioè, non guarda soltanto e innanzitutto le prestazioni, merito e colpa, ma guarda alle persone. Non è cieca nel senso che non guarda in faccia a nessuno, ma vede così tanto da aver riguardo per ciascuno. È la giustizia secondo la dignità. Quindi, per Rawls, la giustizia non è retribuzione, ma equità. Ed equità vuol dire riconoscere 1) la dignità di ogni essere umano, 2) la dignità del legame tra le persone nella comunità umana, 3) il modo di organizzare la politica, l'economia, la società in modo che nessuno sia escluso dal rispetto di questa dignità. E allora Rawls, fedele alla sua intuizione, afferma che l'equità è il metodo politico di costruzione della società. Dove la politica non è la ricerca del potere per schiacciare gli altri, ma l'arte di costruire la convivenza per cui nessuno sia escluso. (…).

UNA VIA D’USCITA ESISTE

Quello che è possibile fare può essere riassunto in due punti principali.

Primo punto: riconoscere l'unità di questa comunità umana e guardarci dal pericolo della frammentazione, dei narcisismi, delle divisioni identitarie. Qual è l'elemento unificante? (…). L’adesione plurale, da diverse identità, da diverse esperienze, senza chiedere il passaporto a nessuno. Come quando Ernesto Balducci diceva: “se mi chiamate per promuovere il dialogo tra le religioni non mi chiamate in quanto cristiano, perché io non sono che un essere umano”. L'elemento unificante è allora proprio l'adesione al metodo, il metodo dell’equità. (…). Un metodo che assicura concretezza, che garantisce fecondità, che punta all'essenziale. Quante volte ci siamo persi nell’inessenziale, dividendoci su aspetti che non costituivano il problema di fondo, sia nel mondo ecclesiale che in quello politico.

Secondo punto: recuperare, proprio nell’ambito di quella filosofia che diventa prassi, che diventa movimento di liberazione, quel bene comune che è l'alleanza tra le generazioni. Non credo che il mondo lo cambieranno quelli dell'età mia, perché sono quelli che o l'hanno costruito così o l’hanno subito così, quelli che credono nel mercato, che siano convinti, in questa sorta di stoltezza allucinata, o rassegnati, perché non vedono un'alternativa. E non credo che il mondo lo cambieranno i giovani da soli. È sufficiente recarsi nelle scuole per capire quanto siano dispersi, scoraggiati, cinici. In realtà non è che siano proprio cinici: basta scavare un po' per scoprire in loro una capacità di credere, di aderire, di condividere, di armonizzare ancora intatta. Ma, lasciati soli, i giovani non cambieranno il mondo, perché si disperdono e sono costretti a sopravvivere. Noi, ti dicono, i progetti e gli ideali non sappiamo cosa sono, perché viviamo alla giornata. E si difendono dal futuro perché per loro il futuro è il nome di una sofferenza angosciosa. I giovani non vanno lasciati soli. Occorrono luoghi, dinamiche vitali, zone franche in cui gli adulti e i giovani si incontrino. E gli adulti devono fare solo una cosa: attestare che una via d'uscita esiste, che la vita ha senso e che vale la pena appassionarsi. E soprattutto devono credere in loro, perché un giovane che cresce ha bisogno di un adulto che creda in lui e che, nel credere in lui, creda nella felicità, cioè in una vita trasfigurata. La felicità non è il privilegio, non è nemmeno l'assenza di sofferenze, non vuol dire che va tutto bene. La felicità, volendo ridurla ad una parola, è il senso, è una vita sensata, in cui il bene che si può sperimentare lo si condivide con gli altri. Allora gli adulti dovrebbero cominciare a far respirare alle nuove generazioni qualcosa che assomiglia alla felicità, non per dire che va tutto bene, ma per riconoscere che questa felicità è una passione, l'energia per cambiare il mondo. E dovrebbero smettere di prefigurare la felicità, nel migliore dei casi, come una meta: di spostarla indietro nell'età dell’oro dell’infanzia, rendendola così irrecuperabile, oppure in un futuro talmente remoto da perdere la capacità di credere che esista. E che serve credere in Dio, se non si crede nella felicità? La felicità non è tanto una meta, è un’esperienza. Quando vogliamo veramente bene a qualcuno - e tutti viviamo questa esperienza - siamo già felici perché quella persona esiste. Questa è l’esperienza della felicità. Ma se ci sono persone che amo, come faccio a non voler cambiare nemmeno una virgola di questo mondo che le offenderà, che le mortificherà, che le condurrà alla disperazione?

Allora la responsabilità politica che ci viene chiesta è la stessa responsabilità che ci assumiamo per le persone a cui vogliamo bene. Lì c’è il cuore, lì c’è la chiave sia della felicità che della responsabilità.

Se si assume questa prospettiva, si passa allora dall'ordine della rappresentazione a quello della responsabilità. L'ordine della rappresentazione è quello in cui si sta seduti a vedere il telegiornale riempiendosi d’angoscia e pensando di non poter far niente. Oltretutto, noi non muoviamo un dito se non siamo garantiti sul finale. Ma la Bibbia delegittima sempre quelli che vogliono prevedere il futuro. Del resto, non è che siamo diventati madri e padri quando sapevamo farlo, è il figlio che ci ha insegnato a diventare genitori. Così funziona la vita e per questo è meravigliosa.

Passare dalla rappresentazione alla responsabilità significa iniziare a muoversi, ad associarsi, a cercare di attuare il metodo dell'equità. E a quel punto non importa se si può fare mille passi o cento o uno: quel che posso fare lo scoprirò man mano, l’importante è che lo faccia nella direzione giusta e lo faccia insieme agli altri.

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Mercoledì 06 Giugno,2012 Ore: 15:35
 
 
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