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www.ildialogo.org SAPERE CONCRETARE L’UTOPIA,di Raffaello Saffioti

IN MARCIA CON DANILO DOLCI VERSO UN MONDO NUOVO
SAPERE CONCRETARE L’UTOPIA

di Raffaello Saffioti

Appelli, Marce, Manifesti e movimenti di protesta oggi non mancano, ma sembrano insufficienti a produrre i cambiamenti necessari di fronte alle sfide del nostro tempo, dal livello locale a quello globale.

Perché? Questa domanda è necessaria per la ricerca e per l’azione.

La domanda è sollecitata dal programma della Marcia “per un mondo nuovo”(Menfi - Palermo 11-16 aprile / Trappeto 17 aprile 2011). La Marcia ricorda la storica marcia detta “della protesta e della speranza” del 1967 “Per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo”, guidata da Danilo Dolci e Lorenzo Barbera.

Ma richiama anche l’opera di Dolci Verso un mondo nuovo, pubblicata da Einaudi nel 1964 e in una nuova edizione nel 1965.

Forse è opportuno proporre qualche stralcio del capitolo conclusivo:

“Eccolo chiaramente il mondo vecchio: quello che non aveva riconosciuto la sua sostanziale unità.

E’ avvenuto un salto nelle conoscenze, nelle tecniche, in certe condizioni fondamentali. Questa è la buona novella che possiamo portare al mondo: le premesse, le condizioni per realizzare il mondo nuovo ci sono già ora, in ogni punto. Il mondo nuovo è in ritardo. Qualcuno l’ha intravisto, ma popolazioni intere non se ne sono accorte. Si è guardato e non si è visto, non si sono afferrati certi significati di fondo e le implicazioni possibili, necessarie. Oggi la nostra vita ha nuovi presupposti culturali, tecnici, morali. Rifiutarli è rodersi, sprecarsi, suicidarsi.

(…)

Parti del mondo nuovo sono già vive, e altre se ne stanno attuando giorno per giorno: bisogna che si riconoscano, incontrino, colleghino, espandano, rinforzino; che i gruppi autoportanti, i gruppi di gruppi diventino il mondo nuovo. Sarà difficile, ma nessuno pensi che è impossibile.

(…)

Problema fondamentale da risolvere è mettere in moto le possibilità creative degli individui, dei gruppi,delle zone, dei popoli; mettere in moto l’esperienza della creatività complessa. La gente deve essere in grado di credere alle proprie possibilità creative, deve sapere al più presto come si crea insieme.

E’ chiaro che occorre un salto nella natura degli uomini. Al cittadino del nuovo mondo occorre un salto qualitativo. Come possiamo produrlo? Ciascuno cresce in quanto diventa un centro innamorato, centro motore, centro di responsabilità. Questo è lo sforzo che dovremmo fare, dal basso, lievitando, e contemporaneamente creando le condizioni strutturali per cui il salto sia favorito. Anche qui l’elicoide: l’uomo nuovo fa il mondo nuovo, il mondo nuovo fa l’uomo nuovo.

La coscienza creativa, la coscienza della nostra appartenenza ai gruppi ed ai gruppi di gruppi, le tecniche dei diversi rapporti dovranno essere possedute dagli uomini di un mondo nuovo come il linguaggio e la scrittura: sono cioè fondamentalmente strumenti di comunicazione-partecipazione. E più importanti: perché, rispetto linguaggio e scrittura, sono ancora più modi di essere che strumenti per essere, scienza-arte prima” (Danilo Dolci, Verso un mondo nuovo, Einaudi, 1965, pp. 269-70).

Sono trascorsi 44 anni dalla Marcia del 1967 e il mondo è profondamente cambiato.

Dalla Marcia del 1967 alla Marcia del 2011

Cosa direbbe oggi Danilo Dolci?

Cosa direbbe oggi Danilo Dolci?

I trent’anni che vanno dall’anno della Marcia, il 1967, al 1997, anno della morte di Dolci, segnano il processo evolutivo del suo pensiero e della sua opera. Per conoscere Dolci e sottrarlo al pericolo della mitizzazione, è necessario leggere e studiare le opere pubblicate in quei trent’anni. L’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita rimane quella meno studiata, forse perché più difficile e complessa. Bisogna conoscerla e difenderla dalle interpretazioni fuorvianti di presunti “eredi” e “discepoli”.

L’opera Comunicare, legge della vita (La Nuova Italia, 1997) può essere letta e considerata come il suo “testamento spirituale”, elaborato nell’ultimo decennio della sua vita.

“La breve e inusuale ‘prolusione’ che egli ha letto a Bologna il 13 maggio” del 1996 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione potrebbe essere considerata come integrazione del suo testamento spirituale (“Scuola e Città”, n. 9, 30 settembre 1996).

Il grido di allarme di un profeta

Diagnosi di “uno stato confusionale”

In quell’opera e in quel discorso c’è la diagnosi acuta dello “stato confusionale proprio in senso medico” sofferto allora come oggi dall’umanità.

Leggiamo in Comunicare, legge della vita:

Non dobbiamo temere la diagnosi”

“Una malattia ci intossica e impedisce: la vita del mondo è affetta dal virus del dominio, pericolosamente soffre di rapporti sbagliati.

Non un nuovo Golia occorre denunciare, né estranei nemici ma, nei più diversi ambiti, ripensare e rifondare il modo e la qualità dei nostri rapporti, di ogni genere di rapporto.

Talmente abituati siamo a questa malattia, che ci è arduo concepire la salute. Sappiamo quale mondo vogliamo?

L’antico virus va tramando strategie inedite. Una frode sottile ma vasta degenera il mondo, acuta, sistematica, mentre il rapporto esclusivamente unidirezionale nel tempo tende a passivizzare l’altro, gli altri, e a divenire violento. Ove le bombe non bastano, l’inoculazione, la trasmissione propagandistica vengono più e più camuffate da comunicazione.

Malgrado puntuali denunce, finora inadeguate, questa strategia (condotta da persone, gruppi, Stati) subdolamente tende a strumentalizzare la gente, rendendola indifesa e acquiescente. Il bambino, il giovane, il passante nella strada difficilmente può difendersi dalla ingegneria del consenso finché non sa che esiste, e come ordisce, sostenuta da apparati e investimenti smisurati.

I maggiormente pericolosi predatori e parassiti umani perlopiù ragnano legalmente e nell’oscuro. Sovente l’usurpatore e i suoi strumenti vengono esaltati e incentivati dagli stessi oppressi. Insano è frodare, ma anche lasciarsi parassitare, divenendo complici. L’adeguarsi all’ordine del dominio implica la responsabilità del dominatore che quella di chi si lascia dominare.

(…) Molti strumenti del dominio sfuggono al controllo democratico, sfuggono alla coscienza popolare.

(…) Arduo è liberarsi dall’inganno che diviene norma. Chi non medita, non pensa liberamente, non distingue tra l’ipnotizzante trasmettere e il comunicare.

(…) L’uso della televisione, soprattutto da parte dei piccoli, rischia – se eccessivo, indiscriminato, avulso dalla capacità di guardare e sentire criticamente – di espropriare ognuno di sé e di inquinare” (pp. 15, 17-8, 20).

Nel discorso all’Università di Bologna leggiamo:

“Come è possibile diagnosticare uno ‘stato confusionale’? Osservando in quale modo ci si comporta, e in quale ci si esprime. Guardando l’agire, i fatti, quando emerge una difficoltà come si comportano le persone sane? Cercando di identificare il problema (che significa originariamente proposta), per poterlo risolvere. Come invece si comporta il neurotico (persona, gruppo o popolo)? Si scaglia contro la difficoltà – pur se rappresentata da persone, gruppi, popoli – per eliminarla, talora distruggendosi. La guerra è un fenomeno neurotico”(“Scuola e Città”, cit., pp. 407-8).

Stato confusionale ci significa deperimento pure biologico fino al rischio dell’autodistruzione” sono le ultime parole di quel discorso. Oggi, forse, siamo in grado di capire meglio il senso di quelle parole, quanto fosse giustificato quel grido di allarme. Era il grido di allarme di un profeta.

La manomissione delle parole

Nella “Premessa” a Comunicare, legge della vita, si legge:

“Questo libro (nato da conversazioni con amici preoccupati dello stato confusionale del mondo: particolarmente Noam Chomsky, Paulo Freire, Mario Luzi e Jurgen Habermas) prova umilmente ad ampliare nelle diverse lingue-culture una complessa chiarificazione indispensabile a rianimare la crescita della vita nel nostro pianeta.

(…) Non soltanto resistere all’inquinamento, anche culturale, mentale, che continuamente ci minaccia, è un grave problema: ma riuscire a disinquinarci da quanto inavvertitamente già ci ha penetrati” (pp. IX-X).

Segue una “Anatomia lessicale-concettuale”.

Leggiamo:

“Il vocabolario è anche uno specchio: per valorizzarlo, ad esprimersi e intendere, occorre imparare a scegliere. Quale il senso delle nostre parole? Che ci significano?

(…) Parole in sé pure, sono state storicamente sfruttate e tradite …

(…) La parola assume il senso suo interpretando il mondo, nel tentativo di esprimere una visione della vita. Vi è un maturare dei significati e un involversi.

(…) In questo percorso linguistico non possiamo pure osservare la verbalizzazione del decorso di una perversione? di una psicopatologia? Il dominio deforma a poco a poco al proprio uso il concepire, succhia il valore alle parole vive.

(…) In questa prospettiva occorre riconoscere che deformare concezioni-parole-entità vitali come comunicare, interesse, potere, struttura, valore, economia, educazione, e così via, è espressione di macrovirosi causata dall’uomo a livello biosferico. Anche la lingua, abilmente manipolata, può divenire occasione di penetrazione virale, strumento di dominio: <<la comunicazione è advertising, promotion, trade marketing>>. Fino a Little Boy, la bomba che vetrifica e polverizza Hiroshima. Fino al sottomarino atomico <<Corpus Christi>>.

(…) Ricordiamo Silone, in Vino e pane: <<In nessun secolo la parola è stata così pervertita, come ora lo è, dal suo scopo naturale, che è quello di far comunicare gli uomini>>.

Se vado su un terreno che frana, su una slavina, rischio di franare: per intendere e prevedere un evento in un ambiente, occorre conoscere la struttura delle essenziali relazioni di quell’ambiente. Così, per interpretare – e interagire opportunamente con – un messaggio, occorre riconoscere la profonda struttura espressa dalle parole chiave di quel messaggio, di quella lingua. Peggio della moneta falsa è la parola falsa: soprattutto se usata per insegnarla. Infamando la lingua, infamiamo noi e la terra” (pp. 3, 5, 10, 11).

Dobbiamo rassegnarci al suicidio?”

Rispondere ad un appello

Il dovere di quelli che vogliono raccogliere l’eredità del pensiero e dell’opera di Dolci, di quelli che vogliono continuare la sua opera, di quelli che si considerano suoi amici, è rispondere alla domanda della “Bozza di Manifesto” in Comunicare, legge della vita: “Dobbiamo rassegnarci al suicidio?”.

Bisogna rispondere all’appello rivolto “a chi più avverte l’immensa portata di questa problematica per la vita del mondo, a tutti coloro cui non sfuggono gli intimi nessi tra la valorizzazione delle intime risorse inesplorate, e la pace – o tra sfruttamento e violenza -, soprattutto a chi nei più diversi contesti esercita una pur varia funzione educativa.

Per scoprire ed esprimere i dirompenti segreti del comunicare occorre che germinino ovunque i suoi laboratori, consolidandosi in comuni fronti” (pp. 41, 42).

Nell’ultima parte della “Bozza di Manifesto” è rivolto l’invito a ciascuno, tra l’altro, dovunque possibile, a:

  • promuovere, soprattutto con i giovani, iniziative in cui ognuno possa esprimersi (…) per riconoscere i propri bisogni concreti …

  • organizzare seminari e corsi affinché si formino, in ogni ambito e a ogni livello, esperti di come possiamo crescere in gruppi che favoriscano la creatività personale e collettiva …

  • trovare i modi per sperimentare, in ogni ambiente e a ogni livello, quali metodologie possano risultare più efficaci affinché ognuno si interroghi: fino a qual punto siamo impediti a costruire civiche strutture comunicanti …

  • … suscitare iniziative specifiche, processi di ricerca-azione-riflessione …” (pp. 43-4).

Alla fine del discorso all’Università di Bologna, Dolci disse:

“Per il mondo, essenziale nel futuro sarà come valorizzare ognuno attraverso maieutiche strutture a diversi livelli, riguardando dalle evolutive prospettive della scienza della complessità. Essenziale problema è riuscire a concepire strutture maieutiche di reciproca valorizzazione in cui tutti, i più semplici e i più tecnici, possano apprendere a comunicare e a organizzarsi” (“Scuola e Città”, cit., p. 408).

“L’inaudita complessità dei problemi in un mondo che si dibatte tra la morte ed una nuova vita, richiede analisi e intuizioni approfondite per le quali ognuno può arrecare il suo apporto personale” (Comunicare, legge della vita, cit., p. 41)

E’ l’opera svolta da Dolci in tutta la sua vita.

Sapere concretare l’utopia”

“Sapere concretare l’utopia chiede, col denunciare, un annunciare capace di lottare e costruire frontiere che valorizzino ognuno: l’educazione è rivoluzionaria se si matura valorizzatrice, dunque maieutica”.

Queste parole leggiamo nell’ultima pagina de La struttura maieutica e l’evolverci (La Nuova Italia, 1996), che è una delle ultime opere di Dolci, pubblicata nel 1996.

Quanto è diffusa la consapevolezza della diagnosi e della proposta avanzata dall’ultimo Dolci, soprattutto tra quanti si richiamano al suo pensiero e alla sua opera?

Palmi, 11 aprile 2011

Raffaello Saffioti

rsaffi@libero.it



Lunedě 11 Aprile,2011 Ore: 15:55
 
 
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