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21 marzo 2011 - S. Benedetto - Anno XIX - n. 370


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 21 marzo 2011 - S. Benedetto - Anno XIX - n. 370
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Mariella Canaletti
§ Guardo, come tutti, con fiato sospeso il Nord Africa, dove è in corso una rivoluzione straordinaria: un mare di giovani «si desta, solleva la testa», e trascina intere popolazioni a ribellarsi al potere assoluto di decenni. Trepidiamo, e speriamo con loro, anche se gli esiti sono incerti, mentre in Libia si sta facendo ricorso a inquietanti bombardamenti internazionali per eliminare il tiranno fino a ieri osannato e finanziato dal nostro governo.
§ Con grande dolore e rispetto ammiriamo il coraggio di un paese lontano sconvolto da un terremoto che sta dimostrando come sia sempre illusoria la sicurezza delle centrali nucleari e incalcolabili i danni possibili. Con la solidarietà scopriamo la paura: nulla ci è estraneo, ed è richiesta una riflessione globale che ci coglie impreparati, e ci invita a non rifugiarci nel nostro falsamente protetto orticello. E speriamo che la riflessione sulle centrali nucleari di casa nostra non sia solo un rinvio postelettorale.
§ Eventi di casa nostra, non paragonabili, ma ricchi di significato per cittadini. 
          8 marzo, festa della donna: da tempo non vedevamo festeggiata questa data con tanto entusiasmo; il grido che rivendica dignità, parità, libertà, sorellanza, ha consapevolezza delle infinite nostre potenzialità ancora da scoprire. In ogni età.
          1861-2011: 150 da conoscere, da analizzare e capire; da far rivivere nei suoi tanti lati positivi e combattere in quelli negativi. Risuona l’inno di Mameli, che cantano i nostri atleti, che ci appare finalmente nostro nella magia di illustri direttori di orchestra. In molti abbiamo fatto festa, esposto le bandiere, cantato una adesione piena di entusiasmo.
          Abbiamo festeggiato anche il C-day, che spinge a rimeditare la nostra Costituzione, così preziosa nel suo compromesso alto, e volutamente ignorata o perfino additata come ostacolo alla nuova politica. E proprio con la Costituzione alla mano scopriamo due clamorosi imbrogli.
          La riforma della giustizia, di cui possiamo trascurare il risibile attributo epocale, non è quello che dice di essere. È un intervento finalizzato a neutralizzare l’indipendenza della magistratura e ridare possibilità di intervento alla politica, svuotando così in buona parte il potere dello Stato che ha il compito di rendere la legge uguale per tutti, mentre le riforme davvero utili al cittadino sono ignorate. È una riforma della Costituzione che richiederà tempi lunghissimi: ben vengano, per questa volta. Ma tanta propaganda non servirà a coprire l’interessato limite drastico alle intercettazioni, o le prescrizioni mascherate da processo breve?
          Il federalismo, grande conquista della Lega, è già ampiamente previsto dalla Costituzione come autonomia degli Enti locali: è un imbroglio nella realtà, e anche lessicale, perché si federano entità autonome già esistenti per avere unità di indirizzo: l’ignoranza copre la buona fede o l’inganno?
in questo numero                             
E. Giribaldi TRA MOSTRI GIURIDICI E MIGNOTTOCRAZIA uG. Chiaffarino GRAZIE, LEGA - GRAZIE, PRESIDENTE u GIORGIO NAPOLITANO AL PARLAMENTO uG. Chiaffarino VERSO UN DRAMMATICO EPILOGO u U. Basso UNA SANTIFICAZIONE DISCUTIBILE u S. Fazi RESPONSABILITÀ DI UN MATRIMONIO  usottovento g.c.u A MARGINE DELLA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI u Il Gallo da leggere u.b. u segni di speranza s.f. u schede per leggere m.c. u la cartella dei pretesti


TRA MOSTRI GIURIDICI E MIGNOTTOCRAZIA
Emilio Giribaldi
La nostra situazione è sempre più grave e sempre meno seria.
Si legge, senza apparente meraviglia, su quotidiani di regime o cerchiobottisti che esisterebbe un complotto generalizzato, o persecuzione giudiziaria, dei pubblici ministeri, dalle Alpi al Lilibeo e concordata con la sinistra comunista, per far cadere questo governo che tanto ha meritato della Patria (c’è persino una sorta di avallo nelle parole di illustri, si fa per dire, rappresentanti della gerarchia cattolica miranti al sodo). Non si scoppia a ridere, anzi si approva o si accetta, quando il premier anziché difendersi come qualunque altro cittadino minaccia di ricorrere, con querele e cause civili, contro i magistrati che facendo il loro mestiere si permettono di accusarlo, con tanto di prove, di concussione e di agevolazione della prostituzione minorile.
Interrompendo l’elenco per necessità di spazio e per stanchezza, si nota come altrettanta attitudine digestiva dimostrino molti cittadini quando l’egoarca e i suoi valletti rispolverano e impongono alle Camere, per l’ennesima volta, progetti di modifica dell’articolo 41 della Costituzione (per dare anche legalmente mano libera ad avventurieri e speculatori), di restrizioni drastiche in materia di intercettazioni (in modo da favorire corruttori, corrotti, concussori e mafiosi) e di amnistia permanente per mezzo dell’ormai famigerato processo breve.
Si tratta di un vero e proprio mostro giuridico sconosciuto agli ordinamenti civili d’Europa e di altrove: anziché studiare seriamente i veri mali della giustizia, che sono tanti, e i possibili rimedi, ci si propone di fissare un termine temporale scaduto il quale si cancella non solo il processo ma anche i reati. Sarebbe come dire che, trascorso un determinato periodo di tempo, un malato grave dovesse essere comunque privato delle cure necessarie e lasciato morire! È pressoché superfluo precisare che si tratta in tutti i casi, e anche in altri di cui si omette l’elenco, della solita legislazione ad personam (cioè nell’esclusivo interesse di chi la propone o la minaccia a titolo di ritorsione o vuole sottrarsi alla comune soggezione al Diritto).
Eppure, non si vede ancora la fine di tutto ciò, anzi. È di poche settimane fa l’inizio dell’offensiva violenta e becera contro gli azionisti e gli intellettuali scic guidata da un grasso ex militante di estrema sinistra passato dall’altra parte per evidenti motivi economico-finanziari, offensiva che ha come unico scopo l’assoluzione popolare, anzi l’elogio, della mignottocrazia.
A me che, per ragioni di anagrafe, posso ricordare il periodo del regime fascista vissuto di persona nell’infanzia e nell’adolescenza, viene da ripensare a quel che, giunto all’età della ragione, ero riuscito finalmente a capire: il Duce della conquista dell’effimero impero africano di cartapesta, della atroce e lacerante guerra civile spagnola e dell’intervento nella seconda guerra mondiale che secondo gli strateghi sarebbe finita entro pochi giorni o pochi mesi con la strepitosa vittoria delle potenze dell’Asse, è stato almeno sino al 1940 l’idolo delle folle italiche. I pochi antifascisti o anche prudenti critici non finiti in galera o al confino erano considerati dalla moltitudine anche non ignorante poco più che degli originali o dei bastian contrari: per aprire gli occhi a costoro ci vollero le sconfitte, i bombardamenti delle città, le centinaia di migliaia di morti, la fame, l’occupazione tedesca, le brigate nere e tutto il resto.
Oggi per fortuna non siamo a tanto; ma la mentalità, le aspettative, la situazione psicologica di tanti cittadini sono assolutamente simili. Ed è in corso un evidente golpe neppure tanto occulto contro, magistrati a parte, la RAI, la stampa, le istituzioni ancora indipendenti, l’amministrazione. Il che induce purtroppo a continuare nel pessimismo.
 

Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.

GRAZIE, LEGA – GRAZIE, PRESIDENTE
Giorgio Chiaffarino
La storia, per molti, comincia quando un tale ebbe a dichiarare che il tricolore era da mettere nel cesso! È vero, dopo un certo torpore in proposito, quel momento è stata una scossa: il tricolore era importante e ce lo eravamo dimenticato. Lentamente una buona influenza ha cominciato a farsi strada. Raccogliendo consensi sempre maggiori, sempre di più fino all'oggi. In una fase di grande squallore civile, quando guardandoci tra noi non riusciamo a capire quale possa essere il bandolo per una ripresa, quando fuori dei confini facciamo fatica a dichiararci italiani per dissociarci da questo sistema perverso: grazie, Presidente, per la lezione civile, e politica, che colpisce la nostra riflessione, ma ci riempie anche il cuore. Da tempo Giorgio Napolitano è in testa a tutte le graduatorie del consenso e dell'affidabilità degli italiani.
Penoso il tentativo di recupero di chi non ha capito dove andava a parare questa bella brezza che minaccia, lo speriamo, di diventare un forte vento. È curioso che oggi, ricordando le feste di un'altra Unità, e da un comunista, nasca, fortemente voluto, questo grande momento di festa per il 150° anniversario dell'Unità del Paese…
È anche un'occasione di gioia e così lasciamo volentieri al suo «senso di nausea» l'anonimo redattore de il Giornale del 19 marzo 2011.

GIORGIO NAPOLITANO AL PARLAMENTO IL 17 MARZO 2011
La memoria degli eventi che condussero alla nascita dello Stato nazionale unitario e la riflessione sul lungo percorso successivamente compiuto possono risultare preziose nella difficile fase che l’Italia sta attraversando, in un’epoca di profondo e incessante cambiamento della realtà mondiale. Possono risultare preziose per suscitare le risposte collettive di cui c’è più bisogno: orgoglio e fiducia; coscienza critica dei problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide da affrontare; senso della missione e dell’unità nazionale. […]
Occorre ricordare qual era la condizione degli italiani prima dell’unificazione? Facciamolo con le parole di Giuseppe Mazzini – 1845: «Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le nazioni d’Europa; non abbiamo centro comune, né patto comune, né comune mercato. Siamo smembrati in otto Stati, indipendenti l’uno dall’al-tro... Otto linee doganali... dividono i nostri interessi materiali, inceppano il nostro progresso... otto sistemi diversi di monetazione, di pesi e di misure, di legislazione civile, commerciale e penale, di ordinamento amministrativo, ci fanno come stranieri gli uni agli altri» […].
Nell’avvicinarsi del Centocinquantenario si è riacceso in Italia il dibattito sia attorno ai limiti e ai condizionamenti che pesarono sul processo unitario sia attorno alle più controverse scelte successive al conseguimento dell’Unità. Sorvolare su tali questioni, rimuovere le criticità e negatività del percorso seguito prima e dopo al 1860-61, sarebbe davvero un cedere alla tentazione di racconti storici edulcorati e alle insidie della retorica. Sono però fuorvianti certi clamorosi semplicismi: come quello dell’immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l’Unità poco oltre il limite di un Regno dell’Alta Italia: di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell’Italia unita, che rispondeva all’ideale del movimento nazionale. […]
L’Unità non poté compiersi che scontando limiti di fondo come l’assenza delle masse contadine, cioè della grande maggioranza, allora, della popolazione, dalla vita pubblica, e dunque scontando il peso di una questione sociale potenzialmente esplosiva. L’Unità non poté compiersi che sotto l’egida dello Stato più avanzato, già caratterizzato in senso liberale, più aperto e accogliente verso la causa italiana e i suoi combattenti che vi fosse nella penisola, e cioè sotto l’egida della dinastia sabauda e della classe politica moderata del Piemonte, impersonata da Cavour. […]
Valgano dunque le celebrazioni del Centocinquantenario a diffondere e approfondire tra gli italiani il senso della missione e dell’unità nazionale: come appare tanto più necessario quanto più lucidamente guardiamo al mondo che ci circonda, con le sue promesse di futuro migliore e più giusto e con le sue tante incognite, anche quelle misteriose e terribili che ci riserva la natura. Reggeremo – in questo gran mare aperto – alle prove che ci attendono, come abbiamo fatto in momenti cruciali del passato, perché disponiamo anche oggi di grandi riserve di risorse umane e morali. Ma ci riusciremo a una condizione: che operi nuovamente un forte cemento nazionale unitario, non eroso e dissolto da cieche partigianerie, da perdite diffuse del senso del limite e della responsabilità. Non so quando e come ciò accadrà; confido che accada; convinciamoci tutti, nel profondo, che questa è ormai la condizione della salvezza comune, del comune progresso.

VERSO UN DRAMMATICO EPILOGO
Giorgio Chiaffarino
I leader passano i popoli restano… è questa la piccola verità che si deve raccogliere tra il tanto dire di questi giorni. Di fronte all'esplosione ormai di tutto il Nord Africa il mio pensiero non può non riandare al tempo della cosiddetta decolonizzazione, delle attese e delle speranze dietro alle quali in tanti c'eravamo gettati, come ora si dice, senza se e senza ma. Sappiamo bene come sono andate poi a finire le cose. Prendiamo un caso, quello dell'Algeria, dal controllo della Francia a quello di una terribile dittatura militare. Un paese grande produttore di ogni ben di Dio, è solo un esempio, costretto a importare generi di prima necessità per sfamare la gente… Anni di terrorismo e uccisione di innocenti, non ultimi i monaci di Tibhirine. Un esito che francamente, e forse ingenuamente, non avevamo messo in conto.
È così che ora, davanti alle immagini spaventose della rivolta libica e alla fila dei cadaveri, la immediata solidarietà verso chi lotta senz'armi per la sua libertà contro le pallottole e i missili, molto probabilmente fornite dalla nostra Italia (siamo stati il primo importatore di armi in Libia, prima della Russia), si accompagna alla preoccupazione per quello che potrebbe succedere dopo. Quello libico, dice una donna al TG3, è un popolo pacifico. E c'è subito una conferma: molti delle forze armate si sono rifiutati di sparare ai civili, navi e aerei hanno disertato (sono a Malta però, dell'Italia non si fidano!). Volendo sparare sulla gente si sono dovuti arruolare dei mercenari, la solita legione straniera -i contractor- anche qui utilizzando sistemi che per primo l'occidente ha introdotto in quei paesi.
È inutile nascondersi che laggiù ci sono degli interessi enormi, certo anche i nostri, e troppo spesso la tutela di questi non segue le difficili e tortuose vie di una democrazia, specie se è allo stato nascente. Ieri come domani la tentazione potrebbe essere quella di un più facile accordo magari con qualche altro uomo forte del dopo Gheddafi, se e quando ci sarà, perché al momento in Tripolitania c'è sempre lui.
Intanto le intese politico-economiche tra nord e sud del Mediterraneo (ricordare la Francia che era in prima fila) si sono sciolte come la neve al sole. Su tutto appare l'incertezza di questa nostra Italia che fino a poche ora fa, puntava al ripristino dell'ordine -si fa per dire- come se si fosse trattato di assistere a limitate baruffe tra fazioni.
Oltre l'economia (che ne sarà del nostro gas, del nostro petrolio?), l'ideologia (non avremo dei regimi islamici sotto casa?), c'è sempre la speculazione politica. Parleremo ancora e per molto di queste situazioni ai margini dei nostri confini.Intanto dobbiamo giustificare a chi ancora si pone domande i baci di pochi mesi fa e i missili internazionali di oggi.
 
 
UNA SANTIFICAZIONE DISCUTIBILE
Ugo Basso
Il prossimo 1° maggio sarà beatificato Giovanni Paolo II di cui ricordiamo, attraverso i ventisei anni che fanno del suo il secondo pontificato per lunghezza, la passione per la chiesa, la brillante capacità comunicativa, la partecipazione importante all’accele-razione della caduta dei regimi comunisti, l’impegno per la pace e contro le mafie, il tentativo di riconoscere pubblicamente alcune delle grandi colpe storiche degli uomini della chiesa, il coraggio di affrontare senza reticenze la debolezza fisica negli ultimi anni della sua vita: ma ricordiamo anche molte altre posizioni e atteggiamenti nella direzione della chiesa che non sembrano riconducibili alla santità, pur intesa non come vita perfetta, ma come costante tensione evangelica.
Non riapro ora la complessa questione della cosiddetta «fabbrica dei santi», ma mi parrebbe opportuno almeno un consenso unanime: diversamente resta l’impressione inquietante, ma purtroppo suffragata da numerosi casi nella storia, di santificazioni non mosse dal convincimento della santità della vita del candidato, ma da ragioni politiche o strategiche, dalla ricerca di consenso in certe parti, da occasioni per un lancio mediatico.
Mi pare interessante quindi proporre alla riflessione dei nostri lettori le obiezioni alla beatificazione di Wojtyla esposte al papa in base alle norme canoniche e con spirito ecclesiale, «senza negare aspetti virtuosi della sua persona e senza volerne giudicare l’intima coscienza» da autorevoli teologi e teologhe di diversa provenienza e nazionalità, fra cui Giancarla Codrignani, Giovanni Franzoni, Giulio Girardi, Adriana Zarri. Il documento è segnalato da Vittorio Bellavite, portavoce del movimento Noi siamo chiesa e lui stesso firmatario, che ancora ringraziamo per l’impegno fedele con cui ci aiuta a leggere con equilibrio e chiarezza accadimenti e prese di posizione di esponenti del magistero poco in linea con lo spirito dell’evangelo.
1.       La repressione e l’emarginazione esercitate su teologi, teologhe, religiose e religiosi, mediante interventi autoritari della Congregazione per la dottrina della fede.
2.       La tenace opposizione a riconsiderare -alla luce dell’Evangelo, delle scienze e della storia- alcune normative di etica sessuale che, durante un pontificato di oltre 26 anni, hanno manifestato tutta la loro contraddittorietà, limitatezza e insostenibilità.
3.       La dura riconferma della disciplina del celibato ecclesiastico obbligatorio nella Chiesa latina, ignorando il diffondersi del concubinato fra il clero di molte regioni e celando, fino a che non è esplosa pubblicamente, la devastante piaga dell’abuso di ecclesiastici su minori.
4.       Il mancato controllo su manovre torbide compiute in campo finanziario da istituzioni della Santa Sede, e l’impedimento a che le Autorità italiane potessero fare piena luce sulle oscure implicazioni dell’Istituto per le opere di Religione (Ior, la banca vaticana) con il crack del Banco Ambrosiano.
5.       La riaffermata indisponibilità del pontefice, e della Curia da lui guidata, ad aprire un serio e reale dibattito sulla condizione della donna nella Chiesa cattolica romana.
6.       Il rinvio continuo dell’attuazione dei princìpi di collegialità nel governo della Chiesa romana, pur così solennemente enunciati dal Concilio Vaticano II.
7.       L’isolamento ecclesiale e fattuale in cui la diplomazia pontificia e la Santa Sede hanno tenuto mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, e l’improvvida politica di debolezza verso governi -dal Salvador all’Argentina, dal Guatemala al Cile- che in America latina hanno perseguitato, emarginato e fatto morire laici, uomini e donne, religiose e religiosi, sacerdoti e vescovi che coraggiosamente denunciavano le «strutture di peccato» dei regimi politici dominanti e dei poteri economici loro alleati.
 
 
RESPONSABILITÀ DI UN MATRIMONIO
Sandro Fazi
Qualche settimana fa la liturgia ha riproposto il racconto delle nozze di Cana, uno dei pochi passi del NT che hanno a che fare, anche se indirettamente, con il rapporto uomo-donna. L’occasione ha stimolato a riprendere discorsi un po’ dimenticati sul nostro essere coppia. Negli anni settanta quando la Chiesa, alla luce del Concilio, ha iniziato a riconsiderare i passaggi più significativi della vita dei credenti uscirono alcuni studi che facevano parte di quella operazione chiamata Evangelizzazione nell’ambito della quale qualche teologo, pochi in verità per quanto ricordi, aveva iniziato ad approfondire anche i valori del rapporto uomo-donna, entro l’ambito matrimoniale e non solo, a riflettere cioè sulla esperienza di due persone coinvolte in un rapporto di affetto significativo per loro. Poiché il discorso partiva dalla iniziativa di teologi, le riflessioni erano sostanzialmente teologiche: così ci siamo trovati a sentire e balbettare che il rapporto dei due doveva simboleggiare il modo in cui Dio si mette in relazione con l’umanità perché il fatto che «maschio e femmina li creò» doveva essere interpretato nel senso che non era il singolo uomo o donna chiamato a riflettere l’immagine di Dio, ma la coppia dei due.
La coppia doveva quindi simbolicamente raffigurare l’immagine di Dio. Le implicazioni erano molte e di varia natura. In sostanza quel rapporto dei due per quanto occasionale, fragile, superficiale, distratto, e cosi via doveva avere le caratteristiche di quell’amore ben più grande e misterioso ed esserne il simbolo concreto e reale. Questa tesi quindi indicava ai due della coppia quale dovesse essere in un contesto cristiano lo stile di vita del loro stare insieme, quello cioè che attribuiamo al nostro Signore.
Incominciammo così a sentire parlare di concetti come andarsi incontro, aspettarsi, sostenersi, avere reciproche responsabilità spirituali oltre che materiali, accettarsi sostanzialmente come si è e così via. Noi non avevamo mai sospettato che nelle pieghe della nostra coppia si nascondesse anche una funzione di questo tipo che, oltretutto, configurava anche una responsabilità nei confronti della comunità dei credenti che potevano aspettarsi di avere conferma da noi che quella ipotesi sui valori della coppia erano corretti e vivibili. La vicenda umana dei due finiva così di essere privata e si apriva alla comunità con un ruolo fondante, perché da loro si sarebbe dovuto poter intravvedere e comprendere la relazione del Signore con l’umanità.
Un processo vagamente incredibile, per i due poveri diavoli che pensavano semplicemente di vivere insieme il resto dei loro giorni. A conforto si diceva che in un percorso così tratteggiato i due avrebbero avuto un aiuto spirituale, non meglio definibile, una assistenza non magica ma efficace che si sarebbe materializzata nelle circostanze della vita. Questa idea non aveva il supporto ancora di libri e riflessioni di approfondimento; semplicemente alcuni preti e credenti più sensibili e attenti avevano percepito alcune idee sul matrimonio e trasmettevano per passa parola quello che avevano capito. La chiesa come istituzione era ancora assente perché il rapporto uomo-donna che conosceva era solo quello della maternità nel matrimonio. Anche noi siamo stati coinvolti, per circostanze occasionali, in questo flusso di idee e di amici, cui siamo ovviamente grati, e ci siamo apprestati a vivere una vita come proposta, per quel poco che avevamo capito.
Oggi, dopo cinquanta anni di vita insieme, ci sembra quasi di dover dare conto della vicenda. Possiamo dire per esperienza che le intuizioni erano corrette; il percorso, come stile di vita e responsabilità, era avvicinabile, anche se non risultava interamente realizzato; i dubbi e le distrazioni potevano non distogliere dalla traccia fondamentale. L’obiettivo di cercare rapporti anche spirituali sinceri e costruttivi era consistente.
Nel cammino la comunità ci ha aiutato poco: all’inizio perché impreparata, successivamente perché distratta da troppe istanze. Nei nostri discorsi di allora c’era sicuramente qualche confusione di troppo e teologia affrettata, ma c’erano anche tracce di grandi verità di vita che ci sono state utili. Purtroppo per noi l’interesse per il rapporto di coppia si è poi lentamente esaurito sostituito da altre istanze: i figli, il lavoro, la società, e così via. Il discorso laico sulla coppia forse si è progressivamente esaurito e non solo per noi. Ai laici sono subentrati l’organizzazione ecclesiale e le associazioni affini. La tensione che legava noi giovani sposi neofiti ha preso altre forme più strutturate, come era giusto che fosse; ma con l’ordine e la organizzazione si è perso lo slancio dei primi tempi per identificare e vivere lo specifico della coppia cristiana; se c’era qualche cosa di specifico che potesse ancora essere approfondito forse non è più emerso da parte nostra.
Con l’intervento della struttura ecclesiastica lo spirito e la responsabilità della coppia sono cambiati; sono diventati forse più generici. Ci potremmo chiedere se le difficoltà che tanti matrimoni di giovani, e non solo, oggi incontrano non possano in parte derivare anche dalla distrazione di noi laici più anziani sull’argomento. Tanti fallimenti possono forse essere attribuiti in parte anche a colpa nostra per non aver saputo tenere vivo e trasmettere l’interesse a definire e vivere una vita di coppia, con un taglio e una prospettiva laica cristiana.
sottovento                                                             g.c.  
I cristiani i simboli e la laicità - A Strasburgo la Corte europea dei diritti dell'uomo riforma la sentenza di primo grado che imponeva di togliere il crocifisso dalla aule scolastiche sostenendo, come aveva chiesto una cittadina italo-finlandese, che avrebbe violato il diritto all'istruzione e il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, come prescrive la Convenzione europea (cfr. TMNews).
Che dire? - Da credente trovo inaccettabile che del crocifisso o della croce, che è il più elevato simbolo di Cristo che fa dono di sé agli uomini, venga fatto un uso strumentale ad altri fini, pur non fondamentalmente scorretti; d'altro canto faccio fatica a considerare una croce appesa a un muro un attentato alla laicità dello Stato. Sono altre le violazioni, queste sì condannabili e da combattere, al pluralismo culturale e confessionale nel nostro Paese;  trovo molto sospetta la soddisfazione esibita dopo la sentenza da parte di personaggi che nella vita esprimono l'esatto contrario di quanto la croce vuol indurre a praticare.
Tra i tanti commenti che si sono avuti appena la sentenza è stata resa nota, mi persuade quanto ha scritto il pastore luterano Ulrich Eckert: «Non esigiamo che il crocifisso venga esposto in luoghi pubblici in quanto simbolo di fede, ma non siamo contrari alla sua esposizione come simbolo di un richiamo alla tradizione viva della fede cristiana. È però fondamentale rispettare la richiesta di toglierlo ove qualcuno se ne veda disturbato, proprio per evitare l'uso di questo simbolo di amore e di solidarietà come simbolo di dominio».
L'esigenza di testimoniare la fede nel Signore resta l'impegno di sempre dei credenti, ma non ha simboli indispensabili, nemmeno quelli appesi alle pareti.
A MARGINE DELLA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI
uMariateresa Aliprandi - A me piacerebbe iniziare ogni lettura con l’invito di Dio: «Ascolta, Israele!», per sentirmi sostenuta a disporre, per quanto mi è possibile, la mia mente e il mio cuore a fargli spazio perché prenda dimora e per farmi intuire la sua Parola che, stando al doppio significato del termine ebraico Davàr, significa Parola e Fatto, per cui il suo parlare è azione, è evento, è calare nell’esperienza dell’uomo (Giovanni ci dice «e il Verbo si fece carne e dimorò tra noi» Prologo, 14).
Allora lo studio delle Scritture, per me, si fa momento di meditazione e di preghiera. La necessità di collocare la narrazione biblica nel suo contesto storico-letterario è doverosa e opportuna, ma solo per introdurci al vero ascolto.
Da qualche parte ho letto che chi si accosta alla Parola di Dio deve esser predisposto a mangiarla come dice il profeta Ezechiele: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che stai vedendo, mangia questo rotolo, poi va’, parla della casa di Israele» e prosegue «nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere di questo rotolo che ti porgo» (Ez 3, 2-4)
Se la Bibbia è storia di un’alleanza, come a me sembra che sia, tra l’Io-sono e l’uomo, è storia di una relazione dove ciascun partner è Tu per l’altro, entro un rapporto gratuito e libero; allora io devo richiamare tutte le mie possibilità di pensiero per predispormi a vivere al meglio questa esperienza di condivisione. Questa è la mia parte di responsabilità: dare risposta all’appello «Ascolta!».
Io cerco qualcosa di più profondo tra le pieghe dell’esperienza di tutti i personaggi biblici (dai profeti ai farisei, ai disperatamente oppressi, ai ribelli pronti alle invettive e alle violenze...) per sentirmi presa e interpellata nella medesima relazione di alleanza del primo e secondo testamento.
Questo mio faticoso e certamente inadeguato tentativo di condividere con voi, amici di Notam, quanto mi urge nel cuore, mi spinge ancora, per bisogno di chiarezza, a dire in poche righe, anche se insufficienti per il tenore dell’argomento, cosa intendo io per rivelazione e per Sacre Scritture.
§         Considero rivelazione un evento storico accaduto in cui Dio veramente si è incontrato con un piccolo gruppo di uomini: si è fatto conoscere, si è rivelato e il suo manifestarsi è stato accolto. Naturalmente ciò presuppone il dato che Dio esiste. Non è questo il luogo per trattare questo punto. Personalmente sono dell’avviso che nessuno può dimostrare l’esistenza di Dio né il suo contrario, ma la sua esistenza è ragionevole.
§         A questo punto mi nasce una domanda: di quell’evento io posso solo ascoltare il racconto, le testimonianze, oppure ho la possibilità di fare di quell’evento anch’io, oggi, una esperienza reale? Dico esperienza dell’evento, non del leggere il racconto. Cioè esperienza di un incontro, di un rapporto con Dio come è avvenuto con i profeti, con l’antico popolo d’Israele… e non nel senso di una nuova, altra rivelazione, ma nel senso di fare esperienza di quell’evento passato.
Questo interrogativo può esser riformulato in altri termini: il passato è accessibile nella dimensione esperienziale, oltre l’elaborazione di un pensiero manipolatore?
La mia esperienza mi dice di sì.
Come esempio ricorro alla mia professione, anche se ciascuno può trovare esempi pertinenti nella storia dei propri legami di relazione. Tra terapeuta e paziente le parole, nel contesto specifico della relazione transferale, possono raggiungere accadimenti passati affinché siano esperiti di nuovo, nel presente, e usati per il benessere della persona in cura. Si può entrare in contatto con il passato, nonostante i filtri di disturbo difensivi (fantasie, pensieri, creazioni di rappresentazioni, di persone, ecc); si può fare esperienza, nell’attualità dell’incontro terapeutico, di antichi incontri già successi. Il passato non è dietro, fuori di noi, ma dentro di noi.
Inoltre ognuno è frutto non solo della propria storia personale: il proprio passato è intriso anche del passato di tutta l’umanità di cui siamo eredi.
Ritorno alle Sacre Scritture: allora, si può dire che le loro parole-evento permettono di accedere al passato, di fare esperienza -oggi- di quell’evento già successo, di fare esperienza dell’incontro tra Dio e l’uomo. Anch’io posso fare questa esperienza. Anche qui il passato non è fuori di me, altro da me, ma dentro di me, come persona ed erede di tutta l’umanità.
Dio, come ieri, vuole andar incontro all’uomo, lo insegue, non lo lascia in pace, inquietandolo e tormentandolo, anche se a noi, increduli, viene spesso da chiedersi «perché ti ricordi di lui (uomo)?... perché ne prendi cura?» (salmo 8).
u Franca Colombo - Ho letto e riletto lo scritto di Mariateresa Aliprandi e continuo a fare un po’ fatica a capire quando parla della necessità di fare esperienza di un evento passato per creare una connessione con il presente. Sembra che attribuisca al ricordo del passato una funzione terapeutica o taumaturgica, come se fosse necessario rivivere oggi gli stessi eventi di allora per ritrovare la relazione perduta con il divino. Forse è una tecnica utile in campo psicoterapeutico, ma, a mio parere, non tiene conto di alcune grosse differenze di contesto:
§         gli eventi narrati nella Bibbia, quasi certamente, non sono quelli realmente accaduti, ma sono ricostruiti a distanza di moltissimi anni da chi scrive e le parole attribuite a Dio non sono uscite dalla sua bocca, ma dalla fede dell’estensore, quindi la nostra relazione con Lui non può nutrirsi di quelle parole: può invece accogliere, ammirare e fare propria la fede di chi scrive.
§         la alleanza tra Dio e l’uomo, non è una relazione patologica che deve essere esplorata attraverso il ricordo del passato per portare alla luce il grumo di emozioni che ne blocca lo sviluppo. È invece una relazione di amore libera, liberante e creativa che può trarre conferme dal passato, ma può anche trovare mille altre strade nuove per manifestarsi.
Per noi oggi non sarà la manna o la verga spezzata o la terra che si apre per inghiottire i disobbedienti che aumenteranno la nostra fede, ma, oggi come allora, possiamo sperimentare stupore, ammirazione, gratitudine per eventi che ci sembrano eccezionali. Ora come allora, possiamo cogliere la Sua presenza nella nostra storia, secondo l’idea di giustizia e di amore che in tanti secoli si è molto evoluta. Oggi che le rivoluzioni si fanno senza armi, che le città si conquistano con le mani alzate e gli eserciti sono formati da cybernauti, forse possiamo testimoniare la potenza dell’Altissimo narrando questi eventi. Non sono forse miracoli, pari alla manna nel deserto, i mezzi di comunicazione che eliminano ogni distanza tra gli uomini, forniscono sostegno e forza ai più deboli e agli oppressi? E quegli aspetti vendicativi e punitivi che l’estensore di Numeri attribuisce a Dio, non saranno il tentativo di un popolo ancora bambino di dare una spiegazione agli eventi catastrofici che avevano rallentato il cammino verso la terra di latte e miele? Quindi non si tratta, secondo me, di rivivere eventi del passato, ma mu-tuare dal passato la fede nella presenza di Dio nella storia e scoprire in quali eventi oggi si manifesta.
Il Gallo da leggere                                                   u.b.  
È uscito Il Gallo di marzo!
¿       Nella sezione religiosa, fra l’altro:
    Il contributo della redazione alla riflessione sull’iniziativa Il Vangelo che abbiamo ricevuto;
    si conclude la presentazione dell’esperienza cristiana del teologo domenicano  Jean-Pierre Jossua con considerazioni sulla preghiera, lo Spirito e la tradizione nella storia della chiesa;
    Angelo Roncari riflette sulla singolare conversione di un cardinale di curia.
¿       Nella sezione attualità e comunicazione:
    Maria Rosa Zerega mette in crisi l’indifferenza con cui passiamo accanto ai drammi delle nostre città:
    Augusta De Piero dimostra come piccole modifiche alla legge Disposizioni in materia di sicurezza pubblica di fatto rende apolidi i figli degli immigrati senza permesso;
    Dario Beruto spiega i rapporti far i geni e le emozioni;
    Mario Cipolla commenta Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella;
    Luca Cavaliere discute di come si possa parlare di musica e ne dà un saggio commentando l’Eroica di Beethoven;
    Fra le recensioni la presentazione degli atti di un convegno sul tema Chiesa e guerra.
¿       Le pagine centrali, accompagnate come sempre dalla sobria introduzione di Germano Beringheli, sono dedicate a una raccolta di poesie di argomento religioso di Pietro Sarzana.
 
segni di speranza                                                                     s.f.  
LE TENTAZIONI
Matteo 4, 1-11
La missione di Gesù incomincia nel deserto subito dopo il battesimo, quando vide «i cieli che si squarciavano e lo Spirito che discendeva sopra di lui» (Mc 1,10). Il deserto era stato anche il luogo dell’incontro del Signore con il suo popolo durante la trasmigrazione verso la terra promessa. Le tentazioni presentate qui sono naturalmente le nostre stesse più emblematiche: trovare di che vivere in modo facile e sicuro; avere un segno inequivocabile della potenza di Dio a nostra disposizione; avere un grande potere sui regni del mondo. Le tre risposte di Gesù sono le istruzioni fondamentali che lascia a noi suoi fedeli per analoghe circostanze, istruzioni che saranno poi perfezionate nel discorso della montagna: ricerca anche alimenti spirituali oltre che quelli materiali perché anche di quelli vive l’uomo; non tentare il Signore tuo Dio perché non sta a te stabilire i tempi e i modi della Sua manifestazione; adora il Signore tuo Dio ed evita ogni idolo.
Ognuno sa a quale di queste situazioni è personalmente più esposto. Certo invocare l’intervento di un Trascendente in ogni difficoltà sembra essere stato l’impulso più naturale dell’uomo che ha sempre alzato gli occhi al cielo per invocare o per reclamare.
Non avremmo bisogno di altre istruzioni per liberare l’esistenza da molte delle perturbazioni più frequenti. Ma se dopo tanti secoli ci riconosciamo ancora negli stessi impulsi e desideri che Gesù ha allontanato da sé con tanta determinazione, allora la nostra evoluzione, il cammino verso una maggiore compiutezza della nostra natura dove si è arenata? Forse possiamo risponderci che perché la nostra umanità maturi verso forme più compiute occorre la nostra disponibilità, la nostra apertura a quella energia creatrice che opera incessantemente nel mondo per portarci fuori dal caos primordiale verso forme di vita sempre più vicine a quella perfezione che, forse, raggiungeremo alla fine della nostra storia. L’energia è potenzialmente disponibile, ma ha bisogno del nostro spazio, della nostra collaborazione per operare a nostro beneficio. Una disponibilità parziale non può che condurre a un risultato ancora parziale.
D’altra parte la consapevolezza dei nostri limiti, sapere di dover fare i conti anche con la nostra corporeità forse è già segno di una evoluzione. Dice Panikkar (La religione, il mondo e il corpo): «Il corpo continua a reclamare i suoi diritti e per quanto l’uomo si impegni a prescindere dal corpo esso si presenta come un compagno di viaggio imprescindibile. …la vita umana è una e non una somma di due quella materiale e quella mentale. …Si tratta di superare la dicotomia in modo che sia tutto l’uomo a non provare gusto nell’orgia e disgusto per una attività puramente teoretica». La nostra evoluzione o includerà tutto l’uomo nella sua interezza o non sarà.
La liberazione da ogni metafisica è già parte della nostra maturazione ed è forse, in ultima analisi, l’insegnamento vero che Gesù ci lascia con questo episodio che forse potremmo esprimere così: rimaniamo con i piedi per terra ben vigili verso le nostre fragilità. 
Domenica ambrosiana all’inizio di Quaresima
schede per leggere                                             m.c.   
Fra i libri di evasione, quelli di Henning Mankell (più volte presentati su Notam) possono a mio avviso occupare un posto di tutto rilievo, e i suoi numerosi polizieschi, di cui è protagonista Kurt Wallander, hanno ben continuato un genere mirabilmente interpretato dal famosissimo commissario Maigret di Simenon. I due scrittori, diversissimi per ambiente di provenienza e stile narrativo, possono essere accostati per aver creato personaggi divenuti quasi mitici, caratterizzati da stile e modalità operative di indagine abbastanza simili, intuito innato e analisi ragionate; senza il ricorso strumentale a scene di particolare violenza.
Con L’uomo inquieto (Marsilio Editori, 2010, pagg. 556, euro 19.00), Mankell offre uno spaccato storico della Svezia nel dopoguerra, posta, con la scelta della neutralità, in un difficile equilibrio fra i nemici paesi della cortina di ferro e gli amici americani e europei della nato; è un racconto di spionaggio, che vede coinvolto Wallander per questioni familiari, la sparizione del futuro suocero della figlia Linda, Hakan von Enke, alto ufficiale di marina. La necessità di capire una situazione estremamente complicata, che non è di competenza del suo distretto, comporta per il commissario un impegno solitario che sembra superiore alle sue forze, indebolite dal passare degli anni; così, fortemente intrecciati alla vicenda, emergono i problemi personali di un Kurt Wallander arrivato ai sessant’anni, quando la solitudine amara, chiusa in se stessa, si unisce alla salute malferma e a un generale sconforto, in un quadro di vera e profonda umanità. E il rispetto che alla fine siamo invitati a dare a quest’uomo, che sappiamo non ci sarà più compagno in nuove avventure, mi sembra debba essere esteso anche all’autore, che ha sempre il merito di far conoscere situazioni nuove, reali e poco note; e sa con garbo far uscire di scena un personaggio che pur gli ha procurato molta celebrità.  
la cartella dei pretesti 
Nei giorni scorsi, più amministratori veneti hanno proclamato l’ostracismo nelle biblioteche di loro competenza ad autori che hanno palesato, nell’ambito dell’esercizio del loro pensiero, posizioni politiche ed etiche sgradite. Voglio sperare che i lettori, soverchiati da altre inaudite, e inaudibili, vicende di impudicizia, ricordino l’episodio in questione. Voglio sperare che ci riflettano su con calma. Perché se sulle altre e più appariscenti vicende, condivido la pacata e di ottimo gusto opinione del noto stilista Armani («Sono colto da un lieve senso di disgusto»), su questa storia di greve periferia non sono capace personalmente di moderazione. C’è un bellissimo monumento a Berlino che ricorda a chi ne avesse bisogno il regime nazista. Da un grande vetro si vede la sala di una biblioteca con gli scaffali vuoti.
MAURIZIO MAGGIANI, L’ultimo confine è la censura sui libri, Il secolo XIX, 23 gennaio 2011.
Ora, perché la politica giapponese si è accontentata di questo standard di sicurezza? Perché un terremoto di forza 9 è dieci volte più devastante di uno di forza 8 e perché i costi della relativa tecnologia di sicurezza sarebbero aumentati in misura esponenziale. Ciò avrebbe reso l’elettricità dall’atomo più costosa delle altre energie e ridotto radicalmente i profitti dei gestori. Per questo motivo le centrali elettriche nucleari non potrebbero mai essere tanto sicure da non diventare troppo costose. La sicurezza pertanto non sta totalmente al disopra, essa in ogni caso va di pari passo con il calcolo economico. Il rischio residuale e il profitto sono agganciati l’uno all’altro, l’uno aumenta con l’aumentare dell’altro.
EDITORIALE,Politica dell’atomo.Insegnamento dal Giappone per il mondo (tr. José Padova), Die Zeit, Hamburg, 16 marzo 2011
Il jazz nasce negli Stati Uniti in un contesto di forti discriminazioni razziali. Gli stessi musicisti, anche quelli famosissimi, che andavano a suonare nei locali di New York, non potevano entrare dalla porta principale, ma dalle cucine […] Il concetto di libertà nel jazz si esprime molto bene, per l’equilibrio costante tra la capacità di essere concentrati su se stessi e la necessità di sentire sempre quello che sta succedendo vicino a noi; altrimenti ci si suona addosso. Quello che avviene spesso nella vita quotidiana di oggi, in cui ognuno è troppo concentrato su se stesso, perdendo di vista il pensiero degli altri, arrivando a calpestarli.
PAOLO FRESU, Il jazz è la musica della libertà, I Amnesty, gennaio 2011.
Quando parlo, dei bisognosi, degli ultimi, degli emarginati, di chi non ha una casa, di chi ha fame, non mi preoccupo di essere accusato o incensato. Un cristiano, un vescovo deve seguire il Vangelo. L’unico criterio del mio agire è la fedeltà alla parola del Signore, il Vangelo. Anche quando fare ciò è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare.
DIONIGI TETTAMANZI, La politica non parla al paese (intervista), Corriere della sera, 13 febbraio 2011.
L’uomo si distrugge con la politica senza principi etici, con la ricchezza senza lavoro, con l’intelligenza senza il carattere, con gli affari senza morale, con la scienza senza umanità, con la religione senza fede, con la solidarietà senza il sacrificio di sé.
GANDHI (cit. da Gianfranco Ravasi), Laicità, Il Sole 24 ore domenica, 6 febbraio 2011.
Hanno siglato le rubriche: Ugo Basso, Giorgio Chiaffarino, Sandro Fazi, Mariella Canaletti.
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
Pro manuscripto
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L’invio del prossimo numero 371 è previsto per LUNEDÌ 4 aprile 2011


Marted́ 22 Marzo,2011 Ore: 15:50
 
 
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