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7 marzo 2011 - S. Perpetua - Anno XIX - n. 369


Notam

 «Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)

 
 
Milano, 7 marzo 2011 - S. Perpetua - Anno XIX - n. 369
 
CENTOCINQUANTA
Ugo Basso
Devo il mio nome al patriota barnabita Ugo Bassi, fucilato dagli austriaci nel 1849 mentre fuggiva dopo aver difeso invano la Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi. Il padre di mio nonno, cognome assonante con quello del religioso, una ventina di anni dopo il suo sacrificio ha voluto ricordarlo dandone il nome al figlio. E dal nonno è venuto a me. Mia nonna è nata il 20 settembre 1870. Dunque il risorgimento nelle mie radici. Risorgimento che non è stato glorioso come l’agiografia storica monarchica ce lo ha raccontato: gli stessi fondatori –il democratico Garibaldi, l’idealista Mazzini, il politico Cavour, l’ambizioso Vittorio Emanuele II, che non si è neppure degnato di cambiare l’ordinale del suo nome- non erano affatto concordi.
L’Italia avrebbe potuto essere realizzata in altri modi: divisi anche i cattolici fra chi la pensava voluta da Dio e chi, con Pio IX, la credeva opera diabolica, stato usurpatore. È il prodotto di un processo fatto di interessi e passioni, di disegni politici e di entusiasmi giovanili, comunque un momento storico alto, che ha permesso a stati regionali di diversa consistenza e sviluppo di trovare la dignità per avere voce fra le potenze del tempo. La moneta unica, una rete di comunicazioni, la diffusione dell’istruzione elementare, pur fra scandali e laceranti tensioni sociali, hanno costruito un’Italia moderna che per decenni, attraverso due guerre coloniali e due mondiali e il ventennio totalitario, è cresciuta unita, dandosi finalmente una costituzione che raccoglie il meglio delle esperienze politiche, anticipa la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e mantiene l’equilibrio fra le autonomie territoriali e la struttura unitaria.
Il riconoscersi stato, e stato democratico, è motivo di solidarietà e di dignità per i cittadini e assicura prestigio internazionale, soprattutto per le fasce più modeste della popolazione. Le differenze permanenti e probabilmente perduranti possono mantenersi complementari e non farsi occasione di rivalità, tensioni, egoismi per ricreare stati fragili di fronte alla travolgente economia globalizzata e alle emergenze demografiche come quelle a cui assistiamo. Celebrare l’unità non significa ignorare i problemi, non significa retorica patriottarda: avrebbe invece significato riconoscerci stato e sentirsi membri di una comunità nazionale dignitosa e credibile sulla scena internazionale.
La ricorrenza, diventata occasione di scontro perfino all’interno del governo, testimonia che il senso dell’Italia non c’è più: il prossimo 17 sarà purtroppo festa di parte e chi, come noi, la celebrerà non può nasconderselo. E non credo che se lo nasconda neppure il presidente della repubblica che però sa anche di non essere voce isolata. Riconosciamo insieme, tenendoci un po’ di nostalgia, che occorrono pazienza coraggio fiducia per ritrovare la legalità e la solidarietà, che la costituzione pone pilastri della convivenza, e una immagine internazionale non fatta di ossequio ai potenti, di baciamano ai dittatori, di vendite di armi. Occorre insomma non dare per scontato, ma ricostruire.
in questo numero
P. Soldavini INFORMARE COME? F. Mandelli NOI SAPPIAMO UN PENSIERO SULLA GUERRA S. FAZI MISURE CINESI G. Chiaffarino MILANOMERITA DI PIÙ F. Colombo LE TESTE PENSANTIfilm insieme E. Brunetti IL CONCERTOnel deserto m.z. segni di speranza s.f. schede per leggerela cartella dei pretesti
INFORMARE COME?
Pierangelo Soldavini
«Siate esemplari anche nella vita privata». Così titolavano domenica 30 gennaio in maniera unanime i principali quotidiani sull'intervento del cardinale Dionigi Tettamanzi in occasione dell'annuale incontro con i giornalisti: un concetto contenuto in due righe buttate lì nel corso di un intervento profondo e ricco di spunti incentrato sulla responsabilità di chi fa oggi comunicazione. Quelle due righe, con quel richiamo semplice -«Da quanti sono chiamati ad animare e guidare il Paese tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato»-, che a me era sembrato quasi naturale e normale, avevano offuscato tutto il resto... E pensare che lo stesso arcivescovo di Milano si chiedeva subito dopo quel richiamo: «Giornali e tv contribuiscono davvero a costruire e a promuovere la pubblica opinione quando si lasciano contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che dimentica e sottovaluta i bisogni reali e concreti delle persone?»
Evidentemente i giornali si sono dati da soli la risposta enfatizzando il richiamo agli scandali pruriginosi del presidente del Consiglio a scapito del resto. Non che si debba dimenticare, ma ancora una volta si finiva per perdere di vista il senso dell'intervento del cardinale concentrandosi su un singolo concetto, sia pur significativo, ma premiato dal senso della spettacolarità.
Pensando a questo episodio e riflettendo sugli interventi sia di Tettamanzi che degli altri contributi mi è tornato alla mente che Giorgio, ancora parecchio tempo fa, mi chiedeva un'opinione sulla crisi che sta attraversando la stampa. Al di là dei numeri e della cause, sono convinto che il problema di fondo ineludibile sia proprio quello di una continua degenerazione della credibilità della stampa nel fare il suo mestiere. È innegabile che la televisione prima e l'avvento di internet poi abbiano rivoluzionato il processo informativo che una volta era dettato dal quotidiano (con annessa rassegna stampa) del mattino e dal telegiornale della sera. Oggi il flusso informativo è continuo, 24 ore su 24, con ogni mezzo possibile e immaginabile, tanto che le notizie ci rincorrono anche dentro il supermercato. O ci basta un semplice click o una schermata sul telefonino per sapere immediatamente quello che succede.
Oggi, al contrario, siamo sottoposti a un trauma da overload informativo: troppe notizie, tanto da darci un vago senso di nausea o di smarrimento. Per di più la nostra attenzione è molto più bassa: i dati ci dicono che alla letture di un sito informativo online si dedica in media la bellezza di 70 secondi, contro i 25 minuti del quotidiano di carta! Come sottolineava Mario Calabresi, direttore della Stampa, il circo informativo tende ad alzare la voce per catturare l'attenzione, da una parte spettacolarizzando (banalizzando?) tutto ciò che succede (basti pensare ai vari Cogne-Garlasco-Avetrana... in cui si tende a ricalcare un format da reality), dall'altra enfatizzando il dettaglio, un singolo episodio che viene preso come emblema di tutta la realtà (è più difficile cercare di analizzarla e comprenderla, meglio fermarsi a un fatto che ci fornisce una chiave di lettura semplicistica: così un atto di violenza fatto da uno straniero o da un rom viene facilmente trasformato nella criminalizzazione di tutto il gruppo di stranieri o di rom).
E questo, conclude Tettamanzi, produce un senso di ansia nei confronti della vita quotidiana oppure, al contrario, un’anestetizzazione che provoca straniamento. Alla fine tutto ciò che è normale non fa più notizia. E i problemi reali rimangono fuori della porta: senz'altro -mi viene da dire- c'è una regia accorta dietro a tutto questo, ma non si può cadere così semplicemente nel tranello.
Enrico Mentana si chiedeva cosa rimarrà di tutto questo continuare a urlare notizie che notizie non sono: che cosa rimarrà della politica quando non ci sarà più un caso Ruby? Sapremo ancora capire cosa vuol dire raccontare la politica o avremo perso il senso della realtà? Il direttore del tg La7 non si nega il fatto che il successo del suo notiziario sia dovuto proprio alla degenerazione del resto: «Io non faccio nulla di straordinario, mi limito a fare con passione il mio mestiere: raccontare notizie e cercare di capire quello che succede».
Semplice! Anche Tettamanzi sprona alla fiducia: «Guardiamo con onestà e fiducia al Pae se reale che è sempre meno raccontato, a chi è in difficoltà ed è sempre più solo, alle forze del bene così poco testimoniate dai media, all'esemplarità positiva così raramente mostrata. Il racconto presuppone la ricerca di un senso e incoraggia la valutazione».
Citando il racconto che Gesù fa di Giovanni il Battista (Luca 7, 18-27) il cardinale indica la strada: «Testimoniare la verità significa inserire i fatti della realtà in un più ampio consenso, gli episodi in un orizzonte di senso». Oggi ogni episodio della realtà viene utilizzato per dare forza a uno o all'altro schieramento politico, per consolidare questa o quella costruzione artificiale della realtà: a rimanere esclusa è la tensione per contribuire al processo di scoperta della verità a beneficio dei lettori, persone reali con bisogni reali. «Rispetto ai fatti della cronaca c'è un oltre verso il quale dobbiamo aiutare lettori e spettatori ad alzare lo sguardo -sollecita Tettamanzi-. Non lasciamoci rapire e imprigionare solo da quanto sta entro il giardino di casa. Torniamo a guardare al futuro, alla possibilità di un futuro migliore».
Ecco allora che la carta stampata potrà anche essere sconfitta da internet. Ma questo è un problema che devono sbrogliare gli editori, sostanzialmente di distribuzione delle notizie. In un mondo dove le informazioni circolano liberamente a getto continuo, il ruolo del giornalista rimane immutato, anzi se possibile è ancora più impegnativo: fornire un racconto che non sia un mero elenco di fatti, ma che dia un senso al realtà, che dia gli strumenti di valutazione, che inquadri i fatti nel loro contesto. Per il direttore della Stampa si tratta allora di «saper scegliere, e anche di saper rinunciare a pubblicare delle notizie per il solo fatto che possono far vendere qualche notizia in più: quando l'ho fatto, ho forse perso qualche copia in più ma ho guadagnato in autorevolezza».
Per il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, e per quello di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino, in sintonia con il cardinale, si tratta di dare più voce al Paese reale, anche a quello «che ce la fa», di chi si adopera per uscire dalla crisi morale, sociale, economica, politica: la passione, la forza, la volontà, la lungimiranza... Per Mentana la soluzione è anche la profondità: raccontiamo le serate di Arcore quasi solo per soddisfare il voyeurismo con i particolari, per testimoniare la veridicità dei fatti e anche per trarne conclusioni in linea con le nostre convinzioni. Ma non sono in molti ad andare oltre e a provare anche a capire, per esempio, come mai oggi in Italia ci sono così tante ragazze pronte a fare soldi facili con seratine fatte di semplici cene o di qualcosa in più. Fino a qualche mese fa non immaginavamo neanche una realtà del genere, adesso, forse, finiamo per essere troppo concentrati su altro!

 
Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.
NOI SAPPIAMO
Fioretta Mandelli
Ho letto nei giorni scorsi una tesi di laurea magistrale dell’Università veneziana di Ca’ Foscari che tratta delle rotte migratorie dall’Africa verso l’Europa, e del modo in cui l’Unione Europea si difende dai migranti con una rete di organizzazioni economiche e politiche che agiscono (inutilmente) in modo spietato. Naturalmente la tesi è rigorosamente documentata. Quello che ho letto mi ha sconvolto. Qui ricordo solo qualche cosa.
Un giovane africano dell’Africa occidentale ha deciso di mettersi in viaggio verso l’Europa: nel suo paese regnano miseria e guerra. Tutta la famiglia ha raccolto un po’ di soldi perché almeno lui vada verso una vita migliore, e possa magari giovare poi anche ai suoi. La via che prende, insieme a quelli che si mettono in cammino come lui verso le coste del Mediterraneo passa per il Mali: qui è facile comprare un passaporto falso con 500 euro. Questo mette subito il compratore nelle mani di un trafficante, che chiede altro denaro per portarlo verso Nord, verso Gao, da cui si entra nel Sahara. Il passeur che ha portato fin qui i migranti li passa, per altro denaro, a uno che è d’accor-do con la polizia: la strada prosegue nel deserto. Ma a qualche chilometro della città la polizia simula un controllo. Vengono fatti scendere e il camioncino riparte. Restano nel deserto. Sono molti chilometri: il ragazzo ce la fa, mentre altri crollano sfiniti. All’arri-vo alla città ecco altri poliziotti corrotti che prendono ancora il suo denaro e lo guidano in un quartiere ghetto, dove resta con altri migranti in una situazione di incredibile abbandono, senza cibo né igiene, in cui i migranti si arrangiano a sopravvivere. Possono passare mesi, prima che trovino un'altra guida che, naturalmente a pagamento, li riporti sulla strada verso il Marocco. Chi non ha denaro può restare nel ghetto anche anni.
Da questi ghetti di sosta, di cui è cosparsa la via dei migranti, chi riesce ad avere i mezzi esce per proseguire. Accade, per esempio, che da uno di questi centri, Maghnia, in Marocco, un gruppo riesca a partire a piedi, con una guida che prende il loro denaro. Nel gruppo ci sono anche alcune donne. Due giorni di cammino, poi alla frontiera un controllo: chi paga abbastanza passa, ma molti sono semplicemente abbandonati nel deserto, senza cibo né acqua. Un buon numero muore nel deserto, e nessuno ne sente più parlare. Non le donne, però che hanno sempre un modo di sopravvivere durante il viaggio: prostituirsi.
Per arrivare all’Europa i punti più favorevoli del Marocco sono Ceuta e Melilla, perché, benché in territorio marocchino, appartengono alla Spagna. Chi riesce a raggiungere il confine trova le barriere: sono barriere alte 6 metri, rivestite di filo spinato; sono doppie, e tra le due ne sorge un’altra alta 3 metri. Sono munite di sensori e radar. Sono state costruite con i finanziamenti dell’Unione Europea per questo scopo.
Sulla via per raggiungerle sorge una collina boscosa, Gourogou. Qui da anni si è formata una comunità di migranti, che sostano vivendo in capanne e baraccopoli in attesa di avere la possibilità di andare avanti nel viaggio. Si sono organizzati e vivono pacificamente, sia pure tra stenti Ma nel 2005, una notte di febbraio, 1200 soldati marocchini, con fuoristrada ed elicotteri, arrivano e distruggono tutto. Vi sono vittime e dispersi, ma i più sono arrestati, condotti alla frontiera e abbandonati del deserto. Imprese come queste sono organizzate con il sostegno dell’agenzia Frontex dell’Unione Europea, che riceve da questa finanziamenti per organizzare le repressioni dei movimenti migratori. Chi è restato nella zona tenta per disperazione uno sfondamento collettivo delle barriere. Un unico gruppo di 500 giovani si getta contro di esse, e c’è chi riesce a passare, ma molti si feriscono gravemente. Seguono nuovi arresti, violenze e deportazioni, che significano la morte nel deserto. In molte zone dell’Africa espulsione significa abbandono e morte.
Per chi arriva sulla costa, il viaggio in barca comporta un altro sfruttamento da parte dei trafficanti, e infiniti pericoli. Non si riesce a calcolare quanti anneghino ogni anno nel Mediterraneo o nell’Atlantico, perché molti tentano di arrivare in barca dalle Canarie.
Se e quando arrivano li attende il respingimento della cui efficienza i governi europei si vantano. Su questo non mancano particolari nei nostri giornali proprio in questi giorni, in cui i fatti confermano come le disumane azioni per fermarli non riescano certo a evitare che questo fenomeno continui e si ripeta.
Mentre ero sotto l’impressione di questi racconti, mi è capitato di sentire per radio (era la Giornata del ricordo) una intervista a una sopravvissuta della Shoah. Era una donna poco più anziana di me, ma molto vivace e spontanea, originale e comunicativa nei suoi ricordi. Alla fine la giornalista le chiede quale sia stata per lei, in mezzo agli orrori di cui aveva parlato, la cosa più terribile. Dopo una breve riflessione rispose pressappoco così: «Pensare che nessuno forse sapeva quello che accadeva a noi. Il senso di essere dimenticata e ignorata, di essere assolutamente sola, perché gli altri non sapevano, o se lo sapevano, perché nessuno faceva qualcosa per aiutarci?» Probabilmente il povero africano abbandonato nel deserto non ha di questi pensieri: il suo tipo di cultura forse non è tale da suggerirglieli in questa forma. Però noi sappiamo.
 
 
UN PENSIERO SULLA GUERRA
Negli scritti del più grande filosofo taoista, Chuang Tzu, si trova questa storiella sulla guerra. Leggiamo questa opinione cinese del III secolo a C.
Quando il grande re King Tan-fu viveva nel paese di Pin, le tribù Ti attaccarono il suo territorio. Egli offrì loro pellicce e sete, ma le rifiutarono. Offrì loro cani e cavalli, ma li rifiutarono. Offrì loro perle e giade, ma le rifiutarono. Ciò che le tribù Ti volevano era il suo paese.
Il grande re King Tan-fu disse: «Vivere tra i fratelli maggiori e mandare i loro fratelli minori alla morte; vivere fra i padri e mandare i figli alla morte: questo non posso sopportarlo! Popolo mio, sii diligente e tranquillo, rimani dove sei. Che differenza fa se siete miei sudditi o sudditi degli uomini di Ti? Ho sentito che è stato detto: “uno non deve fare del male a ciò che sta nutrendo per amore di ciò con cui lo nutre”». Poi, usando la sua frusta come bastone, se ne andò.
Si può dire che il grande re King Tan–fu sapeva come rispettare la vita. Colui che sa come rispettare la vita non permetterà che i mezzi che dovrebbero servire per nutrire la vita facciano del male.
Il saggio guarda all'inevitabile e decide che non è inevitabile -perciò non ricorre alle armi. L'uomo comune guarda all'inevitabile, decide che è inevitabile e per questo fa spesso ricorso alle armi. Chi ricorre alle armi va sempre in cerca di qualcosa che non può trovare. Chi ricorre alle armi è perduto.
MISURE CINESI
Sandro Fazi
Mi è capitato recentemente di rilevare dalla stampa di settore la notizia che tre gigantesche navi portacontenitori sono attualmente in servizio nella rotta dalla Cina orientale alla costa californiana. Le navi operate da un armatore norvegese sono state studiate appositamente per tale traversata; le caratteristiche tecniche sono impressionanti per dimensioni, potenza dell’apparato propulsivo, velocità, attrezzature e soprattutto per la capacità di trasporto che è di 15000 contenitori, cioè oltre tre volte la capacità media delle navi tradizionali maggiori oggi in servizio. Oltretutto le nuove navi impiegano per la traversata quattro giorni in meno delle navi tradizionali. Questi mostri partono a pieno carico di prodotti vari dell’industria manifatturiera cinese, scaricano velocissimamente e ritornano al porto di partenza praticamente vuote, cosi viene riportato dalla stampa.
A parte il fascino dell’aspetto tecnico, mi sembra che la notizia dia in modo immediato e quasi tangibile, più forse di tante statistiche e studi di settore, la spiegazione delle difficoltà della moneta americana, della disoccupazione nella loro industria e delle preoccupazioni per gli effetti della globalizzazione nel mondo occidentale.
 
MILANO MERITA DI PIÙ
Giorgio Chiaffarino
Ai primi di febbraio ho letto un bel titolo su un giornale: Milanesi riappropriatevi di Milano! Io la capisco così: cari milanesi, quelli che sono rimasti, voi che siete stati accolti in questa straordinaria città da tutta Italia e anche dal mondo, ma soprattutto, chiunque tra voi le vuole bene davvero, si dia una mossa!
Ci sono certamente cinque punti capitali sui quali si deve puntare per rianimare questa città: aria pulita, occupazione, mobilità, periferie e cultura, ma anche sopra tutto quella trasparenza che non deve solamente essere invocata ma praticata sempre e sul serio. E sì perché Milano da gran tempo merita di più, molto di più da tutti, in primis dagli amministratori.
Detto questo però, ho quasi una ossessione che tutto copre e disgrega: la cementificazione selvaggia. In questi ultimi anni abbiamo visto speculazioni gigantesche innestate magari anche su problemi reali. Abbiamo visto costruire alla grande eppure abbiamo bisogno di case. Basta fare un giro e guardarsi attorno: vendesi, affittasi, uffici vuoti a bizzeffe, e non è solo per la crisi che pure esiste e pesa. Una bella divaricazione tra quello che servirebbe e quello che, lasciata la briglia sciolta ai soliti noti (costruttori), abbiamo visto sorgere. Mancano case popolari e ci sarebbero interi quartieri da ristrutturare, si dice che ci sia a Milano uno dei più grandi patrimoni di abitazioni popolari spesso degradate, occupate abusivamente e così via.
Siamo alla vigilia di elezioni, leggo e inorridisco: sarebbero in arrivo 18 milioni di metri cubi di cemento, in un certo posto 50 grattacieli, in un altro 650 mila mq. di abitazioni (e l'housing sociale?), in un altro ancora un milione di metri quadrati sarebbero in progetto. Capisco queste cifre come una sostanziale resa ai costruttori, tutti in difficoltà e alcuni ai limiti del dissesto, che devono pur continuare a gettare cemento se vogliono farsi credere vivi e in salute. Altro che la promessa di parchi ovunque!
Lo dico con il cuore, più che con la competenza tecnica che non ho: la città non deve estendersi di più, almeno nell'immediato. Aumentano magari le persone che vengono a lavorare a Milano e che penano l'inferno per i collegamenti deficitarii o assenti e ingrossano le teorie di auto nelle ore di punta, ma non si ha l'impressione che aumentino i residenti, sostanzialmente stabili intorno a 1.300.000 unità.
Così non dovrebbe essere necessario immaginare nuovi servizi, impianti, strade, trasporti, piuttosto migliorare e di molto gli esistenti che lo necessitano veramente.
Chi ha cementificato ieri, chi ha lasciato correre le cose al piacere dei poteri più che a quello dei cittadini, continuerà a farlo malgrado i magnifici programmi e le promesse. Si deve aumentare il verde, non togliere una pianta che è una, altro che aggredire il Parco Sud o consentire l'ennesima speculazione sui terreni post EXPO.
Siamo a Milano -ma vien da dire non solo a Milano- davanti alla assoluta necessità di un cambiamento. Qui forse potrebbero verificarsi le condizioni necessarie e sufficienti perché si realizzi. Solo che bisogna guardare avanti, cercare di capire il peso specifico delle coalizioni che si presenteranno al voto, i progetti per il domani, senza farsi ingabbiare da scelte di ieri…
Faccio volentieri un esempio: presidente della Repubblica, a suo tempo, è stato eletto Giorgio Napolitano. Sono sempre stato persuaso che fosse una scelta opportuna dell'uomo giusto al posto giusto. Ma quanti sono stati invece quelli che hanno detto subito: ahi, ahi, è un comunista, chissà dove andremo a finire… Per fortuna Napolitano, malgrado l'età, è ancora lì, presentissimo, costituzione alla mano, per difendere il più possibile, con il consenso sempre reiterato di una larghissima maggioranza di italiani, quel minimo di decenza istituzionale che ci possiamo ancora permettere.
Torniamo a Milano: qui potrebbe ripetersi più o meno la stessa vicenda. Purtroppo la storia, lo sappiamo, non insegna niente o molto poco per cui potrebbe verificarsi, mutatis mutandis, una analoga vicenda. Auguriamoci che gli scettici preventivi facciamo prima del voto adeguate riflessioni.
Certo le elezioni sono relativamente lontane. Ci sarà certamente il modo di tornare in argomento: quelle di Milano, come si sa, non sono mai solo elezioni amministrative e mai elezioni solo milanesi per cui magari sarà anche utile l'intervento di altri amici lettori, milanesi e non solo.
 
 
LE TESTE PENSANTI
Franca Colombo
La ridondante esposizione di personaggi femminili discutibili, sulle prime pagine dei giornali e sul web ha avuto almeno un merito: ha riproposto all’opinione pubblica il problema dell’identità delle donne. L’immagine della donna, trastullo del sultano, ha provocato un sussulto di dignità nel mondo femminile. Giovani vecchie, laureate casalinghe, intellettuali e sportive, tutte hanno gridato la loro indignazione per lo scempio perpetrato da Berlusconi del loro ruolo nella società. Persino le suore di una comunità monastica di Caserta, che da anni si battono per ridare dignità alle ragazze vittime della prostituzione, oggi non possono tacere di fronte a questo degrado strombazzato come un vanto. Con stupore e incredulità assistiamo al risveglio di una coscienza femminile, che sembrava assopita dopo la morte del femminismo ufficiale. A Milano due eventi quasi contemporanei hanno riacceso i riflettori sulla realtà delle donne, oggi.
L’onda, Osservatorio Nazionale della salute della Donna, di matrice laica, organizza una serie di incontri su Le virtù delle donne a partire dalla carità. La Fondazione Lazzati, cattolica, prevede incontri su: Le donne nella Chiesa e nella società civile e politica. Interessante questa mescolanza di prospettive, che sembra proporre in campo laico una riflessione tipicamente religiosa e in campo religioso temi squisitamente politici. Che sia preludio di caduta anche di quel muro così difficile da abbattere tra le due anime del Partito Democratico? Che siano le donne che potranno unificare il partito?
Per onda il prof. Finzi presenta una ricerca dell’Università di Pavia che dimostra che le donne hanno abbandonato negli ultimi decenni il modello di carità vetero cattolica intesa come elemosina, scarico di coscienza, esibizione o acquisizione di meriti, per arrivare a una concezione di carità più ampia, certo più evangelica. Per il 70% delle donne, oggi, la carità parte dall’ascolto e dalla conoscenza dei bisogni dell’altro e, attraverso l’empatia, approda all’azione politica a favore delle fasce più deboli. Carità e giustizia non appaiono più, come un tempo, valori contrapposti, ma si integrano e sfociano nell’azione politica.
In ambito cattolico, sembra che le donne avessero già acquisito questa consapevolezza negli anni 70 ma poi siano rimaste bloccate dal contesto ecclesiale e magisteriale, ancora saldamente amministrato dagli uomini. La fondazione Lazzati presenta oggi un volume, scritto in quegli anni e uscito postumo nel 2010, Donnatra storia e profezia: percorsi di riflessione sul femminile di Gianna Agostinucci (pubblicato da AVE), una donna che già a quel tempo contestava il concetto di carità come oblatività totale, fino al sacrificio di sè, peculiare della donna e chiedeva politiche sociali a favore del lavoro extradomestico delle donne, cercando di conciliare i compiti di cura con la realizzazione di sè, il personale e il politico, la carità e la giustizia. Purtroppo, negli anni successivi, la Chiesa ha accantonato queste idee, mutuate dal femminismo laico, come ha accantonato il concilio Vaticano II e la sua valorizzazione della libertà di coscienza anche nei confronti del magistero. Teresa Ciccolini osserva che le donne hanno perso visibilità nei contesti pastorali, hanno abbandonato il ruolo di «teste pensanti» e hanno cercato ambiti di realizzazione fuori dalla Chiesa.
Succede così che oggi, in questi incontri di sapore cattolico, si vedono quattro vecchiette nostalgiche di una libertà interiore, intravista ma mai conquistata del tutto, mentre le giovani, raggiunta la libertà del corpo, salgano numerose alla ribalta dell’opinione pubblica per ruoli femminili ben lontani sia dal femminismo laico, sia dalla valorizzazione cristiana. Forse è arrivato il momento che la Chiesa istituzionale ripensi il suo approccio al mondo femminile, abbandoni l’idealizzazione della donna, da collocare sugli altari come entità astratta, vergine sacrificale, per concedere più spazio alle teste pensanti delle donne e ai loro problemi concreti, nel lavoro, nella casa, nella politica, problemi che ancora vengono totalmente ignorati nella omiletica tradizionale.
 
 
film insieme
IL CONCERTO (Le concert)
di Radu Mihaileanu, Francia 2009, uscita 5/2/2010, colore, 120'
Enrica Brunetti
Di Radu Mihaileanu, rumeno di origine ebraica (Bucarest 1958), trasferito a Parigi prima della caduta di Ceausescu, già conoscevamo Train de vie (1998), ironica e improbabile storia intorno all’olocausto, giocata tra l’irrealtà della favola e la tragedia del risveglio. E sono ancora l’ironia grottesca e il dramma della passione a intrecciarsi tra riso e commozione in questo film rivisto insieme. «In realtà il mio non è un melodramma puro -spiega il regista in un’intervista-, c’è anche una forte componente comica, perché questo è il cinema che amo maggiormente fare, quello che con ironia riesce a raccontare storie e personaggi complessi e drammatici». E aggiunge che l’elemento principale che lega i due film è «la volontà insopprimibile di affermare la propria umanità, la propria dignità anche muovendosi ai confini della menzogna».
L’inganno, questa volta, è di Andreï Filipov, il più grande direttore d'orchestra dell'Unione Sovietica all'epoca di Brežnev: dirige l’orchestra del Teatro Bol'šoj, ma viene interrotto nel mezzo di un concerto perché non ha espulso dall’orchestra i musicisti ebrei. Ora, trent’anni dopo, ridotto a uomo delle pulizie di quello stesso teatro, intercetta casualmente il fax di invito del Théâtre du Châtelet alla direzione del Bol'šoj: è l’occasione unica e irrepetibile per il riscatto. Riuscirà nel folle sogno di riunire l’orchestra di allora -i vecchi amici musicisti che, come lui, vivono facendo umili lavori- per suonare a Parigi, spacciandosi per l’orchestra ufficiale, per ritrovare quell’«ar-monia suprema» inseguita. Riuscirà così a terminare il concerto di allora, quando erano stati interrotti, il Concerto in re maggiore n° 35 per violino e orchestra di Cajkovskij.
Il film incalza lo spettatore con un'avventura piena di sorprese che diverte nell’assurdo delle situazioni e nell’ironia a tutto campo, dai nostalgici del comunismo alle manie di grandezza dei nuovi oligarchi fino allo spirito commerciale degli ebrei e alle lusinghe del consumismo occidentale, mescolandosi a momenti più seri e drammatici.
I musicisti si disperdono nelle strade di Parigi inseguendo i più strampalati traffici personali, tutto sembra andare a rotoli, eppure alla fine il maestro riuscirà a riunire la sua orchestra e a iniziare il sospirato concerto. L’avvio è disastroso, ma le note della giovane violinista-star Anne Marie Jacquet, la cui vita custodisce un doloroso segreto che la ricongiunge alla storia dell’orchestra, consente all’armonia della musica di librarsi nell'aria: i musicisti tutti, ebrei o zingari che siano, ritrovano l'accordatura interrotta dalle persecuzioni, il passato e il presente si fondono, le storie arrivano a compimento, il sogno si realizza, Cajkovskij trionfa e la commozione si scioglie in lacrime. «Il mio è un film decisamente emozionale. Credo che la sua anima sia molto radicata nella cultura e nel modo di vivere dell’est, slavo in particolare, che spesso si spinge fino agli estremi».
Noi commentiamo positivamente la storia improbabile e i personaggi in genere riusciti, ma restiamo perplessi sulla tenuta del racconto e sulla effettiva integrazione degli stili narrativi. Dramma e farsa non ci sembrano fusi in una unità pienamente ottenuta.
A margine, osserviamo che l’orchestra ci sembra l’unica forma di comunismo possibile, capace, almeno nel film, di tenere insieme personaggi eterogenei, di abbattere barriere sociali e culturali, di far crollare, insomma, diversità apparentemente insormontabili.
nel deserto m.z.
LA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI - cap. 14 - 17,5
C'è inquietudine nelle tribù di Israele. Nasce dal senso di paura, di mancanza di futuro, e genera delle ribellioni al Signore. Le tribù sono state ingolosite e, nello stesso tempo, spaventate dai messaggeri: nella terra davanti a loro, che l’Eterno ha promesso, scorre latte e miele; ma questa terra è abitata da giganti che la difendono con violenza. Le tribù si rivolgono al Signore, che non risponde come vorrebbero; e perdono la fiducia in Lui. Il Signore, in realtà protegge il popolo nel deserto: manda una nube a coprirlo di giorno e il fuoco a illuminarlo la notte, ma non è creduto e non basta. E allora si indigna: «Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? E fino a quando non avranno fede in me, dopo tutti i miracoli che ho fatti in mezzo a loro?» E scatena la sua ira: «Nessuno di voi arriverà alla Terra Promessa». Saranno i figli a prenderne possesso.
In questi capitoli viviamo l’alternanza di ribellione degli Israeliti e di punizione e risentimento del Signore. La scansione è sempre lenta; dà spazio per riflettere a chi legge e di lasciare entrare nel cuore pensieri: su allora, su oggi. Leggiamo della costante, ininterrotta, tenace negoziazione di Mosè: «Perdonali! Che cosa diranno gli Egiziani di te, che non hai saputo condurre il tuo popolo nella Terra?» Mosè come Abramo, come Giobbe, non molla. Si affida all’Eterno, nonostante lo scoramento, la sfiducia, la solitudine. E il Signore perdona, ma esige risposta e pone le sue condizioni.
Abbiamo letto questi capitoli su una Bibbia ebraica, ed è stata ancora più marcata la differenza tra la percezione dell’Eterno da parte degli ebrei e il rapporto con Dio predicato da Cristo. L’ira del Signore degli Ebrei verso chi si ribella è molto diversa dal rapporto uomo-Dio del Nuovo Testamento. Lì le regole devono essere accettate, rispettate e non discusse. Qui è data all’uomo una nuova centralità. Lì il mancato rispetto del sabato porta alla lapidazione, qui sta scritto: «Il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato». E allora qual è il senso di questo libro per noi oggi?
Ci aiuta la consapevolezza che ci sono tre livelli di lettura, che non devono essere confusi:
  1. storico: i fatti narrati;
  2. religioso: che cosa impariamo sul modo di vivere il rapporto con il Signore da parte di Israele;
  3. spirituale: che cosa può dire a noi, oggi, questo testo, per certi aspetti anacronistico.
La Sacra Scrittura è costituita da storie scritte da uomini di quei tempi, che si riferiscono a domande, che l’uomo si è posto allora; sono scritti che cercavano di rispondere ai bisogni di allora, a come collocare il Signore nella vita di ciascuno. Nei Numeri, l’intermediario tra gli uomini di Israele e il Signore è voluto da Lui senza negoziazioni. I leviti e i sacerdoti hanno un ruolo e un’impor-tanza non negoziabile. Ma oggi? Chi sono i sacerdoti? Quali sono i nostri interrogativi? E i nostri bisogni?
Sappiamo che la Bibbia non è «Parola del Signore», ma parola di uomini, di cui «Dobbiamo essere grati al Signore». Molti interrogativi, ricorrenti nella lettura dei Numeri, si sono pertanto aperti, direi riaperti su questi tre capitoli:
  • Il rito: le frange e gli incensi ci aiutano a creare un ambiente che ci consenta di parlare con il Signore, ma possono anche essere abusati e darci la tranquillità che, utilizzandoli, siamo a posto con Dio.
  • I segni esteriori sono stati visti come un bisogno per ricordarci lo Spirituale. Anche oggi? L’esteriorità, così tanto usata da una gerarchia che sentiamo, spesso, distante è di aiuto o un eccesso senza valore, anzi controproducente?
  • La punizione: è un deterrente pedagogico o ha un valore etico in sé? Quanto è importante il deserto nella crescita spirituale?
  • Chi è sacerdote oggi? Giovanni ha scritto:«È giunto ilmomento in cuiné su questo monte, né in Gerusalemme adorereteil Padre». E dove allora?
È stato detto che la verità è come un vaso che si rompe in cocci, ciascuno dei quali ne contiene una parte; che l’importanza non sono le realizzazioni, ma il cammino. In questo libro il cammino è presentato in tutti i suoi aspetti, implicazioni, dettagli, deviazioni. Mosè non ha mollato. E noi?
segni di speranza s.f.
NEPPURE IO TI CONDANNO: VA’ E D’ORA IN POI NON PECCARE PIÙ
Giovanni 8,1-11
Facilmente possiamo sentirci immedesimati nei soggetti del noto racconto della adultera perché tutti, inevitabilmente, viviamo l’ambiguità di essere giudicati e giudici: non possiamo essere sempre giudici. Anche Gesù è stato giudicato ed è finito sulla croce. Nel racconto, il momento del giudizio è ben dissociato da quello della condanna. Il primo è probabilmente sempre necessario perché, senza il giudizio, considereremmo l’altro insignificante, forse inesistente; non si avrebbe la relazione che invece è necessaria per la vita dell’altro, come forse anche per noi stessi. Nel racconto, invece, il secondo momento, quello della condanna, non è descritto, Gesù non la manifesta. Al centro di questa parte del racconto risalta il bellissimo invito: «Va’, e non peccare più». È il momento della liberazione, in cui viene restituita, a chi si sente colpevole, la libertà, la vita; l’altro viene restituito a se stesso. In ogni episodio di questo tipo, infatti, c’è un danno oggettivo e un guasto interiore. In questo caso di adulterio, la colpa può essere costituita dalla offesa all’amore o all’onore di qualche persona coinvolta; come pure il mancato rispetto di alcune prescrizioni della scrittura (in un contesto ebraico Nm 5; Dt 22 e altri).
Secondo il racconto di Giovanni, questa dimensione religiosa dell’errore commesso può essere anche interamente annullata, come se non ci si fosse mai stato. È quell’atto straordinario che forse chiamiamo remissione della colpa, che libera l’altro dall’onere che lui ritiene di aver contratto verso il Signore, verso di noi, e verso se stesso. Comunque tutto il processo non è accompagnato da una condanna; forse questa è costituita dalla raggiunta consapevolezza dell’errore: è come se, riconosciuto questo, ciascuno si assegnasse autonomamente una pena interiore definita in base alla propria coscienza e sensibilità. Questa condanna può prendere la forma del rimorso, del rimpianto, della nostalgia, che sono i sentimenti che spesso ritornano nelle confessioni di molti condannati, di molti carcerati e costituiscono forse la punizione più severa e permanente.
Questa analisi è molto complessa e delicata e non può essere avvicinata senza competenza ed esperienza specifica, quello che interessa comunque tutti noi è che l’esempio proposto ricorda la necessità di avere una grande apertura del cuore e della mente in queste situazioni, cioè generosità, misericordia, giustizia anche perché, come si diceva, siamo tutti nella situazione di essere giudici e giudicati. Il cammino è arduo, ma non sono indicate alternative. La condanna, secondo il racconto, non ci appartiene, si direbbe che è gestita dal Signore direttamente, forse nel segreto della interiorità.
In termini impropri, ma più adatti a noi, potremmo dire che è come se entro la nostra natura umana fosse custodito un codice del bene e del male con il quale verifichiamo autonomamente e automaticamente per confronto il valore etico, morale e sociale delle nostre azioni. Da questa verifica prioritariamente nascerebbe la vera condanna. In questa ipotesi saremmo i veri giudici di noi stessi. In questa valutazione abbiamo tuttavia necessità di un contatto con il trascendente che ci dia luce, onestà, e ci colleghi con la radice della nostra natura perché proprio in questa operazione potrebbe essere nascosta la nostra «dimensione religiosa» secondo la definizione di Panikkar.
Penultima domenica ambrosiana dopo l’Epifania
schede per leggere m.c.
Più che un romanzo,Io e tedi Niccolò Ammanniti (Einaudi, 2010, pp. 116, euro 7,50), è un breve testo sul il disagio di un giovane alla ricerca della normalità.
Il quattordicenne Lorenzo, che da sempre ha serie difficoltà a mettersi in relazione con il mondo esterno, ha imparato a nascondere questa sua nevrosi con l’arte di mimetizzarsi. Ai genitori, ansiosi di vederlo inserito nel mondo dei coetanei, racconta di un improbabile invito a Cortina, da parte di alcuni compagni di scuola, per trascorrere la settimana bianca; e, per tener fede alla bugia, si rifugia in cantina munito di bibite e scatolette di cibo. Lì però sarà costretto a ospitare la sorellastra, tossicomane, alla quale è legato solo da lontani ricordi risalenti ai tempi della nonna: così la necessità di aiutare la giovane, in preda a una crisi di astinenza, lo aiuterà a uscire dal bozzolo.
Il libro si legge in un baleno, ha avuto grande successo di pubblico, anche se il racconto di alcune patologie della gioventù di oggi non mi pare abbia quell’originalità che molti gli attribuiscono.
Alan Bennett è un famoso scrittore inglese noto per aver narrato, con sguardo acuto e beffardo, personaggi e situazioni della vita comune, colti con una ironia a volte feroce (v. Nudi e crudi, La cerimonia del massaggio e La sovrana lettrice, in Notam n. 300). Giunto all’età di sessanta anni, contravvenendo al suo stile, ha scritto, in Una vita come le altre (Adelphi, 210, pp. 172, euro 17,00) di sé e della sua famiglia. È stata, questa, «come le altre», anche se, invero, con caratteristiche non molto comuni: particolari, infatti, erano l’amore incondizionato fra il padre Walt e la mamma Lilian, la loro reciproca dedizione, il legame stretto con i due figli, educati a uno stile di assoluta riservatezza. Proprio nella famiglia, però, c’era un segreto, il suicidio del nonno per depressione, probabile origine della malattia di Lilian, soggetta a ricorrenti, gravi crisi depressive.
Il libro inizia, appunto, con un ricovero in ospedale; ma i ricordi finiscono per abbracciare la vita intera, percorsa con distacco dell’autore, che rievoca molti avvenimenti con il suo tipico spirito, caustico e divertito. A volte, però, il dramma prevale, e il racconto del lungo soggiorno della madre in una casa di riposo, tratteggiato con apparente freddezza, non riesce a nascondere la disperazione per la sua inutile, assurda attesa in quello squallido luogo di morte. È una verità durissima, nota a chi conosce questi luoghi, dove le persone non sono più le stesse, viaggiano lontano in un mondo inesistente, sensibili solo alla carezza tenera di chi le assiste. Dopo questa esperienza, si impara, dice Bennett nel fare cenno alla propria omosessualità, a non curarsi più di «quello che ne pensa il vicinato»; mentre la sua preghiera, alla tomba dei genitori, si esprime in un banale «ecco fatto», amara consolazione di fronte alla fine.
la cartella dei pretesti
Sonia una giovane vita, un’attrice schiacciata da un’automobilista ubriaco. Un Paese in cui i giovani, a loro volta vittime di un a totale assenza di stimoli, di curiosità, di passioni, si trovano a vagare, magari a velocità sostenuta e alterati da non so quali sostanze. Annoiati, senza scopi, senza ragioni per combattere e costruire una proposta di qualsiasi tipo. Ed è sufficiente che il demone del vuoto sbandi, per strappare una vita.
ANDREE RUTH SHAMMAH, Sonia travolta da un semaforo, Corriere della sera, 2 febbraio 2011.
Nel prossimo referendum alla Fiat, gli operai dovrannoaccettare per poter lavorare ancora, le condizioni imposte da Marchionne, lui stesso strumento della globalizzazione senza legge. Sosteniamo le ragioni morali e civili di chi si oppone, senza possibilità reali. Bisogna porre leggi e limiti alla forza bruta del capitale globale. Se ora non si può, ora si deve volerlo e dirlo, e non rassegnarsi all’esistente. Una linea di ricerca è il tema, finora appena accennato, dell’applicazione dell’art. 46 della Costituzione. E ripensare tutti, sia manager sia lavoratori, che non è più il caso di costruire tante auto, ma semmai sistemi ecologici».
LA REDAZIONE de Il foglio, mensile di alcuni cristiani torinesi, gennaio 2011.
Pietà per Karim El Mahroug, detta Ruby, che ha conosciuto fin troppo l’umana miseria -materiale e morale- nei suoi pochi anni di vita. E pietà per tutte le altre. Italiane o straniere, con o senza il permesso di soggiorno. Gravate da figli non desiderati, e magari tolti loro con l’affidamento sociale, oppure da genitori che le darebbero volentieri in pasto a un uomo che ha cinquant’anni più di loro, pur di trarne un riscatto economico dopo una vita di stenti. Pietà per le ragazze che, a decine, all’incirca una volta la settimana, affollavano le residenze di Silvio Berlusconi, convocate da reclutatrici più o meno loro coetanee, premiate con incarichi politici redditizi, esperte nel consigliere l’abbigliamento e i comportamenti necessari. Pietà, perché il rituale implicava una gara di seduzione grossolana, al termine della quale il premio a cui aspirare -e per cui combattersi fingendo divertimento- era passare la notte con lui. Cioè ricevere una busta di denaro più gonfia delle altre; magari l’equivalente di otto mesi di lavoro manuale, anziché solo di uno o due, come toccato alle escluse.
GAD LERNER, Abusi e infelicità, Nigrizia, febbraio 2011.
Hanno siglato le rubriche: Mariella Canaletti, Sandro Fazi, Margherita Zanol.
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
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7 marzo 2011 - S. Perpetua - Anno XIX - n. 369


 

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Martedě 08 Marzo,2011 Ore: 09:37
 
 
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