- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (261) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Notam,

Notam

17 gennaio 2011 - S. Antonio abate - Anno XIX - n. 366


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 17 gennaio 2011 - S. Antonio abate - Anno XIX - n. 366
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Fioretta Mandelli
Dedico le trenta righe all’avvenimento che mi ha più coinvolto e che mi preoccupa di più: quanto è accaduto alla Fiat Mirafiori. Non sono esperta di economia, ma mi sembra inevitabile che il mondo della produzione e del lavoro anche da noi risenta della crisi globale. La situazione positiva dei rapporti tra capitale e lavoro raggiunta in Italia non può restare ferma mentre tutto cambia. Esperti come Pietro Ichino ammoniscono che la situazione dei rapporti di lavoro deve evolversi, e che il problema va affrontato. Certe posizioni si devono rivedere prima di essere costretti a farlo dalla forza dei fatti. Abbiamo letto tutti le tabelle comparative della produzione delle stesse automobili in Polonia e in Italia: anche un inesperto capisce che lì c’è un problema. Ma quello che è avvenuto non è la soluzione: è un fatto grave e carico di minaccia.
Non ho paura di usare questa parola per avvenimenti che segnano una involuzione non pianificata e non concordata dei rapporti tra lavoratori e padroni. Mi ha meravigliato la scarsa differenza tra i (54%) e i no. Tanti hanno corso il rischio, votando no di perdere il lavoro, in questi tempi sommo bene. Ma la maggioranza ha di fatto accettato di perdere diritti che avevano segnato una conquista sociale, umana e anche democratica. Lotte condotte con tenacia e intelligenza, con impegno per la giustizia e l’uguaglianza, per la qualità della vita, avevano raggiunto obiettivi che ora vanno perduti. Ne vedo nascere disagio e inquietudini per tutti.
Diamo la colpa a Marchionne? È lui lo squalo? Lui fa il suo mestiere. Io vedo la colpa di quei pesci grossi che non mordono come squali, ma che se ne stanno sul fango del fondo, nella loro incapacità, indifferenza, incompetenza Anzitutto, il governo: se vince il no, afferma con leggerezza Berlusconi, è giusto che la Fiat se ne vada dall’Italia. Queste parole sono l’ennesima ammissione di disinteresse e incapacità verso il suo compito. Il suo governo non ha previsto né affrontato con una strategia attuabile le conseguenze della crisi nel nostro paese: le ha solo negate con sorrisini e barzellette. Ed ecco il commento del ministro del welfare (!) Sacconi: «I cambiamenti nella produzione nella organizzazione del lavoro sono imposti dall’andamento del mercato». Vale a dire: ecco che finalmente si vede come tutte le sciocchezze e illusioni nate dal comunismo (direbbe B.) crollano. Vi eravate illusi che anche il lavoro avesse qualche cosa da dire di fronte al potere del mercato, che la persona contasse di fronte al profitto di pochi.
Sacconi è esponente di un partito di destra. In Italia non ci dovrebbe essere una sinistra? Non è il primo dovere di una opposizione di sinistra essere consapevole che davanti alla crisi deve impostarsi un dialogo che porti a una soluzione concordata e accettabile? Ma la nostra sinistra non è stata capace di adempiere al suo compito. La globalizzazione a cui si è sovrapposta la crisi economica impone di pensare, comunicare e mettere in atto una strategia per guidare attraverso le trasformazioni proprio le classi più deboli, chi rappresenta il lavoro e la persona nel confronto con gli interessi del capitale. Questo il dovere della sinistra, anche a costo di fare accettare ai lavoratori che la crisi richiede sacrifici a tutti. Ma solo politici onesti e competenti possono proporre sacrifici che siano il più possibile equi, e soprattutto che contengano semi di futura ripresa e di progresso, che non siano il regresso oppressivo di una parte.
in questo numero                             
U. Basso E. Brunetti TRA IL DESERTO E GERUSALEMME uF. Mandelli DEDIZIONE E AFFETTO NON BASTANO uSOGNIAMO UNA CITTÀ DI TELECAMERE? u E. Peyretti LA NONVIOLENZA È PIÙ DEL PACIFISMO u F. Colombo QUANDO IL NATALE È SENZA NASCITE u M. Zanol UN GESTO DI RICONOSCENZA SEGNO DI PACE usottovento g.c.u segni di speranza s.f. u  schede per leggere m.c. u la cartella dei pretesti
TRA IL DESERTO E GERUSALEMME
Ugo Basso e Enrica Brunetti
Non c’era caldo lungo i molti chilometri di deserto attraversati al di qua e al di là del Giordano. A Petra come a Gerusalemme l’inverno, pur se non lombardo, è rigido: reale, dunque, e non solo immagine di presepe e canti tradizionali, il bisogno di riscaldare quel neonato Gesù almeno al fiato di animale. Un asino e un bue di emergenza, un calore forse non troppo igienico, ma così espressivo nella stalla più rappresentata della storia. Un riparo trovato da Giuseppe, turbato dagli eventi, forse a stento, forse nell’ambiente più caldo e appartato nella casa dei parenti di Betlemme raggiunti in occasione del censimento.
Di Petra avevamo le inevitabili immagini di repertorio e dei Nabatei, suoi costruttori e abitatori, solo qualche nozione, così l’emozione del reale è stata forte: ti pare, come spesso in questi siti archeologici di grande suggestione e di fama universale, di irrompere in un altro tempo, di violare in qualche modo intimità silenti da secoli. Entri in un territorio altro e in qualche modo arcano, vuoi capire e conoscere, cercare le tracce dalla gente che qui ha lasciato i segni di una remota quotidianità. Siedi sulle gradinate del teatro, penetri tombe, ti aggiri fra resti di colonne: ciò che è vuoto era vita, passione, sentimenti, paure, speranze, rivalità, successi… Cerchiamo di apprezzare e ricostruire con le nozioni della guida e qualche rudimento di archeologia, di ritrovare le stratificazioni: Nabatei, ellenisti, romani, bizantini, arabi…, lasciti importanti, spesso ancora percepibili nella bellezza in cui sono stati pensati e costruiti. Il tempo non basta e il più, forse, sfugge, ma negli occhi restano vividi i colori che la luce del tramonto sa accendere caldi e mutevoli nell’arenaria di questi luoghi.
E così il deserto: dove la bellezza è tutta della natura, incontaminata apparentemente, in realtà, ci assicura la guida, pullulante di testate atomiche -almeno nella parte israeliana- nascoste agli occhi turistici. Il grande deserto, scenario dell’esodo del popolo ebraico che nei quarant’anni dell’attraversamento prende coscienza del suo essere popolo, popolo prediletto da Dio per la missione di testimoniarne l’esistenza alle genti. Storico o meno che sia il lungo dettagliato racconto biblico, databili o meno i singoli episodi, i nomi che incontriamo sono di alta suggestione, nomi fatti familiari dalla frequenza di quelle pagine, dall’iconografia sterminata che per secoli ne ha tratto alimento. Fino al monte Nebo, dove Mosè è morto dopo aver contemplato la terra data dal Signore al popolo, ma a lui preclusa: una visione suggestiva, appena velata dalla foschia, fino al Giordano, al Mar Morto, carica di significati e di sofferenza.
Da lì la discesa al Giordano, alla inospitale boscaglia del Battista e al luogo del battesimo di Gesù e della rivelazione: luogo tuttora selvaggio, qualche costruzione religiosa in territorio giordano e arroganti postazioni militari in territorio israeliano. Nessuna certezza archeologica sulla rispondenza di quei luoghi ai riferimenti evangelici: ma, se spegni l’audioguida, quei luoghi lasciano la sensazione che qualcosa di straordinario possa esservi accaduto. Che sia dove indica la tradizione o duecento metri più a monte o più a valle nulla toglie all’emozione. Non è qui la ragione per credere. Evocare atmosfere, pensare di essere presente dove si collocano accadimenti tanto familiari e importanti è certo di alta suggestione, ma uno dei caratteri più importanti del cristianesimo è il non essere vincolato a nessun luogo. Solo l’uomo è il luogo autentico della rivelazione. Intanto, davanti a noi, il fiume scorre esiguo, fangoso e impoverito d’acqua verso il mar Morto, poco più in là, destinato, ci dicono, a estinguersi.
Durante la lunga sosta al check point del ponte Allenby, non abbiamo sentito la gioia di sostare alle porte di Gerusalemme, ma la tensione della frontiera: concluse le operazioni, sfiorando Gerico, nel buio della sera, saliamo alla città santa. Pochi minuti di pullman dissolvono l’emozione della salita a quella Gerusalemme ieri e oggi fra i luoghi più contesi, ricercati, combattuti della terra: un toponimo che include la stessa radice del nome di Dio, el, e il sostantivo evocatore della pace, shalom; la città che forse ha un nome plurale per indicare insieme la sua terrestrità e la sua celestialità; «salda e ben costruita», assicura la Bibbia, e distrutta innumerevoli volte; la città che nella visione profetica di Isaia sarà splendente meta dei popoli, sulla cui rovina Gesù versa lacrime e che la fantasia visionaria di Giovanni vede scendere dal Cielo. Gerusalemme è tutto questo e di tutto questo emoziona ogni volta che la si percorre, con le sue contraddizioni, le memorie stratificate e le sofferenze infinite imposte nei secoli da chi ne ha provato fascino e attrazione.
Per i cristiani racchiude gran parte dei luoghi legati alla vita di Gesù, dal tempio agli ulivi del Getsemani, al Golgota, al sepolcro, luoghi ancor oggi oggetto di contesa fra le diverse confessioni. Luoghi evocativi dei nomi che portano, ma quasi senza possibilità di seria identificazione in una città tante volte distrutta e dai soldati dell’imperatore Adriano sistematicamente rasa al suolo. La dettagliata grande ricostruzione della città erodiana, realizzata nel museo di Israele, permette di studiare le dislocazioni nella città e le differenze con il presente: lo stesso impianto della città che ammiriamo oggi risale, prima delle aggiunte moderne, al sedicesimo secolo di Solimano il Magnifico. Del tempo di Cristo, di certo restano solo il celebrato basamento occidentale del tempio e pochissimo altro, nonostante la scrupolosa, ma sprovveduta, ricerca della madre dell’imperatore Costantino.
Ancora una volta a Gerusalemme e in quei luoghi, comunque di profonda suggestione, viene da chiedersi con inquietudine se le lunghe rumorose file di pellegrini, i piccoli riti personali celebrati accanto alle presunte reliquie non suppongano una religione diversa da quella cristiana, una religione delle cose e non dello spirito. «Non su questo monte né a Gerusalemme adorerete il padre», dice Gesù alla samaritana e questa rivelazione dovrebbe sempre essere ben presente a chi visita i luoghi sacri o anche celebri santuari. Forse, riconoscere che qualunque messa realizza la presenza del Signore più del cenacolo ricostruito dai cavalieri crociati libererebbe la fede da tentazioni fondamentalistiche.
Oggi i fondamentalismi cristiani, responsabili su queste terre di infinite violenze nei secoli passati, sono meno aggressivi di altri che proprio qui di continuo giungono allo scontro cruento, con atti di terrorismo e rivalse di ogni genere. Ma la religione è difficilmente distinguibile dalla politica, dal razzismo, dai condizionamenti internazionali. Per le vie di Gerusalemme, saldamente in mano israeliana, e ancor di più nelle località palestinesi, a Ebron, -dove perfino le tombe dei patriarchi sono divise in due e militarmente difese- o a Betlemme, la tensione di cui leggiamo si fa palpabile nella presenza militare, negli esasperanti controlli ai passaggi, nelle aggressioni di cui ci raccontano la guida e i frati custodi della Terra santa. Che lo stato di Israele oggi, anche al di là dei suoi fondamenti storici, debba essere riconosciuto non pare dubbio: ma il riconoscimento vero, l’unico che possa far sperare nella pace, sta nel creare un’atmosfera di tolleranza, di accettazione delle differenze, nella convinzione della reciproca necessità. Provocatoria o segno di speranza la scritta, di mano araba sotto gli occhi delle sentinelle israeliane, sull’alto muro che circonda ostile Betlemme: «With love and kisses – Nothing lasts forever» (Con amore e baci, nulla dura per sempre)?
 

Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.

 
DEDIZIONE E AFFETTO NON BASTANO
Fioretta Mandelli
Storia di una vita - Quando ero adolescente e ho ricevuto attraverso lo scoutismo la formazione personale che ha contato di più dopo quella della famiglia, uno dei valori fondamentali che mi è stato trasmesso è l’idea del servizio. Cioè della convinzione che nella vita di una persona, oltre la professione e la famiglia, ci debba sempre essere, uno spazio per fare qualcosa gratuitamente per gli altri, al di fuori dei normali doveri familiari e professionali. Per me l’idea di volontariato ha sempre coinciso con questo principio. Durante gli anni dell’università il servizio mi è stato proposto dai capi scout, in base a quelle che sembravano le mie tendenze e capacità. Più avanti, lasciata ormai la formazione scout, toccava a me decidere se e come restare fedele a questo dovere. Nella mia storia personale, una volta cresciuta, vi è stato però un lungo periodo in cui gli inizi della professione di insegnante, poi il matrimonio e i figli, mi hanno tolto non solo lo spazio materiale, ma soprattutto lo spazio psicologico e spirituale in cui collocare qualcosa d’altro: gli impegni casalinghi e soprattutto materni mi hanno polarizzata (troppo). Quando ho cominciato a ritornare me stessa dopo questo periodo di cova, sono seguiti molti anni in cui la mia professione mi ha coinvolto e appassionato riempiendo tutti gli spazi disponibili della mia vita, direttamente o indirettamente. In quegli anni (gli anni sessanta, anni della riforma e della trasformazione davvero profonda della scuola dell’obbligo) mi sono consapevolmente riproposta l’idea di un dovere di servire gli altri, ma mi sembrava chiaro che proprio l’impegno nel mio lavoro fosse il mio servizio: valeva di più per cambiare il mondo di qualsiasi altra cosa potessi fare.
È stato il sessantotto (o, meglio, per noi gli anni settanta) che mi ha riproposto il problema in termini diversi: la mia scoperta allora della dimensione politica ha cambiato alcune prospettive. Così è arrivata la mia esperienza del corso serale per adulti al Quartiere Tessera. È stata una esperienza indimenticabile e che mi ha dato molto soprattutto attraverso i rapporti con le persone, sia quelle a cui insegnavo, sia quelle con cui ero impegnata a insegnare. È stato allora che mi sono posta per la prima volta due domande.
Domande ed esperienze - La prima è nata dalle discussioni di allora se fosse giusto e utile fare noi quello che lo stato non faceva per gli esclusi dalla scuola: non era più giusto costringere la comunità civile a fare il suo dovere, piuttosto che sostituirla dove era inefficiente? Allora i miei più giovani amici (io avevo già più di quarant’anni) pensavano che sarebbe stato meglio costringere lo stato, anche con una azione rivoluzionaria, a fare il suo dovere verso i poveri. Io ero incerta, ma intanto amavo e apprezzavo il lavoro che facevo ogni sera con operai, donne di casa, persone rimaste fuori dalla scolarizzazione, immigrati dal Sud, per cui entrare nel mondo della lettura e della scrittura era scoprire una nuova vita.
Sono arrivata allora alla seconda domanda: ciò che stavo facendo raggiungeva veramente dei risultati? Aveva certamente un valore umano e forse politico, ma quei miei scolari adulti imparavano davvero? Diventavano davvero padroni di quegli strumenti –la lingua e la cultura- senza cui sarebbero sempre rimasti degli esclusi? Mi sono accorta che insegnare ad adulti analfabeti di ritorno richiedeva capacità e tecniche diverse da quelle che a me derivavano dal saper insegnare bene ai ragazzi in una scuola, e che una organizzazione più efficiente e una preparazione seria di chi insegnava avrebbe portato a ben altri risultati. Poi quell’esperienza si è conclusa, come tante altre di quel tempo. Ma a me ha lasciato due convinzioni che hanno coinvolto tutta la seconda parte della mia vita: quella della necessità di insegnare a insegnare, e quella che era la scuola dell’obbligo il luogo in cui avrei potuto agire per impegnarmi davvero per i più deboli e per gli esclusi. Perciò ho rifiutato la cattedra nelle superiori, e per anni ho lavorato intensamente e appassionatamente per la formazione degli insegnanti di italiano, e per ricercare e creare strumenti per combattere nella scuola il primo fattore della esclusione, l’inferiorità nell’uso della lingua madre.
Quando a 65 anni la scuola mi ha mandato in pensione, ecco che il dovere del servizio si è fatto di nuovo sentire: avevo energie, capacità e tempo per tornare a occuparmi anche degli altri. Naturalmente ciò che potevo utilizzare era ciò che sapevo e sapevo fare. Ho lavorato in un doposcuola per un paio di anni: anche qui troppo spesso la dedizione e l’affetto non si univano, nei volontari, a una vera capacità. Questa volta mi è stato possibile, con altri colleghi, impostare, lavorando con la Caritas, una serie di attività di formazione didattica per i volontari e le volontarie. Poi è esploso il problema dell’ integrazione degli immigrati, e molte persone che mi conoscevano mi hanno chiesto di collaborare per insegnare loro la lingua italiana. In questo campo mi sono sentita però di nuovo una volontaria incompetente. Ho fatto del mio meglio: però mi rendevo conto di non possedere nessuna idea chiara e nessuna strategia per insegnare l’italiano come lingua seconda a persone per lo più ignoranti anche nella loro lingua madre, e senza conoscere affatto io le loro lingue, che in una classe erano tra le più diverse. È stato allora che ho incontrato il nascente progetto di «mamme a scuola». I lettori di Notam ne hanno già sentito molto parlare.
Qualche punto fermo - Vorrei ora dire qui sinteticamente ciò che penso sul volontariato, dopo le esperienze che ho raccontato.
§         Sono sempre dell’idea che la strada maestra per combattere l’ingiustizia sia l’impegno civile e politico (che ha moltissime facce)
§         Tuttavia, realisticamente, constato che una iniziativa gratuita dal basso non solo sia utile ai bisogni che esistono qui e ora (in attesa che le cose cambino lentamente), ma possa far nascere spunti creativi che la comunità civile può poi fare suoi.
§         Una persona che vuole fare volontariato lo fa, e lo fa bene, solo se ha nella sua vita un equilibrio e una completezza armoniosa: il volontariato non serve a distrarre dalle preoccupazioni, né a riempire ore vuote togliendo scrupoli di coscienza. Il volontariato deve far parte di un piano di vita personale consapevolmente disegnato.
§         La scelta del campo in cui impegnarsi non deve solo rispondere a un impulso: occorre avere un interesse per il lavoro che si va a fare, ma anche fare una scelta che nasca da una valutazione - questa sì politica- del bisogno .
§         Chi si impegna in un lavoro volontario deve avere verso questo un atteggiamento di tipo professionale: limitato alle sue possibilità, ma consapevole che fare un servizio al prossimo significa risolvere un problema, e questo richiede anche tempi di preparazione per l’ acquisizione di competenze e di disponibilità che alcune volte non si ferma alla fine dell’orario previsto.
§         Per ultimo, ma forse il più importante, mi riallaccio al primo punto: occorre privilegiare nella scelta di un servizio per gli altri quei progetti che sono suscettibili di diventare progetti di tutti. Ogni iniziativa che supplisce dove, per impossibilità o per scelta, non arriva la comunità civile, dovrebbe porsi lo scopo di diventare un modello riproducibile e utilizzabile nelle situazioni in cui sia presente lo stesso bisogno a cui si intende rispondere.
In questo senso appunto «la scuola delle mamme», in cui lavoro da sette anni, cerca di procedere, e di questo parlerò una prossima volta.
 

SOGNIAMO UNA CITTÀ DI TELECAMERE?
Ma a tanta brutalità quale rimedio? Abbiamo sentito le autorità, che sono al governo di questa nostra città, dichiarare con molta enfasi che a rimedio, per sconfitta della violenza, si sarebbero installate nel giro di poco tempo telecamere su tutti i taxi in servizio nella città. Per un attimo nel mio immaginario prendeva visione, quasi venisse alla luce della ribalta, l’immagine di una città grigia che si andava affollando di telecamere: a ogni angolo una telecamera, a ogni strada una telecamera, a ogni incrocio una telecamera, a ogni fiato di respiro una telecamera, a ogni sputo una telecamera. Una città di spiati, di sorvegliati rimedio e scudo alle nostre paure e alle nostre insicurezze. […]
Ma non era questa, a ben vedere, che una delle derive di un modo di pensare. O di non pensare? Non è forse vero che da mesi e mesi, forse anni, si va immaginando di dare sicurezza alle nostre città con pattugliamenti della polizia o con perlustrazioni di ronde di cosiddetti vigilantes? A qualcuno di noi, che ormai si sente razza strana, quando per disavventura capita di passare per strade cadenzate non da fiori o da alberi ma da sagome di camionette della polizia, si stringe, per deformazione direbbe qualcuno, il cuore. Non era l’immagine della città sognata […].
Quelli tra noi, che portano come me un carico non indifferente di anni sulle spalle, forse ricorderanno di aver visto nelle chiese di un tempo dominare dagli altari un grande triangolo rosso che raffigurava la Trinità e al centro un occhio, un grande occhio polifemico, attribuito a Dio: occhio che ti spiava, ti perseguitava con la sua implacabile fissità. Per grazia poi mi è accaduto di scorrere pagine e pagine della Scrittura sacra e di diventare sempre più consapevole che sulle pareti della storia non ci sono tracce di quello sguardo del terrore. Il volto di Dio che affiora dalla storia è il volto di un Dio di libertà, che dà ai suoi figli il sapore e il brivido della libertà. E dunque se su qualche brandello di muro del tuo passato o della tua memoria è rimasta traccia di un Dio che spia la libertà di noi umani, scrosta e ripulisci l’affresco, e appariranno tracce di un Dio geloso della tua libertà, un Dio che i suoi figli li vuole liberi, liberi da tutti i faraoni della terra. 
Angelo Casati

 
LA NONVIOLENZA È PIÙ DEL PACIFISMO
Enrico Peyretti
Certo, sarebbe più bello «concordare facilmente», ma non è sempre possibile, né giusto.
Il pacifismo, nel migliore dei casi, quando non è viltà e non è parziale, è ricerca massima di evitare la guerra, senza mai giustificarla. La nonviolenza è molto di più: essa identifica e vuole superare tutte le violenze, non solo quella bellica, paradossalmente (non suoni offesa) la meno grave e profonda. La guerra è solo la violenza più vistosa, più facilmente ripugnante e ripudiabile. Essa è la conseguenza e lo strumento delle violenze maggiori, più accettate e subìte: quella strutturale e, soprattutto, quella culturale.
Confondere pacifismo, nonviolenza, inazione, neutralità, rassegnazione, sottomissione, viltà sarebbe un grave semplicismo.
La nonviolenza è pensiero e azione. È il più prezioso frutto teorico e pratico del 900. Perché mai teorici e storici della politica ignorano così platealmente Gandhi e la ricca elaborazione e tradizione storica successiva? La cultura dominante, legata all’esistente e ai poteri di fatto, considera o tollera come naturale (quando non li esalta) il dominio e la violenza come strumenti del potere sociale e degli stati, e vede la violenza come regina della storia. Queste visioni sono radicalmente contestabili, ma con la fatica delle minoranze senza mezzi.
Non è vero, purtroppo, che «non c'è nessuno che non consideri incivile la prevaricazione violenta dei diritti altrui»: ci sono non pochi criminali economici, scientifici, filosofici, mediatici e politici che sulla guerra -cioè sulla morte e il vasto dolore di masse di persone umane, e sulla distruzione ambientale- calcolano il loro grande profitto, potere, influenza.
Quelle parole citate di Napolitano non sono l’ultima parola possibile. Il «dovere di contribuire alla stabilità e alla sicurezza della comunità internazionale» può essere pensato in termini militari solo entro l’ottica stretta della cultura militarista suddetta. L’Onu nasce per «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (prime parole dello Statuto). L’uso estremo delle armi può essere solo di polizia e non di guerra. Polizia e guerra sono differenti in essenza: la polizia -se è corretta- contiene e riduce la violenza, la guerra la accresce, perché premia il più armato e più violento. La guerra è «l’antitesi del diritto», ripeteva Bobbio. Tra guerra e ragione non c’è alcun nesso. L’Onu non può né fare né autorizzare azioni di guerra senza contraddire lo Statuto e lo scatto di civiltà umana che esso rappresenta. Le maggiori potenze militari non vogliono una vera polizia internazionale perché usano a utile proprio i problemi planetari di stabilità e sicurezza.
Le missioni militari attuali hanno forse tutte -come esige giustamente Sandro Fazi- «un evidente e non equivoco carattere difensivo e di aiuto a chi ha subito violenza»? Assolutamente no, per i mezzi e i metodi impiegati e per dichiarazione degli stessi che vi partecipano e ne sono utilizzatori e vittime.
Nel Kossovo, la esemplare resistenza nonviolenta popolare, quasi decennale, guidata da Ibrahim Rugova, è stata totalmente ignorata dagli stati e dai governi, che non hanno né occhi né intelligenza adeguati per riconoscere i conflitti nonviolenti, le lotte di «difesa senza guerra» (v. on line la mia bibliografia storica con questo titolo). Abbandonata dalla comunità internazionale, la popolazione kossovara-albanese è stata sopraffatta dalla sfiducia, è avanzata l’UCK (facilmente finanziata dall’esterno), e solo allora gli stati hanno visto e usato quel conflitto, perché capiscono solo le armi. La Nato ha fatto distruzione ingiustificabile, assai più che difesa dei diritti umani.
Amato ripete una già vista interpretazione tendenziosa dell’art. 11, comparsa per giustificare le nuove guerre degli anni ’90, volute dagli interessi militari quando l’89 aveva reso possibile il diritto internazionale di pace, finita la guerra fredda. Si veda la risposta di Zolo ad Amato, ma già di altri, prima.
Altro che «spiacevoli» le spese di 15 miliardi -sottratti alla vita del Paese- per gli F35, strumenti di pura guerra distruttiva, totalmente ingiustificabili! Come totalmente ingiustificabile è la base Usa (non Nato) di Vicenza Dal Molin, che governi di sinistra come di destra hanno subìto senza dignità né concetto giusto.
I mezzi e le esperienze storiche di lotte nonviolente sono crassamente ignorati, perciò non sono né predisposti né tanto meno sperimentati dai decisori politici. Le armi fanno più soldi, semplicemente. Si dice che non funziona ciò che non si sperimenta. Certo, occorre una cultura della società di ben altra qualità. Questo è l’impegno, infatti, della cultura della nonviolenza, che merita l’attenzione e lo studio delle persone serie.
Per approfondire: www.peacelink/peyretti ® http://www.peacelink.it/tools/author.php?u=63 (130 articoli) ® www.serenoregis.org ® www.ilfoglio.info

 
È disponibile il QUADERNO 7 di Notam
MALE COLPA PECCATO
convegno di Montebello 5-6 giugno 2010
Il gruppo del Gallo di Genova e Quelli di Notam di Milano si interrogano su diversi aspetti della realtà del male nell’esperienza dell’uomo nell’ordine esistenziale, psicologico, giuridico e religioso.
Interventi di
Fioretta Mandelli, Francesco Ghia, Vito Capano, Angelo Roncari,
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso

 
QUANDO IL NATALE È SENZA NASCITE
Franca Colombo
Quali simboli, quali linguaggi, quali personaggi possono essere rappresentativi del Natale per i giovani e gli adolescenti di oggi? I Pastori sono ormai un mito, ma come tutti i miti sono lontani dalla cultura attuale. Allora che cosa è vicino? Chi è vicino al mondo giovanile tanto da poter comunicare stupore e gioia come quella vissuta dai pastori? Dove deve nascere il Salvatore per farsi raggiungere dai giovani? O forse la distanza è tale oramai che i ragazzi non vogliono raggiungere alcunché al di fuori dei loro idoli consumistici?
Li ritrovo al pranzo di Natale: banditi ormai i canti tradizionali, bandite le poesie dei bambini in piedi sulla sedia, trovo i ragazzini più piccoli ammassati attorno al computer per intercettare su you tube il gioco del caraoke: cliccano, si inseriscono, cantano tutti insieme alcuni motivi natalizi, rigorosamente in inglese; leggono le parole sullo schermo accompagnate dalla base musicale che evidenzia anche i tempi e le pause del brano. Beh, anche questo è un momento di aggregazione felice per i più piccoli. 
Noi anziani fatichiamo a mantenere il ritmo e a tradurre velocemente dall’inglese il significato del testo. E gli altri? i giovani, i famosi diciottenni dove sono? Ugualmente estranei all’allegria dei piccoli e ai discorsi dei grandi, stanno… altrove, sprofondati in qualche poltrona, connessi con qualche IPOD o cellulare. Chi potrà dire loro che questo evento natalizio riguarda anche la loro vita e il loro futuro, che i protagonisti non sono i pastori di 2000 anni fa, ma tutti coloro che oggi sono lontani dai centri di potere, tutti coloro che puzzano quando ci avvicinano in metropolitana, tutti coloro che vengono sospinti sulle torri, sulle ciminiere, sui tetti per gridare la loro disperazione di disoccupati? Tutti coloro che ancora attendono un mondo di giustizia e di pace.
Chi potrà comunicare la bella notizia di oggi, che una mamma straniera, oggi, ha potuto partorire in ospedale senza essere denunciata? Vorrei stanarli dal loro isolamento, sconnetterli dalla rete di amici virtuali. Aspetto il momento opportuno; ma ecco che mi compaiono davanti, già pronti per uscire, rigorosamente incappucciati. Qualche anno fa se i ragazzi uscivano intorno a mezzanotte, nella notte di Natale, potevamo pensare che andassero a Messa. Ma oggi dove possono andare a quest’ora in una grande città, se non amano né la chiesa né la discoteca? Forse a condividere l’ultimo spinello con gli amici del muretto? O forse a riscoprire la magia del Natale in una piazza affollata e animata da una musica rap a tutto volume? Due ipotesi ugualmente possibili.
Li saluto con un bacio e trattengo a stento qualche lacrima per questo Natale senza nascita di relazione.
 
 
UN GESTO DI RICONOSCENZA SEGNO DI PACE
Margherita Zanol
Martedì 23 dicembre alla Scuola delle Mamme, dove insegniamo Italiano alle mamme immigrate. La maggior parte di loro è di religione musulmana. Le vacanze di Natale sono pertanto vissute da noi nel loro aspetto ludico: torroncini, un piccolo regalo da parte di Fioretta, l'altra insegnante della nostra classe, il castagnaccio fatto da lei, per rispetto alle mamme di religione copta che, in preparazione al Natale, non possono magiare grassi animali (niente panettone quindi).
Alla fine della lezione, ci scambiamo gli auguri e un arrivederci a dopo le vacanze. In questo momento di allegria, Sahar si avvicina a Fioretta e a me con due pacchetti: «So che vi fate i regali; questo è il mio regalo per voi». Una bottiglia di olio, avvolta nell'alluminio argento. «Sahar -dico io- grazie! Sei molto gentile!» «Siete voi gentili, maestre» ci dice e si allontana a prendere il suo bambino.
In questi giorni ci sono validi motivi di timore, dolore, indignazione per l’intolleranza verso i cristiani che affiora in certe zone del mondo islamico. I copti in Egitto stanno vivendo una persecuzione annosa, costante e feroce; il terrorismo islamico sta compiendo stragi di cristiani mentre i governi dei paesi interessati sono inerti. Nonostante questo però, tocco con mano che il processo di integrazione sta avanzando. E, forse, è più avanzato di quanto crediamo. Una rondine non fa primavera, si dice. Certo, rimane però che il regalo di Sahar, nella sua carta di alluminio, è di quelli che ricorderò a lungo. Alla faccia di quei nostri parlamentari che fanno passeggiare i maiali sul terreno previsto per una moschea.
 
sottovento                                                             g.c.  
In un paese civile e cristiano -Confesso un piccolo vizio al quale di tempo in tempo mi abbandono, sempre con un qualche sottile piacere: andare a rivedere i ritagli che, in quantità spesso eccessive, ripongo quasi quotidianamente senza classificarli, con l'idea che magari lo farò, ma a tempi migliori. Questi, talvolta vengono, talvolta no, ma, prima o poi, accade che molti ritagli non resistono al tempo, prima perdono qualche compagno e poi i più finiscono nel borsone della carta da macero.
Questa lettera invece, comparsa su Repubblica dello scorso 24 luglio, ha resistito a tutte le revisioni fino a oggi, e ora mi sembra proprio che meriti addirittura di andare in pagina. Eccola:
In un paese civile e cristiano, dove moltissima gente si agita al solo pensiero che siano tolti i crocifissi dalle aule scolastiche, in un paese civile e cristiano ove ha sede la Chiesa, come si risolve il problema di una mamma che dà alla luce un bambino e guadagna solo 500 euro al mese? È sin troppo ovvio. Interviene lo Stato del paese civile e cristiano e aiuta la mamma ad allevare dignitosamente il suo bambino. Se a qualcuno, infatti, venisse la crudele idea di togliere il piccolo alla madre, ci sarebbe una sollevazione popolare, e soprattutto la sollevazione indignata della Chiesa, la quale, se si agita al solo pensiero che si tocchi un embrione, figurarsi se potrebbe mai accettare che si tocchi un bambino! Eppure i giudici del Tribunale di Trento hanno sottratto il bimbo appena nato alla povera mamma povera, come se fosse un cagnolino.
C'è bisogno di altre parole? No comment.
Ma che dire di Wikileaks? -  Dopo il primo impatto è ora generalmente convenuto chenon ha detto niente di straordinario, ma solo conferme di quanto molte persone -è vero: forse solo quelle più informate- in fondo già sapevano. L'importante era, ed è, solo sapere che certe notizie passavano l'atlantico…
Prendiamo un nome a caso: Massimo D'Alema. In un messaggio al governo del suo paese, Ronald Spogli, ambasciatore Usa a Roma, nel 2008 scrive che questi gli avrebbe detto come, «sebbene la magistratura italiana sia tradizionalmente orientata a sinistra…, [essa] è la più grande minaccia allo stato italiano». D'Alema, naturalmente, ha smentito. Ora il problema è: questi funzionari sognano e mandano in giro chiacchiere a caso, meglio: fraintendimenti, oppure di solito ci azzeccano e solo nel caso D'Alema hanno preso un abbaglio? Lui ha subito dichiarato: «il giudizio… non corrisponde al mio pensiero». Peccato che il Corriere della Sera sia venuto in soccorso alla memoria, alla nostra, ma anche a quella dell'interessato, ricordando che -anche talvolta in contrasto con settori del suo partito- già nel 1993 definì il Pool di Mani Pulite «il soviet di Milano»; nel 1997 dichiarò: «Non sono del partito dei giudici, ma del partito dello stato di diritto» e nel 2007 (caso Consorte Bnl Unipol) parlò di «suk arabo delle intercettazioni, sotto lo sguardo trascurato della magistratura».
L'occasione di queste vicende riporta alla mente quanto ebbe a dire Nanni Moretti a Piazza Navona nel 2002: «Io continuerò a votare Pd…, ma con questi dirigenti non vinceremo mai».o tutt
segni di speranza                                                                     s.f.  
QUESTI È IL MIO FIGLIO DILETTO IN CUI MI SONO COMPIACIUTO
Matteo 3, 13-17
È il servo sofferente sul quale è sceso lo spirito del Signore, su di lui si sono aperti i cieli e una voce lo ha presentato come «il figlio diletto». Battezzato da Giovanni, Gesù di Nazareth sembra aver acquisito una identità e una consapevolezza nuova, e inizia la sua vita pubblica. Tutti gli evangelisti ricordano l’episodio in termini praticamente uguali; l’episodio quindi per tutti non deve essere dimenticato, ha un rilievo particolare. Come primo atto, invita l’uomo a liberarsi dall’orgoglio e a impostare la propria vita su valori autentici, perché il possesso e il potere non sono le chiavi per la felicità.
Forse Gesù era un uomo come noi, ma, con l’aiuto dello Spirito sceso su di Lui, ha conseguito una identità e una consapevolezza nuova. Noi riteniamo che lo Spirito operi anche in noi, quindi anche a noi è accessibile questa consapevolezza di valori autentici. Forse non sappiamo se la investitura dall’alto vada considerata come una dichiarazione, una manifestazione, una interferenza, o che altro, ma, dopo l’evento ricordato, Gesù è risultato il primo di una catena umana, giunta fino a noi e che coinvolge anche noi, per portare avanti il progetto uomo, comunicando con la vita che la realizzazione di sé stessi passa attraverso l’aiuto e il servizio agli altri e non con il loro assoggettamento.
In questo modo si è disvelata a noi la nostra natura autentica e la missione di vita. Purtroppo dopo tanti anni quella consapevolezza attende ancora di essere trasformata in scelte di vita generalmente condivise e accettate. Il pensiero non è sufficiente perché si tratta di essere, dello stile della vita. Comunque, quella potenza creatrice, che chiamiamo Spirito, ci potrebbe realmente trasformare se non ponessimo resistenze e operassimo conseguentemente. La scintilla divina racchiusa nella nostra coscienza ci guida verso la obbedienza a questa natura.
L’evoluzione umana, quindi, anche se evolve occasionalmente, può forse avere questa destinazione ultima: acquisire cioè una consapevolezza corretta della nostra natura. Ma la realizzazione di questa evoluzione, dice Carlo Molari, può realizzarsi solo con la offerta e lo scambio reciproco di atti e gesti di amore; questo è quindi il ruolo e la funzione di ciascuno di noi nello sviluppo del creato. Ma in che cosa riteniamo che questo sviluppo possa consistere concretamente? Forse nel raggiungere forme di vita governate dalla giustizia, con minori squilibri di quelli che vediamo ogni giorno, dove tutte le componenti si compongano in una convivenza più armonica e la figura finale dell’uomo possa forse essere simile al Figlio del Padre, di cui le scritture dicono che il Padre fosse alla ricerca. La perfezione dell’uomo infatti potrà forse essere avvicinata alla fine di questa evoluzione: non era certamente perfetto l’Adam della origine.
Celebrazione ambrosiana del Battesimo del Signore
schede per leggere                                             m.c.   
Solar (Einaudi 2010, pagg. 339, euro 20,00) è l’ultimo libro di Ian McEwan, uno dei più importanti scrittori inglesi contemporanei, di cui più volte si è parlato su Notam (v. nn. 267, 269, 310). La sua scrittura, semplice e incisiva, rivela in ogni scritto una profonda conoscenza dell’umano sentire, capace di portare alla luce ciò che si cela nei più reconditi spazi dell’anima; il suo narrare, velato sempre da un radicale pessimismo, ha una vasta gamma espressiva, capace di passare, da serie analisi e osservazioni, a toni di esilarante comicità.
Protagonista della storia è Michael Beard che, dopo aver conseguito il premio Nobel per la fisica, non ha più nulla da dire di nuovo se non gestire la posizione di potere acquisita; calvo, basso, grasso, ma molto amato dalle donne nonostante l’aspetto, è la quintessenza dei vizi capitali, gola e lussuria in particolare. Tutto ciò, nell’arco di nove anni, lo porterà a tradire mogli, amanti e amici, a impossessarsi del progetto di un giovane allievo per una energia pulita prodotta dalla trasformazione dell’acqua con pannelli solari, fino alla costruzione nel deserto del Messico di un mega-impianto che dovrebbe servire a salvare il mondo. Alla fine, verranno tutti i nodi al pettine?
Attraverso questo personaggio sgradevole, a volte penoso o insopportabile, McEwan, con il suo inconfondibile stile, vuole stigmatizzare l’avidità, l’egoismo e l’insensatezza che rende gli uomini indifferenti al degrado della terra, e alle disastrose conseguenze del processo di riscaldamento del pianeta. Come sempre, la documentazione scientifica è molto accurata, anche se la difficoltà del linguaggio tecnico rende a tratti faticosa la lettura di un testo intrigante, e spesso veramente divertente. 
Quasi un abbecedario, AsSaggi biblici (Ancora 2010, pagg. 281, euro 15,00) raccoglie una serie di saggi sulla Bibbia, scritti da diversi docenti della Facoltà teologica del-l’Italia Settentrionale e raccolti da Franco Manzi, con lo scopo di offrire strumenti per meglio comprendere la Bibbia, anima della teologia, come sottolinea il sottotitolo.
Dopo le questioni preliminari presentate da Davide D’Alessio, che tracciano il processo di formazione del testo e i problemi del suo valore ispirato, segue una dotta, essenziale sintesi di Gianantonio Borgonovo sul Primo Testamento: alla diffusa ignoranza che sembra non tener conto dell’impossibilità a «decifrare» il Nuovo Testamento senza L’Antico nel quale trova le sue radici (come ribadisce la stessa Pontificia Commissione Biblica), lo studioso offre gli elementi essenziali per conoscere il pensiero religioso ebraico, la sua storia, la sua cultura, le influenze del mondo esterno, le modalità di interpretazione, in una lezione che mi pare davvero preziosa e illuminante.
Sintetica, ma chiara e puntuale, è l’esposizione a cura di Pierantonio Tremolada dei quattro Evangeli, utile anche ha chi ne abbia una lunga dimestichezza, perché aiuta a discernere l’arco narrativo e i punti salienti di ciascuno dei testi, che non finiremo mai di meditare e approfondire. Così interessante mi sembra la panoramica di Franco Manzi sulla Chiesa primitiva, con i commenti alle lettere di Paolo ai Romani, agli Efesini e ai Colossesi; alla Lettera agli Ebrei; e infine all’Apocalisse.
AsSaggi biblici non è un libro di eclatanti novità: molte cose, per chi ha l’abitudine di frequentare la Scrittura, sono già state assimilate, e divenute cibo quotidiano; può però essere novità per chi voglia completare un percorso appena iniziato, e per alcuni aspetti meno conosciuti, come la rilevanza, nell’interpretazione, delle forme letterarie proprie di testi molto diversi fra di loro, o il richiamo alla tradizione enochica che, pur rifiutata dal giudaismo ufficiale, testimonia la vivacissima dialettica presente fino alla fine del I sec. d.C. e che ha comunque influenzato largamente, nell’affrontare la problematica dell’origine del male, anche la tradizione cristiana.    
la cartella dei pretesti 
Cristo, che pur viveva in una società ben differente dalla nostra, ma pur misera e oppressa, dimostrò che ogni luogo e ogni incontro sono occasioni fruttuose per annunciare il Regno di Dio. Lo è, quindi, anche la modernità e la post-modernità che, sotto la coltre delle macerie, continua a custodire «il bulbo della speranza» pronto «a fiorire alla prima primavera», come scriveva il poeta Mario Luzi.
GIANFRANCO RAVASI, Moderno e post-moderno, Jesus, gennaio 2011.
In questi anni siamo stati investiti da una realtà virtuale accompagnata da un bombardamento mediatico capace di farci credere che il benessere coincidesse col possesso degli oggetti. E invece il benessere è il valore della vita e delle persone. È la disponibilità verso l'altro che soffre, non comprarsi il decimo panettone. Ciascuno guarda al proprio bene, ma io dico che per il proprio bene è necessario che anche gli altri non soffrano. Da questo passa l'armonia della società sennò sarà la guerra e dovremo mettere cancelli e inferriate ovunque come succede in Brasile. Ecco nel mondo contadino ci si preoccupava se il vicino non aveva da mangiare oppure si era sensibili nei confronti dell'anziano che magari aveva bisogno solo di una visita al giorno. Questo era il patrimonio del mondo contadino, specie in Emilia Romagna. Ma nessuno te lo imponeva: era naturale che fosse così.
GIORGIO DIRITTI, intervista, La Repubblica Bologna, 12 gennaio 2011.
L’arrivo in Europa di tanti immigrati ha messo a nudo la fragilità delle fondamenta di gran parte della tradizionale collaborazione missionaria. Molta carità, commovente e non raramente eroica, non ha fatto mutare il frutto della fraternità. Una fraternità si fonda sulla coscienza che siamo tutti uguali, qualunque sia il suolo che calpestiamo su questo pianeta.
GIAMPIERO BARESI, missionario, Fratelli, non mendicanti, Nigrizia, gennaio 2011.
Hanno siglato le rubriche: 
Giorgio Chiaffarino, Sandro Fazi, Mariella Canaletti.
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
Pro manuscripto
Per non ricevere più Notam, rilanciare il messaggio indicando all'oggetto: cancellare dalla lista
L’invio del prossimo numero 367 è previsto per LUNEDÌ 7 febbraio 2011
 


Scarica sul tuo PC la lettera del
17 gennaio 2011 - S. Antonio abate - Anno XIX - n. 366


 

Vai all’indice di Notam per leggere le altre lettere



Marted́ 18 Gennaio,2011 Ore: 11:36
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
NOTAM - Lettera agli amici del gruppo del Gallo di Milano

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info